Il reato di diffamazione a mezzo stampa e la reputazione

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  1. Il reato di diffamazione.

La diffamazione, così come l’ingiuria, consiste in una manifestazione del pensiero[i][1], che rileva, ai fini della consumazione del reato, nella misura in cui l’espressione offensiva venga a conoscenza di un’altra persona o comunque sia da altri percepita.

L’offesa è rivolta nei confronti della reputazione della persona – che al momento possiamo intendere come la “personalità sociale”, il valore sociale di un determinato individuo – che può essere lesa o messa in pericolo da chiunque attribuisca al soggetto interessato qualità o fatti in qualche modo disonoranti. Tale offesa implica in concreto, ma non necessariamente, che la persona si senta colpita nel proprio onore e che ne risenta la sua reputazione in termini di perdita di stima. Ma, dal momento che si verte nel campo dei beni morali, non è facilmente accertabile se questi vengano lesi effettivamente ovvero solo potenzialmente.

A questo punto occorre domandarsi se si tratti di reato di lesione o di pericolo e valutare, dunque, se la ratio della norma incriminatrice si identifica con la lesione ovvero con il pericolo di lesione del bene-reputazione. Ciò rileva al fine di determinare il grado di tutela del bene giuridico in questione (rendendo incerto il momento consumativo del reato).

Si premette che il reato si consuma nel momento in cui l’espressione offensiva è comunicata ad altre persone e si verifica la diffusione della propalazione offensiva. Dal testo della norma sembra desumersi che, in caso di comunicazione fatta separatamente a più persone, la consumazione segue la seconda comunicazione e tutte le altre rilevano ai fini della gravità del reato per il maggior danno che ne deriva.

La Suprema Corte di Cassazione ha affermato sul punto che “la diffamazione è un reato formale ed istantaneo che si consuma con la comunicazione con più persone lesiva dell’altrui reputazione onde diviene irrilevante, ai fini del perfezionamento della fattispecie, una maggiore espansione quando si sia realizzata la propalazione minima, sempre che si rimanga nello stesso contesto di azione”[ii][2].

Secondo parte della dottrina siamo in presenza di un reato di pericolo e non è necessario, per la configurabilità del reato, che “il biasimo abbia trovato credito presso coloro che lo hanno appreso e, quindi, non si esige che la reputazione sia distrutta o diminuita”[iii][3]. Secondo altra parte della dottrina si tratta, invece, di un reato di danno e l’offesa presa in considerazione dalla norma è l’effettiva lesione del bene-reputazione[iv][4].

La lettera della norma sembra deporre nel primo senso, dal momento che manca in questa un richiamo espresso all’effettiva perdita di stima. In ogni caso le difficoltà di inquadramento nell’una o nell’altra categoria di reati dipendono anche dalla natura del bene tutelato, che non consente una sua precisa e concreta identificazione.

Riguardo alla configurabilità del tentativo, questo potrebbe anche configurarsi in astratto, ma la possibilità che si realizzi in concreto è limitata anche dal fatto che, essendo un reato perseguibile a querela di parte, si presuppone, perché si configuri, che il soggetto passivo sia venuto a conoscenza dell’offesa rivoltagli.

  1. Il bene giuridico tutelato.

Si ha diffamazione tutte le volte in cui taluno, “comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione” e non ricorra in concreto una fattispecie di ingiuria.

Tale ultima precisazione, contenuta nella clausola “fuori dei casi indicati nell’articolo precedente”, sta a significare che un primo requisito negativo del reato in questione è l’assenza dell’offeso, il quale si trova nell’impossibilità di giustificarsi ed eventualmente rispondere all’offesa.

È proprio da ciò che discende, peraltro, la maggiore gravità della diffamazione rispetto all’ingiuria “per la maggiore quantità ed estensione del danno e per la viltà e la particolare pericolosità del colpevole”[v][5].

A tale requisito negativo se ne aggiunge un altro, che incide sulla struttura del reato e sulle modalità di aggressione del bene tutelato dalla norma, dato dalla divulgazione dell’offesa. L’azione incriminata si verifica, dunque, rendendo edotte altre persone della notizia diffamante nei confronti di qualcuno, che è assente, il quale ne riceve nocumento per la sua reputazione.

L’offesa alla reputazione costituisce il nucleo della norma incriminatrice, che punisce chi cerca di scalfire e, in effetti, scalfisce la stima di cui taluno gode tra i consociati, ciò che costituisce il valore sociale della persona. La ratio della norma è evidente nelle ulteriori previsioni che aggravano la fattispecie di reato in argomento, previsioni che sanzionano con maggiore rigore la diffamazione che avviene mediante la stampa o che consiste nell’attribuzione di un fatto determinato. È agevole notare che in presenza di tali circostanze aumenta l’idoneità offensiva della condotta posta in essere dall’agente e la reputazione dell’offeso risente di un danno più grave.

La norma de qua è collocata nel capo II, “Dei delitti contro l’onore”, del titolo XII, “Dei delitti contro la persona”, del libro II del codice penale. Tale titolo prevede e punisce i delitti che offendono direttamente beni essenziali dell’individuo e tra questi è ricompreso, per l’appunto, l’onore. Giova rammentare che i delitti contro l’onore, contenuti del capo in esame, sono due: oltre alla diffamazione è sanzionata anche l’ingiuria. Nel codice è, comunque, possibile rinvenire altre offese all’onore sanzionate penalmente, ma si tratta di fattispecie incriminatrici che prendono in considerazione la lesione di interessi di maggior rilievo sociale.

Basti pensare all’abrogazione della norma che prevedeva e puniva il reato di oltraggio a un pubblico ufficiale (art. 341 CP), che è stata considerata dalla giurisprudenza norma assorbente rispetto a quella che prevede il reato di ingiuria. Norma quest’ultima che contiene solo una parte delle fattispecie che dapprima potevano essere ricondotte nell’ambito di applicazione della prima norma, che “tutelava alternativamente il prestigio o l’onore del pubblico ufficiale” e non “l’onore e il decoro della persona offesa”[vi][6].

Autorevole dottrina intende per onore “il complesso delle condizioni da cui dipende il valore sociale della persona, l’insieme delle doti morali, intellettuali, fisiche e delle altre qualità che concorrono a determinare il pregio dell’individuo nell’ambiente in cui vive”[vii][7]. Vengono, dunque, in rilievo sia l’aspetto soggettivo (le qualità delle persona) che quello oggettivo (il valore sociale) dell’onore.

La dottrina germanica, invero, sottolineando il profilo soggettivo del bene-onore, sosteneva che quest’ultimo, in quanto racchiude il valore intrinseco dell’uomo, non può in alcun modo essere leso da un altro uomo[viii][8].

Il nostro ordinamento considera l’onore sotto due aspetti l’uno di natura soggettiva, l’altro di natura oggettiva, che vanno oltre il valore più intimo dell’uomo. Il primo consiste in ciò che la dottrina ha definito come il “sentimento del proprio valore sociale” ed è rimesso all’apprezzamento dell’individuo stesso, mentre il secondo – ed è quello che più ci interessa – è rappresentato dal giudizio degli altri sulle sue doti, dalla reputazione e dalla considerazione di cui gode nella comunità. Ciò vale anche quando la lettera dell’art. 594 CP sembra riferirsi all’onore come all’insieme delle qualità morali, indicando le altre qualità col termine decoro.

La lettera del codice penale è chiara nel ricomprendere nell’ambito del reato di ingiuria la lesione dell’onore e in quello del reato di diffamazione l’offesa della reputazione. Come precisato entrambi i termini afferiscono al concetto principe di onore.

Del resto, mediante le dichiarazioni ingiuriose o diffamatorie non si fa altro che attribuire a un soggetto qualità o fatti disonoranti, in grado di ledere tanto il sentimento del proprio valore sociale, quanto la reputazione dell’individuo. Malgrado, soprattutto in passato, si sia tentato da parte di alcuni autori[ix][9] di relegare l’offesa alla reputazione nell’ambito della diffamazione e quella al sentimento dell’onore nell’ambito dell’ingiuria, non si può negare che in concreto il fatto criminoso possa avere ripercussioni su entrambi gli aspetti.

D’altronde, la giurisprudenza in tema di diffamazione non parla soltanto di opinione o stima di cui gode l’individuo, ma anche di “senso della dignità personale in conformità all’opinione del gruppo sociale”[x][10] o ancora di “decoro professionale”[xi][11]. Vieppiù, sembra riconoscersi l’esistenza di un minimum di personalità sociale, che rende doveroso un corrispondente rispetto minimo nei confronti di tutte le persone. Al di là di tale soglia viene, poi, riconosciuta un’ulteriore tutela della reputazione, che è collegata alla posizione sociale che riveste il soggetto interessato. Rilevano, quindi, anche le qualità della persona offesa.

Indubbiamente, si tratta di una considerazione “astratta” delle particolari doti sociali della persona che procede per categorie: si parla in proposito di relatività della reputazione e nelle ipotesi concrete l’offesa va commisurata al rispetto medio dovuto alle diverse categorie degli avvocati, dei magistrati, degli sposi et coetera.

Il minimum di valore sociale tutelato è da rapportare al contesto sociale in cui è inserito e, su tali basi, la giurisprudenza ha affermato che non integra il reato di diffamazione la mera “infrazione alla suscettibilità e alla gelosa riservatezza” del soggetto passivo, avuto riguardo non solo alla totalità della popolazione, ma anche ai più limitati contesti di categorie professionali e di specialisti di un determinato settore[xii][12]. Di tal guisa, il sentimento del proprio valore sociale, sul piano squisitamente oggettivo e quindi della reputazione, è “limitato” dall’apprezzamento che la comune opinione fa o può socialmente fare su quella data persona. È ciò che rileva in tema di diffamazione.

Sintetizzando, la relatività del concetto di reputazione si ricollega, anzitutto, al momento storico di riferimento (basti pensare all’epiteto “fascista” utilizzato oggi in raffronto al ventennio fascista), in secondo luogo al contesto sociale e, infine, al più limitato eventuale ambito di categoria cui appartiene l’offeso. Inevitabilmente, si tratta di un concetto elastico “i cui parametri sono destinati a non rimanere fissi nel tempo bensì a seguire … il mutamento della cultura e dei costumi sociali”[xiii][13].

Nondimeno, per verificare tale concetto è necessario “tenere presenti tutti gli indici che siano suscettibili di assumere rilievo al fine di individuare consistenza ed estensione della reputazione di un determinato soggetto”[xiv][14]. Pertanto, dal momento che la reputazione racchiude in sé le peculiarità personali, familiari e lavorative di un dato individuo, non si può non tenere in considerazione anche queste per valutare l’idoneità offensiva della comunicazione che si reputa diffamante. Non si tratta di spostare sul piano soggettivo il concetto di reputazione, che per forza di cose è intrinsecamente oggettivo, ma di rapportarlo alla posizione sociale o professionale dell’offeso, la cui reputazione proprio in ragione di tale considerazione potrebbe anche non ritenersi lesa o messa in pericolo.

Si pensi, ad esempio, a Sempronio che dichiara a più persone l’ignoranza di Tizio in una data disciplina, che nulla ha a che vedere con questi per professione, ambiente sociale in cui opera, etc.. In tale ipotesi lo stato o il grado sociale di Tizio potrebbe far considerare le dichiarazioni di Sempronio offensive della reputazione di Tizio? potrebbe costui, che non ha mai studiato diritto penale, offendersi perché qualcuno ha detto ad altri che non conosce quella particolare categoria di reati che la dottrina germanica denomina “Ausserungsdelikts”?

Quanto affermato sopra risulta di notevole rilevanza, perché la verifica della natura diffamatoria delle “comunicazioni” dell’agente è essenziale per l’accertamento del reato. Infatti, sembra banale dirlo, perché possa configurarsi la diffamazione, deve sussistere l’offesa alla reputazione. Se già, in virtù dell’accertamento di fatto operato dal giudice, non si riscontrerà l’idoneità offensiva della condotta, perché ad esempio l’ambiente in cui è stata posta in essere o il suo particolare contesto consentono di esprimersi in termini quasi offensivi, l’indagine sull’elemento oggettivo del reato porterà alla conclusione che il fatto non costituisce reato.

Si pensi alla lotta politica e alle espressioni pungenti e suggestive, sovente, utilizzate dai politici per apostrofare colleghi e personaggi pubblici, al fine di comunicare più efficacemente con i cittadini e carpirne il consenso[xv][15]. Peraltro, anche coloro che ascoltano, da spettatori, tali dibattiti tra politici non colgono il significato offensivo ex se dell’espressione eventualmente utilizzata, se non come strettamente collegato al problema di interesse pubblico, più rilevante, su cui si controverte[xvi][16].

Se nel caso appena citato la tutela della reputazione viene contenuta dal particolare contesto in cui si realizza la comunicazione offensiva, la relatività del concetto di reputazione non può però comportare una modifica in peius della tutela apprestata dall’ordinamento quando una data persona sia per qualsivoglia motivo disistimata o disonorata. Il che vuol dire che quel minimum di valore sociale, di cui parlavamo prima, va riconosciuto a tutte le persone, che, in quanto tali, hanno una dignità personale e un diritto all’integrità morale che è indipendente dalla buona o cattiva fama posseduta.

Il rispetto sociale è dovuto a chiunque e il nostro ordinamento non può tollerare aggressioni alla reputazione di soggetti, che, pur essendo già compromessi per altri motivi, non possono avere lesa la propria dignità personale o professionale impunemente. Ciò, del resto, contrasterebbe con i principi della nostra Carta costituzionale e, in particolare, con l’art. 3, che – come detto – assicura pari dignità sociale a tutti i cittadini.

La giurisprudenza in tali ipotesi ha ritenuto, più volte, di tutelare l’onorabilità di tutte le persone, anche in presenza di eventi disonorevoli, “essendo la reputazione tutelata tanto come stima che una persona si è conquistata presso gli altri per i suoi meriti, quanto come rispetto sociale minimo cui ogni persona ha diritto, in quanto tale, indipendentemente dalla buona o cattiva fama che abbia”[xvii][17].

È vero, dunque, che taluno possa godere di una maggior tutela della propria reputazione per la posizione sociale o professionale che riveste in seno alla comunità, ma non è altrettanto vero che altri possano risentire delle loro malefatte con gratuite e ulteriori aggressioni diffamatorie a discapito della loro dignità personale. La Corte di Cassazione ha mantenuto tale orientamento anche trattando del diritto di cronaca giudiziaria.

È il caso solo di accennare all’orientamento di una parte della dottrina, secondo cui, invero, in tali ipotesi non si potrebbe garantire la tutela dell’onore a chi ha una reputazione negativa, realizzandosi vieppiù un’ipotesi di reato impossibile ai sensi dell’art. 49 CP[xviii][18].

Occorre, infine, operare la distinzione tra la lesione del bene giuridico della reputazione e quella del bene dell’identità personale, al fine di delimitare l’ambito delle condotte offensive che possono configurare una responsabilità penale per diffamazione.

In genere, quando viene diffusa una determinata notizia o una raffigurazione che incide in qualche misura sul giudizio che altri possano avere sulla persona, oggetto della notizia e della raffigurazione, e sul suo valore sociale, può configurarsi una fattispecie di diffamazione ex art. 595 CP. Perché ciò accada è, però, necessario che si realizzi un’offesa alla reputazione e non basta che “vi sia distorsione della effettiva identità personale o alterazione, travisamento, offuscamento, contestazione del patrimonio intellettuale, politico, sociale, religioso, ideologico, professionale”[xix][19]. In questi ultimi casi potrebbe, al più, configurarsi un illecito civile per lesione del diritto all’identità personale.

Così, ad esempio, mentre non costituisce reato il fatto che il giornalista esprima in certi termini la scelta politica di un dato soggetto, potrebbe ravvisarsi una sua responsabilità penale nel momento in cui attribuisce alla stessa persona un’opinione che costituisce “un abuso della libertà di manifestazione per il suo contrasto con valori fondamentali comunemente sentiti”[xx][20]. In alcuni casi, poi, potrebbero sussistere entrambe le lesioni, come nel caso in cui le propalazioni offensive concernano i compiti istituzionali di un magistrato, offeso in ugual misura nella sua reputazione e nella sua dignità ed identità personale[xxi][21].

Note:

[i][1] Per tale motivo la dottrina germanica ha fatto rientrare entrambe le fattispecie indicate nella categoria di reati denominati “Ausserungsdelikts”.

[ii][2] Cass. pen., Sez. I, ord. n. 1524 del 6/07/79.

[iii][3] F. Antolisei, Manuale di Diritto Penale, Milano, Giuffrè, 1966, Parte speciale, I, 138. Dello stesso avviso è Messina S., Teoria generale dei delitti contro l’onore, Roma, 1953, 128.

[iv][4] Nuvolone, L’evento e il dolo nella diffamazione, in Riv. It., 1949, 572.

[v][5] Relazione del Guardasigilli al Re, n. 198.

[vi][6] Cass. pen., Sez. V, sent. n. 13349 del 27/11/1999, in cui si legge: “… nel caso di specie, pertanto, la abrogatio criminis non dà luogo ad una ipotesi di successione di leggi nel tempo”. Si fa riferimento alla depenalizzazione del reato di oltraggio a un p. u., intervenuta con l’abrogazione ai sensi dell’art. 18, legge 25 giugno 1999, n. 205.

[vii][7] F. Antolisei, Manuale di Diritto Penale, Milano, Giuffrè, 1966, Parte speciale, I, 135.

[viii][8] Si tratta di un concetto affermato da Frank, Binding, Liszt.

[ix][9] Ma anche la Relazione ministeriale sembrava deporre in tal senso, ritenendo offeso con l’ingiuria il solo sentimento del proprio onore.

[x][10] Cass. pen., Sez. V, sent. n. 3247 del 24/03/1995. Vedi nota n. 28.

[xi][11] Cass. pen., Sez. V, sent. n. 5945 del 18 giugno 1982, Vinello, in cui si legge: “… l’offesa alla reputazione può anche consistere nell’aggressione alla sfera del decoro professionale”.

[xii][12] Cass. pen., n. 3247, ud. 28/02/1995, in Cass. pen., 1995, 2536, in cui si legge “La reputazione non si identifica con la considerazione che ciascuno ha di sé o con il semplice amor proprio, ma con il senso della dignità professionale in conformità all’opinione del gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico. Non costituiscono, pertanto, offesa alla reputazione le sconvenienze, l’infrazione alla suscettibilità o alla gelosa riservatezza”.

[xiii][13] Trib. Milano, 11/05/2000, in Foro amministrativo, 2000, 318.

[xiv][14] Polvani, La diffamazione a mezzo stampa, 1998, CEDAM, Padova.

[xv][15] Cass. civ., 15/3/2001, n. 31220, Guida al diritto, 2001, 37, 60.

[xvi][16] La Suprema Corte di Cassazione nella sentenza richiamata alla nota precedente parla di “desensibilizzazione della opinione pubblica sul significato di alcune parole e di certe frasi … le quali comunemente, nell’ambito dei rapporti privati, sarebbero offensive”.

[xvii][17] Trib. Roma, 14/6/1990, Diritto dell’informazione e dell’informatica, 1991, 594. Cass. 17/12/1991, D. Inf., 1992, 953.

[xviii][18] Corrias Lucente, Il diritto penale dei mezzi di comunicazione di massa, CEDAM, 2000, Padova. Le Pera, Intervista giornalistica e responsabilità del cronista per il reato di diffamazione, Giudice di Pace, 1993, 210.

[xix][19] Cass. pen., 6/11/1992, in Mass. Cass. pen., 1993, 33.

[xx][20] Cass. pen., 20/2/1995, in Cass. pen., 1996, 226. Cass. pen., 12/12/1986, in Rivista penale, 1988, 203.

[xxi][21] Trib. Roma, 19/6/1986, in Diritto dell’informazione e dell’informatica., 1988, 439.

Cultrera Stefano

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