Arbitrato: applicazione in materia di investimenti internazionali e ambiente

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Esistono numerose criticità inerenti al funzionamento del sistema arbitrale per la risoluzione delle controversie in materia di investimenti internazionali. I maggiori problemi possono essere raggruppati intorno a tre categorie principali, vale a dire la criticità procedurali del sistema di risoluzione delle controversie, le criticità sostanziali del sistema di risoluzione delle controversie, nonché le criticità sostanziali legate al conflitto “strutturale” tra interessi degli investitori ed interessi confliggenti degli Stati legati alla tutela di rilevanti interessi pubblici.

Partiamo con l’analisi delle criticità procedurali del sistema di risoluzione delle controversie (assenza di autonomia e indipendenza dei giudici, assenza di controllo democratico sui giudici, assenza di trasparenza nel procedimento arbitrale).

Riguardo tali criticità procedurali relative alla risoluzione delle controversie in materia di investimenti internazionali è opportuno menzionare in primo luogo il problema dell’assenza di autonomia e indipendenza dei giudici, che deriva essenzialmente dalle regole previste per la loro nomina nell’ambito della Convenzione ICSID.

In questo quadro regolamentare, infatti, il tribunale arbitrale è comporto da tre giudici, scelti uno ciascuno dalle due parti contendenti, mentre il terzo viene identificato di comune accordo. Un simile sistema ha generalmente il supporto della maggior parte degli Stati, in quanto viene percepito come un metodo di scelta dei giudici potenzialmente più vicino agli specifici interessi degli Stati coinvolti nella controversia, rispetto a quanto avverrebbe nel caso di un tribunale indipendente precedentemente costituito, sul modello ad esempio della Corte internazionale di giustizia oppure, in maniera parzialmente diversa, dall’Organi di Appello del WTO. Pertanto, un tale sistema di scelta dei giudici adottato per la risoluzione delle controversie sugli investimenti internazionali comporta un elevato rischio che i giudici selezionati dalle Parti vengano scelti proprio in base dello loro scarsa indipendenza ed in considerazione della loro già nota o manifesta vicinanza o aderenza agli interessi specifici o alle esigenze dello Stato in questione in una determinata controversia.

Questo sistema sembra quindi porsi in diretta linea di collisione con i principi generali del diritto in materia di autonomia e indipendenza dei giudici rispetto alla materia del contendere[1].

Altra problematica, strettamente connessa alla precedente, riguarda la questione dell’assenza di un controllo decomocratico sull’operato dei giudici facenti parte dei tribunali arbitrali chiamati a risolvere le controversie internazionali in materia di investimenti nell’ambito del sistema previsto dalla Convenzione ICSID. In tal senso, non solo le regole sulla scelta dei giudici non consentono di assicurare la loro autonomia e indipendenza ma, oltre a ciò l’assenza di meccanismi di controllo sull’operato dei giudici stessi fa sì che sia di fatto impossibile esercitare un controllo democratico sulle loro decisioni e più in generale sul loro comportamento inteso in senso lato.

In accordo con la Convenzione ICSID, infatti, l’unico rimedio possibile per le Parti, per chiedere il riesame di una decisione di un tribunale arbitrale istituito nell’ambito delle Convenzione è quello della richiesta di annullamento della decisione stessa.

Un simile rimedio è però previsto soltanto in alcune specifiche circostanze e soggetto a specifiche condizioni[2]. Pertanto, si può dire che, in questo caso, ci troviamo di fronte a un sistema che non consente un controllo democratico dell’operato dei giudici, malgrado ad essi venga conferito il potere di emettere decisioni in grado di avere conseguenze rilevanti per le economie, per i cittadini e per il territorio dei Paesi coinvolti nella controversia.

Facendo seguito a quanto già detto, va evidenziato che una ulteriore crescita procedurale di particolare gravità inerente l’attuale sistema di risoluzione delle controversie in materia di investimenti internazionali consiste nella sostanziale assenza di trasparenza del procedimento arbitrale. difatti, l’attuale sistema è basato essenzialmente sulla segretezza sia della documentazione fornita dalle Parti, sia del procedimento davanti al tribunale arbitrale. L’origine di tale segretezza va ricercata nella peculiarità dell’attuale procedimento arbitrale in materia di investimenti internazionali che trova la sua genesi nelle controversie arbitrali di tipo commerciale, che riguardano normalmente la definizione di conflitti tra imprese, nell’ambito delle quali l’esigenza commerciale della segretezza costituisce uno degli elementi fondanti del sistema di risoluzione delle controversie.

Il voler traferire molti dei principi e delle regole concepiti per le controversie arbitrali di tipo commerciale fra le imprese, al diverso ambito delle controversie arbitrali tra Stati e imprese in materia di applicazione dei trattati bilaterali o multilaterali sulla promozione degli investimenti internazionali ha comportato l’importazione di pratiche, principi e regole che in quest’ultimo contesto creano al contrario diverse difficoltà. In questo senso si può prendere come esempio la difficoltà rappresentata proprio dalla suddetta assenza di trasparenza del procedimento arbitrale.

Su questo punto, infatti, vanno citate le riforme delle regole di procedura dell’ICSID del 2006 e di quelle della United Nations Commission on International Trade Law (UNCITRAL) del 2010 e del 2013, finalizzate a garantire un più elevato grado di trasparenza dei procedimenti arbitrali in materia di investimenti internazionali[3].

In riferimento alle criticità sostanziali del sistema di risoluzione delle controversie (eccessiva variabilità nell’interpretazione dei principi e delle norme, a causa dell’assenza di un meccanismo di appello che potrebbe assicurare una maggiore coerenza nelle decisioni), va detto che la principale criticità di tipo sostanziale è costituita dall’eccesiva  variabilità nell’interpretazione dei principi e delle norme in materia di investimenti internazionali che caratterizza la giurisprudenza dei tribunali arbitrali.

Avendo come riferimento la giurisprudenza rilevante in materia di rapporto tra investimento e ambiente, il marcato aumento delle controversie decise dai tribunali arbitrali in materia di investimenti internazionali e interessi confliggenti riconducibili alla protezione dell’ambiente o più in generale al macro-obiettivo dello sviluppo sostenibile, che è avvenuto negli ultimi due decenni, ha fatto emergere una forte variabilità nell’interpretazione dei concetti più rilevanti e basilari in materia di investimenti internazionali, quali ad esempio il principio di non discriminazione, il principio dell’equo trattamento degli stranieri o il concetto dell’espropriazione diretta e indiretta, di cui già si è accennato precedentemente.

Una simile variabilità può essere ricondotta a vari motivi, ma, senza dubbio, trova la sua principale cause nell’assenza di un meccanismo di appello dell’attuale sistema di risoluzione delle controversie in materia di investimenti internazionali. In tal senso, l’eventuale presenza di un meccanismo di appello che potrebbe ad esempio essere ispirato al modello dell’Organo di Appello del WTO potrebbe senz’altro contribuire positivamente all’esigenza di assicurare maggiore coerenza nelle decisioni in materia di investimenti internazionali e, nel lungo periodo, potrebbe consentire di sviluppare precedenti giurisprudenziali che servano da punto di riferimento per le decisioni dei successivi tribunali arbitrali. Tutto questo avrebbe l’effetto positivo di rendere la giurisprudenza in materia di investimenti arbitrali più coerente e “più prevedibile” da parte degli stessi Stati coinvolti nelle controversie internazionali, senza necessariamente comportare l’abbandono dell’attuale sistema basato sui tribunali arbitrali ad hoc, che potrebbe rimanere, con o senza eventuali correttivi, come il modello di riferimento per la risoluzione delle controversie in materia di investimenti internazionali nel primo grado di  giudizio.

Pertanto, l’eventuale e auspicabile organo di appello potrebbe essere chiamato ad agire solamente nel secondo grado di giudizio, sul modello di quello che avviene proprio nell’ambito del WTO[4].

Esistono, inoltre, criticità sostanziali legate al conflitto “strutturale” tra interessi degli investitori ed interessi confliggenti degli Stati connessi alla tutela di rilevanti interessi pubblici (la questione dei limiti al potere di regolamentazione degli Stati a tutela dei propri interessi pubblici rilevanti).

Dunque, com’è stato osservato in dottrina anche da Waibel et al, le disposizioni degli accordi bilaterali e multilaterali in materia di investimenti possono talvolta comportare una limitazione al potere regolatorio degli Stati a tutela dei propri interessi pubblici rilevanti, a completo vantaggio della protezione degli investitori internazionali, a favore dei quali si può in taluni casi realizzare un vero e proprio fenomeno di “discriminazione a rovescio”, che di fatto li avvantaggia rispetto ai corrispondenti operatori delle imprese nazionali[5] di un determinato Paese.

Partendo da queste premesse, Mann ha sostenuto che in tale contesto gli accordi internazionali sugli investimenti sarebbero diventati una vera e propria Carta dei Diritti a tutela degli investitori, che non prevede adeguate responsabilità degli stessi e non li obbliga a contribuire allo sviluppo del paese o alla protezione del benessere pubblico collegato alla dimensione ambientale o sociale degli investimenti[6]. In riferimento a questa tesi, in dottrina vi è addirittura chi, come Tienhaara, ha parlato di un vero e proprio fenomeno di “espropriazione della governance ambientale”[7] che sarebbe avvenuto negli ultimi decenni, con il consolidarsi delle norme a protezione degli investitori internazionali contenute negli accordi bilaterali o multilaterali dei progetti di investimento.

Nonostante i vari tentativi di definizione della questione, elaborate dalla dottrina negli ultimi anni, è certo che il proliferare di accordi bilaterali e multilaterali in materia di investimenti, contenenti rilevanti norme a protezione degli investitori internazionali, spesso senza la contropartita di chiare e precise disposizioni sull’ampiezza e sui limiti del potere generale di regolazione che rimane agli Stati dopo la conclusione di tali accordi, ha comportato un sostanziale restringimento nell’ambito di libertà degli Stati di regolamentare l’utilizzo del proprio territorio nel rispetto della tutela degli interessi nazionali rilevanti[8].

Gli interessi nazionali rilevanti, dunque, che possono essere finalizzati alla protezione dell’ambiente, ma anche della salute pubblica e della preservazione del patrimonio culturale, sono tutti riconducibili al più generale concetto di sviluppo sostenibile. Per meglio definire la questione, è necessario chiarire che l’esistenza di disposizioni poste a tutela dei diritti degli investitori negli accordi in questione non impedisce di per sé, almeno in linea di principio, la possibilità per lo Stato di continuare ad esercitare legittimamente il proprio potere di regolazione a tutela dei rilevanti interessi pubblici collegati allo sviluppo sostenibile, anche se certamente comporta una certa limitazione nell’esercizio del potere di sovranità degli Stati.

Pertanto, è sicuramente eccessivo sostenere che gli accordi internazionali in materia di investimenti comportino o abbiano comportato una vera e propria espropriazione del potere di regolazione degli Stati in materia ambientale[9].

A conclusione di quanto sin ora detto, è tuttavia necessario che vi sia una piena consapevolezza delle limitazioni che l’esercizio legittimo del proprio potere sovrano da parte degli Stati, a protezione dei propri interessi pubblici rilevanti, subisce ad ha subito, ed in particolar modo negli ultimi decenni, proprio in relazione allo sviluppo degli accordi bilaterali o multilaterali in materia di investimenti internazionali riducendo sempre più la sfera d’azione degli Stati nel regolamentare l’utilizzo del proprio territorio[10].

La giurisprudenza rilevante in materia di ambiente e quindi di sviluppo sostenibile è da collegarsi in gran parte a casi decisi nell’ambito del già descritto sistema arbitrale di risoluzione delle controversie in materia di investimenti previsto dalla Convenzione ICSID del 1965[11]. In tal senso, sono analizzati i principali temi al riguardo, in particolare si fa riferimento all’interesse pubblico protetto dagli Stati e contestato dagli investitori e quindi le multinazionali, la disciplina dell’equo trattamento dell’investitore e la problematica relativa alla disciplina dell’espropriazione diretta o indiretta, dell’investitore, in conseguenza di atti normativi o amministrativi posti in essere dagli Stati per ragioni legate connesse alla tutela di un proprio interesse pubblico relativo alla protezione dell’ambiente o in ogni caso al macro-obiettivo dello sviluppo sostenibile. In questo quadro d’insieme, dunque, si collocano i diversi interessi nazionali degli Stati che possono talvolta venirsi a trovare in conflitto con gli interessi delle imprese multinazionali che si trovano nel loro territorio.

Il concetto si sviluppo sostenibile è stato esplicitamente riconosciuto come interesse meritevole di tutela a partire dal testo di alcuni accordi multilaterali finalizzati alla promozione del commercio internazionale e degli investimenti delle imprese.

Uno dei più citati esempi in materie è rappresentato dall’art. 915 del NAFTA, contenuto nell’ambito del Chapter Nine dedicato alle Standards-Related Measures, il quale include lo sviluppo sostenibile tra gli obiettivi legittimi che gli Stati possono considerare nella definizione delle loro politiche nazionali in merito alla definizione di misure, procedure o altre regolamentazioni tecniche relative ai prodotti commerciali. In tal senso, l’art. 915 del NAFTA, a proposito di misure legittime recita come segue: “legitimate objective includes an objective such as: (a) safety, (b) protection of human, animal or plant life or health, the environemnt or consumers, including matters relating to quality and identifiabilty of goods or services, and (c) sustainable development, considering, among other things, where appropriate, fundamental climatic or other geographical factors, technological or infrastructural factors, or scientific jutification but does not include the protection of domestic production”.

Con riferimento, invece, alla promozione di iniziative di efficienza energetica, un preciso esempio di obiettivo di tutela di sviluppo sostenibile si trova anche nell’Energy Charter Treaty (ECT), in particolare nell’art. 1(2) del Protocollo “Energy Charter Protocol on Energy Efficiency and Related Environmental Aspects[12], che fa proprio come suo obiettivo la promozione di una politica di energia efficiente che coincide appunto come il concetto di sviluppo sostenibile, così come chiaramente evidenziato nel sopracitato articolo[13].

Nonostante ciò, è da sottolineare che la giurisprudenza arbitrale rilevante del periodo preso in considerazione, non contiene un riferimento diretto al principale obiettivo dello sviluppo sostenibile, ma un riferimento ai più tradizionali obiettivi specifici di public policy degli Stati connessi alla protezione dell’ambiente, alla tutela della salute pubblica e, in alcuni casi, alla conservazione del proprio patrimonio culturale.

Detto ciò, non si può negare l’estrema importanza che il concetto di sviluppo sostenibile ha ormai raggiunto sia nel diritto internazionale generale, che in particolar modo, nell’ambito degli accordi internazionali per la promozione e la protezione degli investimenti transnazionali.   Tale concetto ha la duplice valenza da un lato di rappresentare uno degli obiettivi principali di riferimento che caratterizzano la promozione degli investimenti nei diversi Paesi e dall’altra di costituire l’elemento unificatore di vari motivi legati alla tutela degli interessi pubblici dello Stato che possono giustificare delle restrizioni nella sfera dei diritti delle imprese che decidono di investire all’estero.

Per tali motivi, può risultare particolarmente interessante l’idea di configurare l’analisi del rapporto fra tutela degli investitori internazionali e perseguimento dei propri interessi pubblici dello Stato, come un rapporto tra la necessità della promozione e protezione degli investimenti ed il perseguimento dell’obiettivo dello sviluppo sostenibile[14].

È pacifico, quindi, che l’analisi dell’interesse pubblico protetto dagli Stati, così come emerge dalla giurisprudenza rilevante in materia di investimenti e ambiente, costituisce il primo criterio che prenderemo come riferimento per il presento lavoro di analisi.

Uno dei primissimi casi decisi da un tribunale arbitrale nell’ambito della giurisprudenza ICSID inerente al tema del rapporto tra investimenti internazionali e ambiente è stato il caso Metalclad c. Mexico (2000). Nel caso in esame, l’interesse pubblico sul quale si fondavano le misure di carattere normativo e amministrativo prese dalle autorità federali, statali e locali del Messico riguardavano la protezione dell’ambiente e del territorio nel quale di collocava l’investimento internazionale in questione, relativo alla gestione di un impianto per il trattamento di rifiuti pericolosi. In particolare, in questo caso i principali comportamenti delle autorità messicane contestati dall’investitore straniero protetto dalle norme dell’Accordo NAFTA[15] erano rappresentati in primo luogo dal diniego del rilascio di un permesso a costruire l’impianto per il trattamento di rifiuti oggetto dell’investimento internazionale in questione, che era stato negato a più riprese dalla municipalità messicana competente per territorio, in contrapposizione a quanto previsto dagli atti di assenso all’investimento e dalle risultanza della valutazione di impatto ambientale condotta dalle competenti autorità messicane a livello federale. Bisogna aggiungere, inoltre, che l’investitore aveva anche contestato il decreto dello Stato messicano di San Luis Potosì, che, per motivi legati alla protezione dell’ambiente, nelle more del procedimento autorizzativo per il rilascio del permesso alla costruzione dell’impianto per il trattamento di rifiuti pericolosi oggetto dell’investimento internazionale aveva deciso di ricomprendere il sito dove si sarebbe dovuto realizzare io progetto all’interno di una neo-costituita riserva ecologica, con il fine di proteggere una particolare specie di cactus, privando in tal modo l’investitore della possibilità di esercitare i propri diritti di proprietà sul sito che ha originato il presente caso.

Un altro precedente giusrisprudenziale di particolare importanza è il caso Tecmed c. Mexico (2003), nel quale l’origine della controversia consisteva nel diniego del rinnovo del permesso per la gestione di una discarica di rifiuti che era stato opposto dall’autorità federale per la protezione dell’ambiente del Messico alla Società Tecmed, di nazionalità spagnola, la quale aveva rilevato la proprietà della discarica oggetto del presente caso da una società messicana. Le ragioni di tale diniego da parte dell’autorità federale per la protezione dell’ambiente del Messico si basavano, da un punto di vista tecnico, in una serie di irregolarità amministrative e gestionali legate all’esercizio dell’attività di smaltimento dei rifiuti da parte della società Tecmed, ma erano complessivamente riconducibili alla tutela dell’interesse pubblico del Messico molto attenta alla politica ambientale e di tutela della salute pubblica.

Altro celebre esempio in materia, è il caso Methanex c. Usa (2005). Questa volta la misura nazionale contestata dall’investitore straniero consisteva nella normativa adottata dallo Stato della California in materia di additivi il cui inserimento era permesso all’interno della benzina venduta nel territorio dello Stato stesso. Per tale motivo, lo Stato della California aveva adottato una normativa nazionale che metteva al bando il MTBE, un additivo derivato dal metanolo molto utilizzato per la produzione di benzina. La società Methanex, in realtà, non produceva direttamente il MTBE, quanto invece di metanolo, che vendeva per la maggior parte ai produttori di MTBE.

Dunque, la società in questione aveva avuto un danno rilevante, anche se indirettamente, in conseguenza dell’adozione della normativa californiana. Tale normativa che aveva messo al bando il MTBE era finalizzata al soddisfacimento dell’interesse pubblico legato alla protezione delle acque superficiali e delle acque sotterranee dell’inquinamento causato dalla sostanza in questione.

Pertanto, in tale ultima circostanza si trattava di un intervento diretto alla protezione dell’ambiente realizzato attraverso un atto normativo di carattere generale, e non per il tramite di un atto amministrativo indirizzato ad uno specifico investitore, come poteva essere nei precedenti casi menzionati. L’atto normativo in questione, quindi, aveva comunque provocato dei danni specifici all’investitore Methanex, ed era stato per questo contestato da esso innanzi ad un tribunale arbitrale.

L’investitore contestava innanzitutto i motivi adottati dallo Stato della California a sostegno dell’adozione della propria misura legislativa, ma contestava anche che tale misura in realtà mirava a proteggere indirettamente i propri produttori nazionali americani di etanolo, una sostanza che viene comunemente utilizzata come sostituto del metanolo per la produzione di additivi dei carburanti.

La contestazione era quindi in riferimento all’applicazione del concetto di “circostanze similare” (like circumstances)[16] nella quali avrebbero dovuto trovarsi le diverse parti in concorrenza tra di loro per aversi la prova che vi fosse una violazione del principio del trattamento nazionale.

Il tribunale arbitrale, nel caso di specie, ha sostenuto che non si dovesse necessariamente fare riferimento alle risultanze dell’interpretazione di tale concetto nell’ambito del diritto del commercio internazionale, dove tale concetto è ampiamente utilizzato, ma si dovese invece procedere ad una interpretazione di altro tipo.

Il tribunale arbitrale in questione decise che i produttori di metanolo e di etanolo, pur producendo sostanze potenzialmente sostituibili tra di loro per alcuni usi, come ad esempio quello di additivi per le benzine, complessivamente non si trovavano in circostanze similari tra di essi.

In particolare, il tribunale arbitrale, in riferimento alle circostanze similari, stabilì quanto segue:“Like circumstances: The starting point for Methanex’s analysis of Article 1102 is the proposition that Article 1102 does not require that investment be identical merely that the two investors or investments be in “like circumstances”. On this basis, it is irrelevant that Methanex is in identical circumstances with other US methanol producers and that is not in identical circumstances with US ethanol producers. The sole question is whether Methanex is, as it claims, in like circumstances with US ethanol producers”[17] .

Pertanto, interpretando il concetto delle circostanze simili come sopra riportato, il tribunale arbitrale concluse che: “For all these reasons, the Tribunal decides that Methanex’s claim under Article 1102 fails, for, without regard to the question of causation, the California MTBE ban did not differentiate between foreign and domestic MTBE producers; nor, if it is relevant, did it differentiate between foreign and domestic methanol producers”.

Da un altro importante caso deciso sulla base della Convezione ICSID, vale a dire Bitwater c. Tanzania (2008) emerge il tema della protezione dell’ambiente, in stretta connessione con la tutela della salute pubblica, riferito, in tale specifico caso, non tanto alla qualità delle acque quanto ai diritti dei cittadini di ricevere un’adeguata distribuzione di acqua potabile da parte del soggetto gestore dell’acquedotto pubblico. In questo caso, le autorità nazionali della Tanzania, in risposta alla richiesta dell’investitore internazionale che aveva vinto il bando di gara per la gestione dell’acquedotto pubblico finalizzata alla revisione dei termini del suo contratto di gestione, non avendo trovato un accordo per la rinegoziazione del contratto, procedettero infine alla nazionalizzazione dell’attività, giustificando tale azione come strettamente connessa a motivi di protezione dell’interesse nazionale ala salute pubblica ed al benessere dei propri cittadini.

Alla base di un altro rilevante caso, Glamis Gold c. USA (2009), emerge invece l’interesse per la protezione del territorio, dell’ambiente e del patrimonio culturale, finalizzato all’obiettivo di preservare adeguatamente peculiari caratteristiche di un territorio nel quale insisteva un investimento diretto all’estrazione di oro nello Stato della California.

Ebbene, la controversia originava da una decisione dello Stato della California che, modificando la normativa rilevante precedentemente in vigore, aveva deciso di obbligare la società in questione a condurre sistemi di estrazione mineraria dell’oro molto più onerose, per il fine di proteggere in modo più appropriato le caratteristiche ambientali e culturali del territorio nel quale avveniva l’estrazione dell’oro. Era stato previsto, ad esempio, il divieto di estrazione dell’oro a cielo aperto e si imponeva l’obbligo di procedere alla completa rimessa in pristino del sito dopo lo svolgimento dell’attività di escavazione.

È evidente quindi che in tale l’interesse per la protezione dell’ambiente si collegava strettamente alle esigenze culturali e religiose legate alla protezione delle tradizioni ancestrali dei popoli nativi americani, che in quei territori avevano da tempo immemorabile praticato attività di tipo religioso e culturale.

Questo caso dimostra indubbiamente i diversi motivi che possono essere alla base della protezione di un interesse pubblico dello Stato, che vanno sicuramente tutelati nell’ottica del perseguimento dell’obiettivo dello sviluppo sostenibile, anche se in alcuni casi sono in netta contrapposizione con gli interessi delle imprese multinazionali che effettuano in investimenti in tali territori.

Un ultimo caso, Perkerings c. Lituania (2007), costituisce un precedente molto importante in materia. Esso trae origine da una decisione amministrativa della Municipalità di Vilnius, in Lituania,  che aveva deliberato di rescindere un accordo con l’investitore straniero vincitore di una gara d’appalto per la realizzazione di un parcheggio sotterraneo all’interno del centro storico della città (da tenere in considerazione che l’area del centro storico di Vilnius era protetta, tra l’altro, dalla Convenzione UNESCO sul Patrimonio Mondiale Culturale e Naturale, del 1972).

La decisione della municipalità di Vilnius, che veniva contestata dall’impresa proprietaria dell’investimento, si basava sull’obiettivo della tutela dell’interesse storico e archeologico del sito, nonché sulla protezione dell’ambiente, relativamente ad un centro storico di particolare valore. Per meglio dire, era presa in considerazione l’area vicina alla Cattedrale di Vilnius, che avrebbe potuto subire i danni più gravi e irreparabili dalla realizzazione dell’opera prevista dalla gara d’appalto.

Pertanto, in tale ultimo caso, ci si può rapportare ad una situazione particolare, in cui l’elemento della protezione del patrimonio culturale e archeologico è prevalente, ma si collega strettamente ad esigenze di protezione dell’ambiente in senso più generale.

Come abbiamo visto quindi, in molte e diverse circostanze, gli interessi pubblici degli Stati legati al concetto generale di sviluppo sostenibile vengono in contrasto con gli interessi degli investitori internazionali, protetti in ogni caso da accordi internazionali che tutelano gli investimenti esteri nel caso di pratiche scorrette da parte degli Stati. Si assiste, ad un bilanciamento di interessi contrapposti, molte volte di difficile definizione e che richiede, in alcuni casi, anche un lungo processo per arrivare ad una decisione finale, ma che tuttavia risulta necessario per proteggere i diversi interessi in gioco.

A tal fine bisogna prendere come punto di riferimento il criterio dell’equo trattamento dell’investitore (Fair and Equitable Treatment – FET) e la sua applicazione nell’ambito della giurisprudenza internazionale in materia di protezione dell’ambiente, sviluppo sostenibile e investimenti. La giurisprudenza in esame è relativa all’applicazione di due categorie in particolare, e cioè con riferimento all’Accordo NAFTA[18] e agli accordi bilaterali di investimento.

In applicazione dell’accordo NAFTA, il primo caso da esaminare è Metaclad c. Mexico, nel quale il tribunale arbitrale decise che l’assenza di regole specifiche sui procedimenti da seguire per ottenere il permesso di costruzione per l’impianto di trattamento dei rifiuti di cui all’investimento internazionale in questione costituiva una violazione del criterio “Fair and Equitable Treatment”, che venne definito come “criterio dello standard minimo di trattamento” come quando disposto nell’art. 1105 dell’accordo NAFTA. Il tribunale arbitrale decise, inoltre, che anche il comportamento dei funzionari delle autorità messicane coinvolte nella controversia, che avevano creato le legittime aspettative dell’investitore per l’ottenimento del permesso in questione, avesse contribuito a configurare una situazione in cui doveva ritenersi violato lo standard minimo di trattamento dell’investitore.

Il Messico, quindi, secondo quanto stabilito dal tribunale arbitrale, aveva violato il criterio dell’equo trattamento dell’investitore, ed in particolare il tribunale osservò che le autorità della municipalità messicana competente del caso avevano agito anche in violazione della stessa legislazione messicana in materia di protezione dell’ambiente, la quale configurava i relativi poteri di intervento a tutela dell’interesse pubblico in questione come propri delle autorità federali e non invece della municipalità competente per territorio, che aveva solo una competenza in merito al rilascio del permesso di costruzione per l’investimento del caso.

La municipalità messicana avrebbe potuto si opporsi per motivi legati alla protezione dell’ambiente ma in relazione all’intero progetto, presentando opposizione alle competenti autorità federali preposte alla tutela dell’ambiente, non anche in merito al rilascio del permesso di costruzione, che doveva essere concesso all’impresa operante nel territorio messicano.

Un altro precedente giurisprudenziale che merita particolare attenzione è il caso Methanex c. USA, sempre con riferimento all’applicazione e all’interpretazione dell’art. 1105 dell’accordo NAFTA.

In questo caso, l’investitore internazionale sosteneva due principali motivi a sostegno della propria richiesta di accertamento della violazione di tale criterio da parte del tribunale arbitrale, nella controversia contro la decisione delle competenti autorità dello Stato della California. In primo luogo l’investitore lamentava la discriminazione che sarebbe stata operata dalle autorità messicane in riferimento al proprio investimento, a vantaggio delle imprese concorrenti, che in questo caso specifico erano rappresentate da produttori nazionali di sostanza similari e quindi concorrenti rispetto a quelle prodotte dall’impresa operante per l’investimento internazionale.

Altro motivo addotto dall’investitore era invece la presunta corruzione delle autorità californiane che sarebbe stata operata da parte dei concorrenti americane dell’impresa Methanex, ed in particolare dalla ditta ADM. Tali imprese, ed in particolare la ADM, avrebbero infatti esercitato forti pressioni nei confronti delle autorità dello Stato della California, e quindi anche episodi riconducibili a fattispecie di corruzione, con l’intento di ricevere dalle autorità in questione una decisione a loro vantaggiosa.

Il tribunale arbitrale nel caso di specie osservò che non vi erano prove a sostegno della tesi dell’investitore, poiché nessuna discriminazione era stata operate dalle autorità americane nei confronti dell’investitore internazionale. In ogni caso, il Tribunale osservò che anche qualora fosse stata dimostrata l’eventuale discriminazione nei confronti dell’investitore, ciò non avrebbe comportato necessariamente la violazione dello standard minimo del criterio di equo trattamento dell’investitore straniero.

Tale decisione appare, pertanto, in aperto contrasto con l’interpretazione comunemente accettata ed adottata da altri tribunali arbitrali in controversie in materia di investimenti internazionali.

In riferimento invece alla presunta corruzione, il tribunale pur riconoscendo che l’eventuale corruzione, se provata, avrebbe costituito un episodio di violazione dell’obbligo de criterio dell’equo trattamento dell’investitore, in base alle norme dell’Accordo NAFTA e alle norme del diritto internazionale consuetudinario in materia, decise tuttavia che per il caso di specie non vi fosse nessuna prova di tale consumata corruzione da parte delle concorrenti imprese nazionali nei confronti delle autorità dello Stato della California.

Un’interessante interpretazione del criterio dell’equo trattamento dell’investitore è sicuramente quella fornita dal tribunale arbitrale internazionale nel caso Parkerings c. Lituania[19], osservando che la violazione di tale criterio può conseguire a comportamenti dello Stato che hanno come effetto la frustrazione delle legittime aspettative dell’investitore internazionale.

Bisogna precisare che la creazione di legittime aspettative può aversi solo in conseguenza di esplicite rassicurazioni precedentemente fornite dalle autorità dello Stato all’investitore, sufficienti a fargli credere che la normativa in vigore al momento della decisione di operare un investimento internazionale non sarebbe stata soggetta a nessuna successiva modificazione. In ogni caso, tale premesso o rassicurazioni non si possono implicitamente presupporre, ma devono invece essere state esplicitamente fornite dalle autorità pubbliche dello Stato e devono essere documentabili da parte dell’investitore a supporto specifico della propria domanda per riuscire a dimostrare una effettiva violazione del criterio dell’equo trattamento dell’investitore a carico della autorità dello Stato ospitante l’investimento.

Il tribunale arbitrale, pertanto, ritenne che non vi fosse la presenza di una clausola di stabilizzazione degli accordi tra lo stato della Lituania e l’investitore internazionale, e che, inoltre, non vi fosse alcuna prova che la Lituania avesse dato all’impresa operante l’investimento delle specifiche rassicurazione esplicite o implicite affinché la normativa di riferimento non sarebbe poi cambiata.

In tal senso, entra in gioco il concetto di due diligence, in quanto il tribunale arbitrale, nella controversia in esame, osservò che trattandosi di un Paese, la Lituania, con economia in fase di transizione, le modifiche del quadro normativo di riferimento per l’investimento in questione, avrebbero dovuto ritenersi più che possibili, se non quasi certamente attuabili, da parte di un impresa operante un investimento internazionale che doveva quindi essere in grado di attuare correttamente il suo dovere di diligenza per prevenire possibili danni economici legati a variazioni del quadro normativo connesso all’investimento.

Un ultimo criterio da analizzare e che merita particolare attenzione è quello relativo alla disciplina dell’espropriazione diretta o indiretta[20] con riferimento all’investitore internazionale, che si può verificare in conseguenza di atti normativi o amministrativi posti in essere dalle autorità nazionali per ragioni che possono riguardare la particolare tutela destinata ad un proprio interesse pubblico.

In passato la maggior parte delle controversie in materia di investimenti internazionali riguardavano casi di espropriazioni dirette con il conseguente obbligo di compensazione dei danni arrecati all’investitore, le controversie più recenti però sono collegate a situazioni in cui il comportamento degli Stati nei confronti degli investitori esteri fa sorgere questione che possono considerarsi nell’ordine semmai di espropriazioni indirette, in particolare si può dire che interferiscono, in modo sostanziale, con l’esercizio di un diritto di proprietà dell’investitore internazionale e i conseguenti danni economici scaturiti da tale comportamento.

È da evidenziare, tuttavia, che l’accertamento da parte del giudice dei casi di espropriazione indiretta dell’investitore estero, non è sicuramente di facile definizione, soprattutto se considerato in stretta connessione con il criterio dell’equo trattamento dell’investitore. Le due fattispecie che integrano la violazione dei due criteri sono piuttosto simili e la delimitazione dei rispettivi ambiti di applicazione sembra potersi ridurre talvolta ad una valutazione circa l’intensità del grado di interferenza che un certo comportamento dello Stato nel quale è localizzato un investimento effettivamente realizza nei confronti dell’investitore internazionale.

Un primo caso da analizzare che viene frequentemente citato in materia di espropriazione diretta o indiretta dell’investitore, è Metalclad c. Mexico, nel quale il tribunale arbitrale ha ritenuto che il diniego del permesso a costruire da parte della municipalità messicana competente, oltre a rappresentare una violazione nel criterio dell’equo trattamento dell’investitore, come già detto in precedenza, costituisse altresì una misura di espropriazione da parte delle competenti autorità nazionali del Messico nei confronti dell’investitore.

Il tribunale arbitrale, nel caso in esame, effettuò un vero e proprio un test per accertare se vi fosse o meno un fenomeno di espropriazione. Questo test però risultava particolarmente restrittivo con riferimento al margine del potere regolatorio residuo per gli Stati nei confronti degli investitori internazionali.

Il test, infatti, valuta principalmente l’impatto economico della misura adottata dalle autorità nazionali dello Stato, senza tenere in adeguata considerazione le finalità dell’intervento statale. Il tribunale nel merito affermava quanto segue: “Thus, expropriation under NAFTA includes not only open, deliberate and acknowledged takings of property, such as outright seizure or formal or obligatory transfer of title in favour of the host State, but also covert or incidental interference with the use of property which has the effect of depriving the owner, in whole or in significant part, of the use or reasonable-to-be-expected economic benefit of property even if not necessarily to the obvious benefit of the host State”.

Parte della letteratura scientifica ha definito tale test relativo all’impatto economico come una dottrina di soli effetti, la cosiddetta “sole effects doctrine”, ciò in quanto si concentra essenzialmente sui soli effetti della misura statale in questione, senza considerare accuratamente le finalità sottese all’azione dello Stato, che agisce per tutelare interessi nazionali rilevanti.

In accordo con il predetto test, quindi, l’espropriazione si può configurare non solo con l’adozione di misure che apertamente e deliberatamente costituiscono una requisizione della proprietà da parte dello Stato, obbligando ad esempio al formale trasferimento della proprietà nei confronti dello Stato, ma anche con rifermento  tutte le tipologie di misure che provocano un’interferenza indiretta e incidentale con l’uso della proprietà, cha ha l’effetto di privare, in tutto o in parte significativa, il proprietario della possibilità dell’uso o del beneficio economico che deriva dallo sfruttamento della proprietà che sarebbe ragionevolmente lecito aspettarsi, anche nei casi in cui non consegue poi un effettivo beneficio per lo Stato.

Nel caso in questione, il tribunale ritenne inoltre che l’adozione del decreto ecologico che individuava una zona protetta nell’area comprendente il sito dove si sarebbe dovuta svolgere l’attività economica riguardante l’investimento, costituisse in sostanza un ulteriore ed autonomo motivo di espropriazione, in base all’articolo 1110 dell’accordo NAFTA.

In un simile quadro d’insieme non era neppure necessario analizzare l’intento o il motivo che stava alla base dell’adozione del cosiddetto decreto ecologico, in quanto costituiva comunque una misura equivalente ad una espropriazione.

Il tribunale, pertanto, affermava: “The Tribunal need not to decide or consider the motivation or intent of the adoption of the Ecological Decree. Indeed, a finding of expropriation on the basis of the Ecological Decree is not essential to the Tribunal’s finding of a violation of NAFTA Article 1110. However, the Tribunal’s finding of a violation of NAFTA Article 1110. However, the Tribunal considers that the implementation of the Ecological Decree would, in and of itself. Constitute an act tantamount to expropriation[21].

Tale concetto espresso dal tribunale arbitrale appare però confondere il reale momento di valutazione della legittimità di un atto normativo o amministrativo dello Stato finalizzato alla tutela di un proprio interesse pubblico con l’accertamento degli eventuali danni sofferti dall’investitore internazionale che comportano di conseguenza un obbligo di risarcimento.

Una simile interpretazione, dunque, potrebbe ridurre considerevolmente e con risvolti negativi il margine di apprezzamento concesso alle autorità statali, con la conseguenza che la maggior parte delle misure nazionali adottate a tutela di interessi pubblici degli Stati potrebbe essere considerate in ogni caso come atti di espropriazione con riferimento agli investimenti internazionali. Appaiono giustificate, sotto questo punto di vista, le numerose critiche ricevute dal test sull’impatto economico adottato dal tribunale arbitrale nel caso Metalclad c. Mexico, e si aggiunga che in altre decisioni successivi altri tribunali arbitrali, chiamati a pronunciarsi sulla stessa materia, hanno adottato orientamenti del tutto opposto, uno tra tutti il caso Methanex c. USA.

In tale decisione, infatti, il tribunale arbitrale nell’applicare norme dell’Accordo NAFTA o norme similari contenute in trattati bilaterali di investimento, non ha utilizzato il test dell’impatto economico ma ha adottato un approccio sicuramente più equilibrato per realizzare il bilanciamento di tutti gli interessi contrapposti, e quindi ha salvaguardato sia gli interessi degli Stati per quanto riguarda la tutela dei loro rilevanti interessi pubblici, sia gli interessi e le legittime aspettative degli investitori internazionali per tutelare i loro diritti di proprietà.

Quest’ultimo approccio adottato dal tribunale nel caso Methanex c. Usa è stato definito nella letteratura scientifica come “dottrine dei poteri di polizia” dello Stato, la cosiddetta “police powers doctrine”[22].

In accordo con tale dottrina, lo Stato è titolare di un ampio margine di apprezzamento, o comunque resta piuttosto libero di esercitare in buona fede la propria attività di regolazione nel perseguimento di legittimi interessi pubblici propri di uno Stato che tutela i propri cittadini ed il benessere pubblico.

L’espropriazione, pertanto, deve essere limitata solo nei casi in cui le autorità nazionali dello Stato avessero dato specifiche rassicurazioni all’investitore internazionale che non sarebbero state adottate successive regolamentazioni in grado di limitare in tutto o in parte i suoi diritti di proprietà sui luoghi oggetto dell’investimento. In questo caso sarebbe legittimo parlare di espropriazione con conseguente obbligo di compensazione in capo allo Stato inadempiente per tutelare le legittime aspettative dell’investitore.

Proprio su questo punto, il tribunale arbitrale, nel caso Methanex x. Usa, osservo che:

“As a matter of general international law, a non-discriminatory regulation for a public purpose, which is enacted in accordance with due process and, which effects, inter alios, a foreign investor or investment is not deemed expropriatory and compensable unless specific commitments had been given by the regulating government to the then putative foreign investor contemplating investment that the governemnt would refrain from such regulation”[23].

Si può evidenziare, tuttavia, che sia nel caso Methanex c. USA, sia nel precedente caso Metalclad c. Mexico sia ha un fenomeno di espropriazione e quindi un conseguente obbligo di risarcimento del danno subito dall’investitore internazionale, ogni volta in cui è possibile dimostrare che l’investitore abbia agito sulla base di legittime aspettative fondate su specifiche promesse o comunque rassicurazioni date dalle competenti autorità dello Stato a ciò predisposte, promesse secondo le quali non vi sarebbe stata nessuna successiva regolamentazione capace di limitare l’esercizio del diritto di proprietà dell’investitore sugli stessi luoghi oggetto dell’investimento.

 

 

 Bibliografia

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[15] NORTH AMERICAN FREE TRADE AGREEMENT, accordo nordamericano di libero scambio fra USA, Canada e Messico entrato in vigore il 1° gennaio 1994. Tale Accordo ha istituito la più vasta zona di libero scambio nel mondo, interessando, al momento della sua creazione, 370 milioni di persone. Il suo obiettivo è l’eliminazione delle barriere al commercio e all’investimento fra i paesi membri, al fine di rafforzarne la crescita economica e di creare nuovi posti di lavoro. I tre paesi firmatari hanno inoltre stipulato due accordi complementari e integrativi del NAFTA, il North American Agreement on Labour Cooperation (NAALC) e il North American Agreement for Environmental Cooperation (NAAEC).

[16] S. P. SUBEDI, International Investment Law.

[17] Methanex Corporation c. United States of America, International Arbitration Under Chapter 11 of the NAFTA and the UNCITRAL Arbitration Rules.

[18] Accordo NAFTA, vedi in particolare artt. 1005-1110.

[19] Parkerings-Compagniet A.S. / Republic of Lithuania, ICSID 2007.

[20] M. SORNARAJAH, The International Law on Foreign Investments.

[21] R. DOLZER & F. BLOCH, Indirect Expropriation: Conceptual Realignments?.

[22] ANDREW NEWCOMBE, The Boundaries of Regulatory Expropriation in International Law.

[23] Methanex Corporation v. United States of America, In the Matter of An Arbitration under Chapter 11 of the North American Free Trade Agreement and the UNCITRAL Arbitration Rules.

Avv. Crisci Domenico

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