Approfondimento sulla responsabilità della struttura sanitaria e del medico per malpractice medica: i principi più rilevanti

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1. La natura della responsabilità della struttura sanitaria.

Negli ultimi anni il legislatore italiano è intervenuto sulla materia della responsabilità medica attraverso due importanti interventi legislativi, al fine di disciplinare in maniera organica i principi che si erano già consolidati in giurisprudenza e dare, in tal modo, una maggiore certezza della materia. Si tratta, in particolare, prima, del cosiddetto Decreto Balduzzi e, successivamente, della cosiddetta legge Gelli – Bianco.

Attraverso detti interventi legislativi sono stati positivizzati anche i criteri di ripartizione dell’onere probatorio tra il paziente danneggiato e il medico o la struttura sanitaria danneggianti: principi che si erano già sviluppati e consolidati nella giurisprudenza delle corti italiane, sia di merito che di legittimità (anche se, rispetto ad alcuni aspetti, il legislatore ha modificato gli orientamenti maggioritari dei giudici imboccando una strada diversa).

In particolare, l’orientamento ormai diventato pacifico nella giurisprudenza del nostro paese riconosceva (e riconosce tuttora) che i danni derivati da eventi di malprcatice medica e in generale da un errato trattamento sanitario, qualora il fatto sia imputabile alla struttura sanitaria – sia essa pubblica o privata – coinvolta nel trattamento stesso, sono inquadrabili all’interno della responsabilità contrattuale.

Infatti, per primi gli ermellini nel 2002 (attraverso la sentenza numero 9556 del 2002) hanno ritenuto che il rapporto che lega la struttura sanitaria al paziente trova la sua origine in un contratto obbligatorio atipico che viene definito contratto di spedalità o di assistenza sanitaria.

Tale contratto sorge non soltanto quando le parti stipulano un vero e proprio documento scritto, ma anche a seguito della semplice accettazione del paziente all’interno della struttura sanitaria (si parla in questo caso di una conclusione del contratto sulla base di fatti concludenti). Per quanto riguarda, invece, il suo contenuto, il contratto di spedalità ha ad oggetto l’obbligo della struttura sanitaria di adempiere sia alle prestazioni principali di carattere strettamente sanitario, sia alle prestazioni secondarie ed accessorie, come quelle assistenziali nei confronti del malato o quelle di tipo alberghiero (es. fornire il vitto e l’alloggio necessario al paziente) nel caso in cui esso sia ricoverato presso la struttura, quelle di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico, nonché quelle di apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista del manifestarsi di eventuali complicazioni o emergenze.

A fronte delle suddette obbligazioni gravanti sulla struttura sanitaria, la controprestazione sinallagmatica dovuta dal paziente o dall’assicurazione o ancora del servizio sanitario nazionale (nel caso in cui sussistano le condizioni perché la spesa relativa all’intervento sanitario sia sostenuta dal servizio sanitario) è quella di corrispondere il prezzo del trattamento sanitario stesso.

In considerazione della sussistenza di un rapporto contrattuale tra il paziente e la struttura sanitaria, come detto, la responsabilità di quest’ultima, nel caso in cui si configuri un suo inadempimento o comunque un non esatto adempimento delle prestazioni sulla stessa gravante in virtù del suddetto contratto, deve essere inquadrata all’interno della responsabilità contrattuale. La struttura sanitaria, quindi, risponde ai sensi dell’articolo 1218 del codice civile nel caso in cui non adempia correttamente alle prestazioni sulla medesima gravanti in virtù del suddetto contratto di spedalità. Vi è, inoltre, da rilevare come la struttura sanitaria risponda contrattualmente anche nel caso in cui essa si avvalga di dipendenti o di collaboratori esterni, siano essi esercenti professioni sanitarie (come medici, infermieri eccetera) o personale ausiliario, e siano tali soggetti a porre in essere la condotta che ha determinato l’evento dannoso: in tal caso, la struttura sanitaria risponde ai sensi dell’articolo 1228 del codice civile (il quale stabilisce che il debitore, il quale per adempiere alla propria obbligazione si avvale dell’opera di terzi, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di questi ultimi). Pertanto, la struttura sanitaria risponde anche nel caso in cui il medico che ha effettuato l’intervento sanitario non era inquadrato all’interno dell’organizzazione aziendale della struttura sanitaria stessa e anche se quest’ultimo non era stato scelto dal paziente. Ciò in considerazione del fatto che la struttura sanitaria utilizza la prestazione di detto medico per poter adempiere alla propria obbligazione che ha contatto con il paziente. In altri termini, dal fatto che la struttura sanitaria si avvalga dell’attività altrui per poter adempiere alla propria obbligazione comporta che la stessa struttura sanitaria si assume il rischio e la conseguente responsabilità dei danni che possono derivare al paziente per l’attività del terzo: la struttura, cioè, è direttamente responsabile del fatto posto in essere dal terzo di cui si è avvalsa.

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In considerazione di ciò, la struttura sanitaria risponde direttamente nel caso in cui si sia avvalsa di un medico per adempiere alla propria obbligazione contrattuale e la condotta posta in essere da quest’ultimo abbia determinato, in maniera colposa o dolosa, un evento dannoso a carico del paziente, anche nel caso in cui il medico abbia effettuato un intervento di tipo diverso rispetto a quello che era stato originariamente pattuito con il paziente e ciò anche nel caso in cui tale intervento diverso sia stato effettuato all’insaputa della struttura sanitaria (in questo senso si è espressa la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 6756 del 17.5.2001). Tale orientamento della Corte di Cassazione è giustificato dal fatto che si imputa la responsabilità in capo alla struttura sanitaria per il fatto che la stessa ha messo dei soggetti terzi in una posizione tale, nei confronti del paziente danneggiato, da poter arrecare dei danni a quest’ultimo: cioè per il semplice fatto di aver creato il contatto fra il terzo e il paziente, contatto dal quale è derivato il danno a carico di quest’ultimo.

Dal principio di cui sopra deriva, inoltre, che, anche nel caso in cui il medico che ha posto in essere la condotta da cui è dipeso il danno al paziente, svolgesse attività libero professionale all’interno della struttura sanitaria (quindi in totale autonomia e senza alcun vincolo di subordinazione nei confronti della struttura), tale circostanza non può essere utilizzata da quest’ultima per andare esente da responsabilità nei confronti del paziente danneggiato. Secondo la giurisprudenza, infatti, basta che il medico o in generale il sanitario che ha posto in essere la suddetta condotta sia inserito all’interno dell’organizzazione aziendale e che il paziente sia accettato all’interno della struttura sanitaria, affinché quest’ultima sia ritenuta responsabile per l’evento di malpractice medica subito dal paziente a causa del suo inadempimento al contratto di specialità sorto tra le parti: in altri termini, basta che sussista un collegamento funzionale fra l’attività posta in essere dall’esercente la professione sanitaria e l’organizzazione della struttura sanitaria perché quest’ultima risponda della condotta colposa o dolosa posta in essere dal sanitario.

Ebbene, come detto tali principi sono stati recentemente fatti propri dal legislatore italiano, attraverso la legge Gelli – Bianco che, nell’aprile del 2017, li ha recepiti, trasformandoli da diritto vivente a diritto positivo del nostro ordinamento. In particolare, il primo comma dell’articolo 7 della Legge numero 24 dell’8 marzo 2017, oggi, stabilisce che la struttura sanitaria o socio sanitaria pubblica o privata, la quale, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria risponde ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle condotte dolose o colpose dai medesimi poste in essere, anche nel caso in cui tali sanitari siano stati scelti dal paziente ed anche se gli stessi non sono dipendenti della struttura sanitaria.

2. La ripartizione dell’onere probatorio tra paziente e struttura sanitaria.

La qualificazione del rapporto che sorge tra paziente e struttura sanitaria come avente natura contrattuale e conseguentemente l’inquadramento della responsabilità della struttura all’interno di quella contrattuale, ha determinato, nei primi anni del 2000, il proliferare dell’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’onere probatorio tra paziente danneggiato e struttura sanitaria danneggiante venisse distribuito secondo i principi unanimemente affermati in tema di inadempimento contrattuale. In particolare, secondo detti principi, nel caso in cui il paziente che si ritenga danneggiato agisca in giudizio per far valere la responsabilità della struttura sanitaria, deve limitarsi a dedurre l’inadempimento dell’obbligazione gravante su quest’ultima e provare il contratto intercorso tra il medesimo e la struttura sanitaria (o eventualmente il medico di cui la struttura sanitaria si è avvalsa); mentre resta a carico della struttura sanitaria l’onere di provare il proprio esatto adempimento alla suddetta obbligazione per andare esente da responsabilità.

L’accoglimento di tale principio di distribuzione dell’onere probatorio ha comportato il superamento della distinzione tra gli interventi di facile esecuzione e gli interventi che invece comportano la risoluzione di problemi tecnici di particolare complessità, precedentemente utilizzata per stabilire su chi, tra paziente e struttura sanitaria, dovesse gravare l’onere probatorio.

Tuttavia, tale ricostruzione, è risultata eccessivamente gravosa per la struttura sanitaria e, specularmente troppo favorevole per il paziente, in quanto scaricava sulla struttura stessa lo (spesso diabolico) onere probatorio, al fine di poter andare esente da responsabilità, di individuare le cause dell’evento dannoso subito dal paziente, in modo da poter dimostrare la mancanza di nesso di causalità con la condotta posta in essere dalla struttura o dal personale di cui la stessa si era avvalsa. Così nel 2008 (con la sentenza n. 577) sono intervenute le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, le quali hanno precisato che l’inadempimento rilevante nell’ambito dell’azione di responsabilità per il risarcimento del danno nelle obbligazioni di comportamento non può essere identificato in qualsiasi tipo di inadempimento, ma deve esserlo soltanto quello che costituisce causa o concausa efficiente del danno. In altri termini, in tali fattispecie l’inadempimento del debitore potrà rilevare soltanto nel caso in cui l’evento dannoso sia riconducibile dal punto di vista causale a detto inadempimento: quindi, il debitore sarà responsabile del danno subito dalla controparte solo qualora esso sia stato causato dall’inadempimento del debitore stesso.

In considerazione di ciò, nelle cause di responsabilità professionale medica, il paziente non si può limitare ad allegare un inadempimento qualsiasi della struttura sanitaria o del personale di cui la medesima si è avvalsa, bensì deve individuare un inadempimento che sia astrattamente efficiente a produrre il danno che il medesimo ha subito.

Pertanto, nelle cause di responsabilità medica, l’onere probatorio gravante sul paziente danneggiato impone a quest’ultimo di provare:

  • la sussistenza di un contratto tra il medesimo della struttura sanitaria o l’esercente la professione sanitaria di cui alla struttura si è avvalsa, avente ad oggetto una prestazione medica;
  • l’insorgenza di una nuova patologia o l’aggravamento di una patologia già in essere;
  • la sussistenza di qualificati inadempimenti della struttura e/o del sanitario che siano astrattamente idonee a porsi come causa o concausa della patologia.

Soltanto nel caso in cui il paziente danneggiato abbia fornito la prova di tutti tali elementi, la struttura sanitaria convenuta sarà gravata dall’onere di provare che la stessa non ha posto in essere l’inadempimento addebitatole oppure che, pur essendo configurabile un suo inesatto adempimento alla prestazione sanitaria, questo non ha avuto alcuna incidenza eziologica nella produzione del danno, il quale si è verificata quindi per fatti ad essa non imputabili.

Successivamente a tale pronuncia delle Sezioni Unite, la Corte di Cassazione ha più volte confermato il suddetto principio di ripartizione dell’onere probatorio tra paziente danneggiato e struttura/medico danneggiante, precisando che il paziente, in considerazione del fatto che si rientra all’interno della responsabilità contrattuale, è sicuramente sollevato dal provare la colpa della struttura sanitaria (e quindi che la stessa abbia agito in maniera imperita o non diligente o non prudente), ma egli è comunque tenuto a dimostrare la sussistenza del nesso di causalità fra la condotta posta in essere dal debitore e il danno da lui lamentato.

Secondo gli ermellini, infatti, deve considerarsi che la previsione dell’art. 1218 c.c. trova giustificazione nell’opportunità di far gravare sulla parte che si ritiene inadempiente o non esattamente adempiente l’onere di fornire la prova positiva dell’adempimento o della sua esattezza, sulla base del criterio della maggiore vicinanza della prova, secondo cui essa va posta a carico della parte che più agevolmente può fornirla. Soltanto una volta che il danneggiato abbia dimostrato che l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie è causalmente riconducibile all’operato dei sanitari sorge, per la struttura sanitaria e/o per il medico, l’onere di provare che l’inadempimento non sussiste o è stato determinato da causa ad essi non imputabile.

3. La natura della responsabilità del medico.

I principi che sono stati esposti nelle pagine precedenti, circa la natura della responsabilità e la ripartizione dell’onere probatorio tra le parti, sino a qualche anno fa erano ritenuti applicabili, da una parte consistente della giurisprudenza, anche nei rapporti tra paziente danneggiato e medico danneggiante.

Per cercare di limitare la conflittualità tra paziente e medico e conseguentemente aumentare il rapporto di fiducia reciproca tra tali soggetti – anche per permettere ai medici di svolgere serenamente la propria professione – il legislatore italiano è intervenuto con i due provvedimenti normativi di cui si è detto sopra: il decreto Balduzzi nel 2012 e la legge Gelli – Bianco nel 2017.

Infatti, dopo il primo intervento del 2012, in considerazione del fatto che la giurisprudenza, soprattutto di merito, era restia ad accogliere il principio – sancito nel citato provvedimento normativo – per cui la responsabilità del medico era inquadrabile all’interno di quella extracontrattuale, il legislatore è nuovamente intervenuto nel 2017 per chiarire ogni dubbio al riguardo e confermare che nelle fattispecie di responsabilità sanitaria, il medico e in generale gli esercenti la professione sanitaria rispondono dei fatti dai medesimi posti in essere a titolo di responsabilità extracontrattuale, a meno che non sia configurabile un contratto tra i medesimi e il paziente (nel qual caso rispondono anch’essi a titolo contrattuale). In tal modo il legislatore, andando in controtendenza rispetto alla giurisprudenza maggioritaria, ha creato un vero e proprio doppio binario della responsabilità sanitaria, qualificando in maniera espressa e chiara la responsabilità del medico, in generale, come aquiliana per fatto illecito ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile e, in via residuale, legata allo specifico rapporto sorto tra le parti nel caso concreto, come contrattuale.

In tal modo, il Legislatore ha ulteriormente aggravato l’onere probatorio gravante sul paziente danneggiato dal medico, il quale deve provare tutti gli elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità aquiliana, sia quelli oggettivi che quelli soggettivi. In altri termini, per far valere la responsabilità del medico e in generale dell’esercente le professioni sanitarie, il paziente dovrà provare:

  • la sussistenza di una condotta dell’esercente la professione sanitaria qualificabile come illecita;
  • l’insorgenza di una nuova patologia o l’aggravamento di una patologia già in essere (quindi l’evento dannoso);
  • la sussistenza del nesso di causalità fra condotta e evento dannoso;
  • il dolo o la colpa del medico o dell’esercente la professione sanitaria.

Pertanto, soltanto nel caso in cui il paziente danneggiato riesca a fornire la prova di tutti i suddetti elementi, sul sanitario graverà l’onere di fornire la prova liberatoria, dimostrando di essersi conformato alle leges artis applicabili al caso e dunque provando che nessun rimprovero di scarsa diligenza o di imperizia potesse essere mosso al medesimo, o che, pur essendovi stato un suo inesatto adempimento, questo non ha avuto alcuna incidenza eziologica nella produzione del danno subito dal paziente.

Come si può vedere, quindi, si tratta di un onere gravante sul paziente più gravoso rispetto a quello che grava sullo stesso quando vuol far valere la responsabilità della struttura sanitaria.

4. I danni risarcibili nelle fattispecie di responsabilità sanitaria.

4.1. I danni risarcibili al paziente

Dopo aver esaminato le due tipologie di responsabilità che si riscontrano nelle fattispecie di malpractice medica, l’altro aspetto centrale di queste fattispecie è la individuazione dei danni, che possono essere indennizzati, subiti dal paziente nei cui confronti sia verificato l’evento dannoso nonché quelli subiti dai suoi familiari. A tal proposito, infatti è importante rilevare come le conseguenze dannose che possono derivare da un errato intervento sanitario o accertamento diagnostico possono riguardare non soltanto il paziente che si è sottoposto al trattamento sanitario o rispetto al quale è stato omesso o è stato errato l’accertamento diagnostico, bensì possono verificarsi delle conseguenze anche nei confronti dei congiunti del paziente o comunque di soggetti che sono ad esso legati da una relazione affettiva (conseguenze che possono ritenersi derivanti in modo immediato e diretto dalla condotta posta in essere dalla struttura sanitaria o dal medico).

I danni che il paziente può subire a causa del sinistro medico possono essere distinti in due macro categorie: quelli patrimoniali e quelli non patrimoniale.

4.1.1. I danni non patrimoniali.

All’interno della categoria dei danni non patrimoniali vi rientrano tutte le conseguenze negative che sono derivate al paziente per la compromissione del bene salute, sia essa temporanea che permanente, le quali derivano dal punto di vista causale dalla condotta posta in essere dalla struttura sanitaria o dai sanitari stessi. La lesione del bene salute viene identificata, sia in dottrina che in giurisprudenza, con il nomen di danno biologico, il quale, come detto, può avere carattere definitivo o soltanto temporaneo. Nel primo caso si parla di invalidità permanente e viene calcolata in una misura percentuale di riduzione del bene salute. Nel secondo caso si parla, invece, di invalidità temporanea e viene calcolata in giorni di inabilità (assoluta o parziale) e anche in questo caso in percentuale di riduzione del bene salute.

Per quanto concerne la quantificazione del danno non patrimoniale, come sopra identificato, sussistono due diversi criteri a seconda della gravità della lesione del bene salute (sempre in termini percentuali, come sopra già detto). Infatti, il decreto Balduzzi prevedeva che il danno biologico derivato da sinistri sanitari fosse risarcito in base alle tabelle previste dagli articoli 138 e 139 del codice delle assicurazioni private. Tale decisione è stata poi confermata anche dal successivo intervento legislativo, la già citata legge Gelli – Bianco, dove si prevede che nelle controversie relative alla responsabilità per l’esercizio della professione sanitaria il criterio per liquidare il danno non patrimoniale è quello previsto dalle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del codice dell’assicurazione.

Ebbene, per le lesioni che vengono definite micro permanenti, cioè rientranti entro il limite massimo di invalidità pari al 9%, la liquidazione viene compiuta in base alle tabelle introdotte dall’art. 139 del codice delle assicurazioni private.

Invece, per le lesioni che vengono definite macro permanenti, cioè superiori rispetto ai nove punti percentuali, in considerazione del fatto che ad oggi non è ancora stata emanata la tabella unica prevista dall’art. 138 del codice delle assicurazioni, si deve far riferimento ai valori individuati dalle varie tabelle adottate nei tribunali italiani (e in particolare quelle adottate presso il tribunale di Milano che, secondo quanto sostenuto ancora recentemente dalla Corte di Cassazione, assumono un rilievo su tutto il territorio italiano quali strumenti idonei a determinare la quantificazione del danno in caso di lesioni del bene salute superiori al 9%). Infatti, la Corte di Cassazione ha più volte ribadito che alle tabelle in uso presso il tribunale di Milano debba essere riconosciuta una vocazione nazionale e quindi possono essere utilizzate anche dagli altri tribunali italiani quali parametri e valori per liquidare il risarcimento del danno non patrimoniale in caso di lesioni superiori ai nove punti percentuali. Ciò in considerazione del fatto che tali tabelle sono considerate dei parametri univoci e adeguati, in grado di garantire la parità di trattamento per tutte le fattispecie concrete che non presentano peculiarità tali da suggerire l’incremento o la riduzione dell’entità dei valori contenuti all’interno di dette tabelle.

In particolare, tali tabelle sono state realizzate in modo che, per quanto riguarda l’invalidità derivante da postumi permanenti, ad ogni punto percentuale di invalidità venga attribuito un valore economico progressivamente crescente che, però, si differenzia in considerazione dell’età del danneggiato. Ciò in modo che la liquidazione del danno biologico tenga conto del fatto che l’invalidità permanente e quindi la compromissione del bene salute può essere più o meno rilevante a seconda del momento temporale in cui si verifica la lesione stessa, rispetto all’intera durata di vita già trascorsa e all’aspettativa di vita residua del paziente.

Un altro aspetto da tenere in considerazione e più volte ribadito dalle sezioni unite della suprema corte, riguarda il fatto che il danno non patrimoniale la lesione della salute costituisce una categoria unitaria ed omnicomprensiva per la liquidazione della quale il giudice si deve prendere in considerazione tutti i pregiudizi che sono stati concretamente subiti dal paziente danneggiato, ma il giudice non dovrà duplicare il risarcimento attribuendo allo stesso pregiudizio dei nomi diversi. In considerazione di ciò, la stessa Cassazione ha più volte ribadito che nella liquidazione del danno biologico, le tabelle milanesi tengono conto anche di quella componente del danno non patrimoniale identificabile nel pregiudizio morale subito dal danneggiato. Infatti il termine danno morale identifica e descrive comunque alcuni dei possibili pregiudizi che derivano dal soggetto leso e sono connessi alla sfera non patrimoniale del medesimo. Ebbene, tali tipologie di pregiudizi debbono essere risarciti attraverso la cosiddetta personalizzazione del risarcimento, aumentando (o in alcuni casi anche diminuendo) il valore base di danno biologico previsto dalle tabelle milanesi. In altri termini, si può dire che i valori contenuti all’interno delle citate tabelle tengono certamente conto anche dell’aspetto morale dei pregiudizi subiti dal danneggiato a causa della lesione al bene salute, ma riguardano soltanto le sofferenze morali che normalmente derivano da quella tipologia di lesione. Tuttavia, poiché nel caso di specie concretamente sottoposto alla valutazione del giudice è possibile che vi siano delle sofferenze psichiche subite dal soggetto danneggiato nonché delle particolari e specifiche ripercussioni sul piano dinamico relazionali, in tali casi, per poter effettivamente ristorare il danno subito dal danneggiato nella sua totalità, il giudice dovrà variare in aumento o in diminuzione il valore base previsto dalle tabelle, motivando la propria decisione in un senso o nell’altro.

Attraverso il suddetto principio ribadito anche recentemente dalla corte di cassazione, gli ermellini hanno voluto escludere che possano essere risarcite in maniera separata delle tipologie di danni subiti dal danneggiato che, poiché attengono tutte alla sfera non patrimoniale, si sostanzierebbero in realtà in una duplicazione del risarcimento per lo stesso danno. Pertanto, non possono trovare più accoglimento le domande di risarcimento del danno alla vita di relazione, del danno estetico, del danno esistenziale, del danno morale ecc., intese come specifiche, separate e autonome poste risarcitorie: bensì, di tali aspetti, si dovrà tenere conto in sede di liquidazione del danno non patrimoniale, attraverso la sua personalizzazione eventualmente in aumento rispetto alla somma base prevista dalle tabelle. Ciò significa, quindi, che non si può dire che tali pregiudizi e sofferenze subite dal danneggiato oggi non possano essere oggetto di risarcimento, ma piuttosto che esse debbono essere risarcite attraverso la personalizzazione del danno non patrimoniale come sopra spiegato.

Recentemente, la terza sezione civile della Suprema Corte ha puntualizzato i presupposti in presenza dei quali è giustificata e dunque ammissibile la personalizzazione del risarcimento tabellare, attraverso un incremento del valore punto base, ricordando che il danno alla salute è, per sua natura e perché così normativamente inteso, un danno dinamico – relazionale, in quanto consiste nella compromissione delle abilità della vittima correlata alla menomazione permanente della salute. Pertanto, le conseguenze della menomazione, sul piano della loro incidenza sulla vita quotidiana e sugli aspetti dinamico – relazionali, che sono generali ed inevitabili per tutti coloro che abbiano patito il medesimo tipo di lesione, non giustificano alcun aumento del risarcimento di base previsto per il danno non patrimoniale. Al contrario, le conseguenze della menomazione che non sono generali ed inevitabili per tutti coloro che abbiano patito quel tipo di lesione, ma sono state patite solo dal singolo danneggiato nel caso specifico, a causa delle peculiarità del caso concreto, giustificano un aumento del risarcimento di base del danno biologico. Deve dunque trattarsi di conseguenze non ordinarie, perché soltanto in tal caso esse non saranno ricomprese nel pregiudizio espresso dal grado percentuale di invalidità permanente.

In altri termini, il fatto che il danneggiato abbia perso la capacità di continuare a svolgere una qualsiasi attività della propria vita sarà risarcita con la personalizzazione in aumento del risarcimento oppure non potrà esserlo, rispettivamente, a seconda del fatto che l’incapacità riguardi la peculiare situazione di quel danneggiato oppure sia propria di ogni soggetto che subisce la lesione alla salute di cui è causa: nel caso in cui la perdita della capacità di svolgere quella attività riguarda tutti coloro i quali abbiano subito una menomazione identica a quella del danneggiato che chiede il risarcimento, il danno sarà integralmente risarcito come danno biologico, secondo i criteri di cui alle tabelle legali (cioè l’art. 139 del codice delle assicurazioni) o giurisprudenziali (cioè le tabelle milanesi); nel caso in cui, invece, la incapacità di continuare a svolgere quella attività di vita o relazionale riguarda soltanto il danneggiato che chiede il risarcimento, il danno biologico dovrà essere aumentato attraverso la sua personalizzazione.

In conclusione, si può ritenere che per poter procedere alla personalizzazione del danno è necessario che la sofferenza patita dal paziente danneggiato e lo sconvolgimento delle sue abitudini di vita siano significativi. Infatti, vi sono delle conseguenze dannose che possono derivare da un sinistro e quindi da un certo grado percentuale di invalidità, che evidentemente sfuggono alla tabellazione e non vengono da esse prese in considerazione, per il semplice fatto che non si verificano nella normalità dei casi.

Ebbene, in queste ipotesi, il Giudice dovrà individuare quali ripercussioni negative sul valore persona si siano verificate a seguito dell’evento di maplractice medica sottoposto al suo esame e quindi provvedere alla loro integrale riparazione mediante l’incremento personalizzante del parametro tabellare.

4.1.2. I danni patrimoniali.

I danni patrimoniali, invece, inglobano tutti quei pregiudizi che determinano una perdita a carattere economico per il paziente danneggiato dal sinistro medico. Si tratta, quindi, di conseguenze negative che incidono direttamente sul “portafogli” del danneggiato e quindi sulla sua sfera economica, costringendolo a sostenere dei pagamenti altrimenti non necessari oppure costringendolo a rinunciare a delle entrate finanziarie che altrimenti avrebbe avuto in mancanza del sinistro medico.

Infatti, all’interno di questa categoria possono essere inserite, da un lato, le spese mediche che il paziente ha dovuto sostenere a causa delle conseguenze derivate dall’evento di malpractice medica (quali, per esempio i ticket delle prestazioni diagnostiche, i costi delle visite mediche, le spese per i trattamenti sanitari, le spese di degenza presso la struttura sanitaria o per l’assistenza domiciliare eccetera). In altri termini, questa voce di danno patrimoniale ricomprendere tutti i costi che il paziente danneggiato ha dovuto sostenere per il fatto che la prestazione sanitaria non è stata eseguita correttamente e che, invece, avrebbe evitato se il trattamento sanitario fosse stato eseguito in maniera corretta.

Dall’altro lato, all’interno di questa categoria vengono inseriti anche i pregiudizi che il paziente ha subito per le mancate entrate economiche dovute alle conseguenze del sinistro medico: fra queste rientra la perdita della capacità lavorativa del paziente. In particolare, la perdita della capacità lavorativa viene distinta in due diverse tipologie: quella generica e quella specifica.

La capacità lavorativa generica è la potenziale attitudine che ha un soggetto allo svolgimento dell’attività lavorativa.

In considerazione di ciò, la sua riduzione o perdita si sostanzia nella sopravvenuta inidoneità di tale soggetto a svolgere una qualsiasi attività lavorativa che egli avrebbe potuto svolgere in considerazione della sua condizione fisica nonché della sua preparazione professionale e culturale.

Invece, la capacità lavorativa specifica è l’idoneità di un soggetto a continuare a svolgere il proprio lavoro, già svolto prima dell’evento dannoso. Infatti, il soggetto danneggiato dall’evento di malpractice medica, nel caso in cui prima di tale evento svolgesse una specifica attività lavorativa, potrebbe trovarsi in condizioni di non essere più in grado di continuare a svolgere tale attività lavorativa oppure una attività diversa ma comunque sempre connessa alle sue attitudini. In tal caso si parla di perdita, appunto, della capacità lavorativa specifica.

Ebbene, nel caso in cui sussistano dei postumi invalidanti che incidono in maniera rilevante sulla capacità lavorativa specifica, non sussiste – di perciò solo – un diritto del danneggiato ad ottenere un risarcimento del danno per la riduzione dei suoi guadagni a causa della riduzione della capacità lavorativa. Ciò, in considerazione del fatto che il paziente danneggiato, al fine di ottenere il risarcimento del suddetto pregiudizio patrimoniale da parte del galleggiante, dovrà dimostrare che egli svolgeva prima dell’evento dannoso un’attività lavorativa attraverso la quale produceva reddito oppure che avrebbe presumibilmente svolto tale attività (nel caso in cui il soggetto ancora non svolgeva alcuna attività lavorativa). In altri termini, il paziente danneggiato è onerato della prova che l’evento lesivo subito gli ha impedito di svolgere concretamente l’attività economica che gli permetteva di realizzare un reddito effettivo o potenziale nel caso in cui avesse una specifica qualificazione professionale anche se ancora non esercitava la relativa attività. Tale prova, peraltro, può essere fornita anche attraverso elementi di carattere presuntivo. In mancanza di assolvimento del suddetto onere probatorio, e quindi dello svolgimento di tale attività o della percezione del relativo reddito, il paziente non potrà essere risarcito per la perdita della propria capacità lavorativa. In caso contrario, invece egli verrà risarcito e la relativa quantificazione del danno potrà essere effettuata anche in via presuntiva ed equitativa da parte del giudice.

Un’altra voce di danno patrimoniale che il paziente può subire, riguarda i pregiudizi sofferti per la perdita della chance di nuove occasioni di lavoro o di progressione di carriera (con la consequenziale perdita di una maggiore retribuzione).

Nel caso della perdita di chance, il danno è rappresentato dal fatto che il paziente danneggiato dall’evento di malpractice medica ha perso delle probabilità di ottenere un nuovo lavoro o un avanzamento di carriera. Non si tratta, quindi, della perdita del nuovo lavoro o della promozione, ma della perdita della possibilità che egli aveva di ottenerli. Ciò significa che il danneggiato ha l’onere di provare di aver avuto una occasione in tal senso e di non averla potuta cogliere. Tuttavia, non basta che egli avesse una speranza di ottenere tali situazioni migliorative, cioè non è sufficiente che esse fossero una semplice astratta possibilità. Per ottenere il risarcimento per perdita di chance, il danneggiato dovrà dimostrare di aver avuto una ragionevole probabilità di verificazione della stessa e quindi di ottenere il nuovo lavoro o la progressione di carriera. La chance, infatti, per costituire una entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed autonomamente suscettibile di valutazione e quindi di risarcimento, non deve essere meramente aleatoria, ma occorre che possieda requisiti di concretezza ed effettività e sia quindi assistita da elementi obiettivi che ne consentano una previsione di ragionevole affidamento.

Pertanto, qualora il paziente danneggiato riesca a dimostrare che, durante il periodo di decorso della malattia dipendente dall’evento di malpractice medica o comunque a causa dei postumi permanenti da esso derivati alla salute del paziente, ha perso delle concrete occasioni di lavoro o di avanzamento di carriera (come per esempio la impossibilità di partecipare a un concorso pubblico per il quale aveva tutti i requisiti richiesti per la partecipazione nonché un curriculum professionale e delle competenze che gli consentivano di aspirare fondatamente al superamento del concorso), è possibile riconoscere il danno per la perdita di chance lavorativa.

Per quanto riguarda, poi, la quantificazione del suddetto danno, il giudice dovrà valutare l’incidenza probabilistica della concreta ed effettiva possibilità che avrebbe avuto il paziente di ottenere il lavoro o l’avanzamento di carriera. Tale percentuale dovrà, quindi, essere tenuta in considerazione nel quantificare il danno in via equitativa.

In altri termini, il giudice non dovrà liquidare il danno per la perdita della chance lavorativa subita dal paziente danneggiato semplicemente in una percentualmente ridotta della retribuzione non percepita dal paziente (magari identica alla percentuale di chance che il paziente aveva di ottenere il miglioramento lavorativo), bensì dovrà liquidarlo in via equitativa tenendo in considerazione e valutando a tal fine la percentuale concreta di chance che il paziente aveva di ottenere il miglioramento lavorativo.

4.2. I danni risarcibili ai congiunti del paziente.

Come abbiamo detto in precedenza, accanto tali danni derivanti al paziente, dall’evento di malpractice medica possono derivare anche delle conseguenze negative nei confronti di altri soggetti che sono vicini al paziente: in particolare, si parla a tal proposito di danno da perdita parentale, che può essere subito dai congiunti del paziente danneggiato o comunque da soggetti che avevano con lo stesso un legame affettivo.

L’ipotesi più frequente in questi casi è quella del coniuge che vede modificare drasticamente la propria quotidianità a causa delle conseguenze dannose, di carattere biologico, subite da una persona che le è affettivamente vicina e dovute ad un sinistro medico nel quale quest’ultima è stata coinvolta. In questi casi, la lesione della salute del paziente determinata dall’evento di malpractice medica, può comportare l’impossibilità per quest’ultimo di svolgere le proprie funzioni familiari sia rispetto al coniuge stesso che rispetto alla cura dei figli: evidentemente ciò determina un peggioramento delle condizioni di vita del proprio coniuge/soggetto legato affettivamente. In secondo luogo, si potrebbe verificare che la lesione della salute del paziente può costringere lo stesso a non essere più in grado di effettuare tutta una serie di attività come vacanze, viaggi, hobby ecc., che conseguentemente impediscono anche al proprio coniuge/soggetto legato affettivamente di poterle effettuare. In questi casi, è evidente che questo soggetto subisce delle conseguenze negative che sono direttamente riconducibili al sinistro medico.

La stessa condizione pregiudizievole può essere rinvenuta nei figli del paziente danneggiato: infatti, anche tali soggetti potrebbero subire una lesione della loro sfera affettiva, perché il proprio genitore non è più in grado di dargli un sostegno morale, affettivo, a causa delle sue mutate condizioni di salute dovute al sinistro medico; oppure si potrebbe verificare la situazione per cui i figli, dopo la verificazione del sinistro medico al proprio genitore, modifichino negativamente il proprio umore e il proprio stile di vita o nei casi più gravi contraggano anche delle patologie psicologiche (si pensi ad esempio alla depressione). Anche in questo caso non si può negare che tali soggetti abbiano subito una conseguenza pregiudizievole immediata e diretta dall’evento di malpractice medica.

Ebbene, in considerazione del fatto che tutti i suddetti pregiudizi, negli esempi fatti, sono determinati dal sinistro medico e ad esso causalmente riconducibile, la struttura sanitaria e/o il medico responsabili dovranno risarcire anche tali tipologie di danni.

A tal proposito, è ormai consolidato in giurisprudenza l’orientamento per cui ai prossimi congiunti di un soggetto che abbia subito delle lesioni personali spetti il risarcimento del danno non patrimoniale nel caso in cui essi avessero una situazione affettiva, un legame, con il danneggiato. Si tratta, quindi, di un diritto proprio dai congiunti e da essi esercitabile iure proprio.

Sul punto è opportuno rilevare che il danno non patrimoniale subito dai prossimi congiunti può essere risarcito non soltanto nei casi in cui il proprio parente sia deceduto a causa del sinistro medico (si parla in questo caso di danno da perdita del rapporto parentale), ma anche in tutti i casi in cui vi sia stata una semplice lesione di tale rapporto parentale e quindi il congiunto che ha subito l’evento negativo di carattere medico non sia morto, ma abbia comunque riportato delle lesioni al bene salute a causa di detto evento. Infatti, anche nel caso di una semplice lesione del rapporto parentale, si configura una violazione del diritto all’intangibilità della sfera affettiva del soggetto nonché del diritto alla conservazione del legame familiare o affettivo o comunque di convivenza e di comunione di vita e affetti che egli ha con un soggetto. Tale diritto, tra l’altro, può essere ricompreso all’interno degli articoli 2, 29 e 30 della costituzione e quindi dagli stessi tutelato, come gli altri diritti della persona. Conseguentemente, la sua lesione determina la violazione di un interesse costituzionalmente protetto, da cui scaturisce il diritto al risarcimento del danno e in generale delle conseguenze pregiudizievoli che siano derivate nella sfera non patrimoniale del danneggiato.

Ciò detto in via generale, bisogna, però, evidenziare come non sia sufficiente la semplice titolarità di un rapporto di parentela tra il paziente che ha subito l’evento di malpractice medica e il soggetto che chiede il ristoro del danno per la lesione del rapporto parentale. Infatti, il congiunto dovrà dimostrare di essere legato affettivamente al paziente e che la lesione al bene saluta da quest’utlimo subita abbia effettivamente inciso anche su di lui al punto tale da aver compromesso il suddetto legame affettivo. In altri termini, tale soggetto dovrà provare che sussisteva un legame affettivo con il paziente e che lo stesso è stato leso a causa del sinistro medico. La relativa prova potrà essere fornita anche attraverso delle presunzioni (cioè attraverso la dimostrazione di fatti noti, dai quali poter risalire all’esistenza del legame affettivo con il paziente)

Per quanto concerne la liquidazione di tale tipologia di danno, essa dovrà necessariamente avvenire in via equitativa in base alla valutazione del giudice dovrà compiere del caso concreto e delle conseguenze interiori ed esteriori derivanti dal pregiudizio. Anche in questo caso, il giudice, per la liquidazione equitativa del danno, potrà ricorrere a presunzioni derivanti dalla sussistenza di fatti noti che siano stati provati dal danneggiato (come, per esempio le abitudini di vita, la consistenza del nucleo familiare, la quotidianità dei rapporti con il paziente, la compromissione delle esigenze familiari). È facilmente intuibile come, nel caso concreto, non sia facile per il giudice ricavare dai suddetti elementi di fatto un criterio per procedere alla liquidazione del danno, tuttavia è altrettanto certo che la strada della liquidazione equitativa sia quella che maggiormente può tenere conto della effettiva intensità e durata del legame affettivo tra il paziente che ha subito il sinistro medico e il soggetto che chiede il ristoro del danno parentale, evitando di procedere con risarcimenti legati esclusivamente a situazioni formali, che però non permettono di cogliere appieno la gravità della lesione del rapporto tra i due soggetti.

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