Anche se il paziente versa in gravi condizioni di salute ha sempre diritto a esprimere il proprio consenso informato prima di essere sottoposto a un’operazione

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I fatti

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 27109 del 2021, si è pronunciata avverso un ricorso presentato dai familiari di una paziente deceduta in un Ospedale siciliano.

La parte attrice chiedeva innanzi al Tribunale di Ragusa il risarcimento dei danni derivanti dal decesso della familiare, la quale si era sottoposta ad un intervento di angioplastica coronarica eseguito presso l’Ospedale suddetto, presso cui la stessa si era inizialmente recata per sottoporsi ad una coronografia. Il Tribunale aveva parzialmente accolto la domanda e contro tale pronuncia i familiari avevano proposto ricorso in Corte d’Appello, la quale aveva respinto il gravame e confermato la sentenza di primo grado.

Non soddisfatti della decisione, i familiari della paziente deceduta proponevano ricorso presso la Suprema Corte.

Per quanto qui di interesse, i familiari si dolevano del fatto che la Corte d’Appello avesse pronunciato sentenza nel senso sopra detto, poiché aveva fondato la sua decisione sulla consulenza tecnica, svolta in sede penale, che aveva escluso la responsabilità dei sanitari, avendo accertato che la paziente deceduta era portatrice di una grave forma di cardiopatia e che, dunque, i sanitari avevano correttamente eseguito l’intervento di angioplastica.

In particolare, i ricorrenti sostenevano che i sanitari dell’Ospedale avrebbero dovuto presentare alla paziente, poi deceduta, tutti i rischi connessi all’intervento che è stato successivamente praticato, nonché farle presente la possibilità di far eseguire l’intervento in altre strutture sanitarie, specializzate nel settore e/o munite di unità di intervento di cardiochirurgia: secondo i ricorrenti, se tale circostanza fosse stata posta in essere, era ragionevole ritenere che la paziente avrebbe deciso di far eseguire l’intervento altrove.

Tale motivo è stato accolto alla suprema Corte. Secondo i giudici supremi, infatti, l’acquisizione del consenso informato da parte del medico costituisce una prestazione diversa ed autonoma rispetto all’esecuzione dell’intervento chirurgico, assumendo, dunque, rilevanza autonoma i fini di un’eventuale responsabilità risarcitoria.

Le questioni di diritto: il consenso informato

Gli ermellini sostengono che il consenso informato attiene al diritto fondamentale della persona all’espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, e quindi alla libera autodeterminazione del paziente, atteso che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non predisposizione di legge.

Dunque, il consenso informato è il presupposto per la legittimità dell’attività medica: ai sensi, infatti, dell’art. 32 Cost. nessuno può essere sottoposto a trattamento sanitario contro la sua volontà. Questa regola di rango costituzionale è altresì confermata a livello internazionale dalla Convenzione di Oviedo del 1997 (ratificata in Italia con la L. 145/2001). In base all’art. 5 di detta Convezione un intervento medico non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata, ossia il paziente, abbia rilasciato il proprio consenso informato e libero.  Ciò significa che il medico ha l’obbligo di presentare al paziente un’informazione che sia chiara ed adeguata allo scopo e alla natura del trattamento, in modo tale che il paziente stesso sia edotto delle conseguenze e dei rischi dello stesso.

In considerazione di ciò, in caso di mancanza di consenso informato, l’intervento del medico è illecito, anche quando sia nell’interesse del paziente; a meno che non sia un caso di trattamento sanitario che per legge è obbligatorio oppure in cui ricorra uno stato di necessità.

In altri termini, il consenso informato riguarda un obbligo circa l’informazione sulle prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente viene sottoposto, al fine di porlo nelle condizioni di consentirvi consapevolmente. Sulla base di tale informativa, il paziente deve essere reso edotto sia del possibile esito negativo dell’intervento stesso, sia di un possibile aggravamento delle condizioni di salute a seguito dell’intervento, sia di un possibile mancato miglioramento, quindi della sostanziale inutilità dello stesso.

Nella decisione oggetto di commento, la Corte Suprema ha richiamato anche il precedente orientamento della stessa (Cass. 19731/2014) per cui il consenso informato deve essere acquisito dagli operatori sanitari anche nei due casi estremi in cui “la probabilità di verificazione dell’evento sia così scarsa da essere prossima al fortuito o, al contrario, sia così alta da renderne certo il suo accadimento”: deve essere acquisito anche in questi casi poiché la scelta fondata sulla valutazione dei rischi appartiene al paziente, ossia al titolare del diritto esposto a tali rischi.

I giudici supremi ricordano altresì che l’obbligo di acquisire il consenso informato è a carico della struttura e del personale sanitario.

È fondamentale, ribadisce la Corte, che il consenso, volto a garantire la libertà di autodeterminazione terapeutica dell’individuo, non sia mai presunto o tacito, bensì deve essere espressamente fornito dal paziente che ha precedentemente ricevuto un’adeguata informazione. In considerazione di questo assunto, è onere della struttura e del medico provare l’adempimento dell’obbligazione di fornire un’informazione completa ed effettiva sul trattamento sanitario e sulle possibili conseguenze: la struttura e il personale sanitario vengono meno all’obbligo di fornire un adeguato consenso informato sia quando hanno omesso di riferire al paziente “la natura della cura prospettata, dei relativi rischi e delle possibilità di successo”, sia quando acquisiscono il consenso stesso con modalità improprie (ad esempio nel caso di modulo di consenso informato del tutto generico o sottoposto solo oralmente).

Altresì, i giudici della Corte precisano che la violazione del diritto al consenso informato determina anche la violazione del diritto alla salute, nel caso in cui il paziente non sia stato precedentemente informato adeguatamente sui possibili effetti pregiudizievoli del trattamento e detti effetti si verificano. In tal caso, a parere della Corte, il risarcimento viene riconosciuto nel caso in cui l’attore provi che il paziente, se correttamente informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi ovvero avrebbe rifiutato il trattamento accettando le eventuali conseguenze e sofferenze, ovvero avrebbe deciso di sottoporsi allo stesso trattamento e/o intervento in un’altra struttura.

Le valutazioni dei giudici della Suprema Corte

Nella sentenza oggetto di esami, la Corte di Cassazione prosegue affermando che i giudici di merito non hanno tenuto conto dei principi che sono stati precedentemente esposti.

I giudici della Corte di Appello, infatti, hanno dapprima ricostruito i fatti che hanno condotto la paziente al ricovero d’urgenza, in data 16 aprile, presso l’Ospedale e gli eventi che hanno successivamente condotto la paziente a sottoporsi ad intervento di angioplastica coronarica, in data 18 aprile, presso la stessa struttura, nonostante quest’ultima non fosse fornita di un reparto di cardiochirurgia. Sulla base di detti fatti, la Corte d’appello aveva poi confermato la pronuncia di primo grado e rigettato la domanda di risarcimento dei familiari della vittima, sostenendo che il decesso – come conseguenza della condotta colposa dei medici durante l’esecuzione dell’intervento – è cosa diversa e separata rispetto alla violazione del diritto al consenso informato e precisando che la violazione di quest’ultimo non ha causato la morte della paziente.

Il motivo sulla base del quale i giudici di merito avevano preso detta decisione è che secondo detti giudici era necessario eseguire un intervento tempestivo, a causa sia delle gravi condizioni di salute della paziente e a causa della prospettiva di un evento infausto se i medici non avessero immediatamente proceduto con l’intervento chirurgico: tale situazione di urgenza aveva legittimato la mancata acquisizione del consenso della paziente.

Tuttavia, sul punto, i giudici della Suprema Corte hanno ritenuto che la distanza di due giorni tra la data del ricovero e quella dell’intervento, smentisce la richiamata necessità ed improcrastinabilità dell’intervento sulla base della quale è stata motivata la decisione della Corte di Appello. Inoltre, secondo gli Ermellini, un ulteriore errore dei giudici di merito è connesso al fatto che questi ultimi abbiano preteso di trarre – da tale asserita situazione di urgenza – la convinzione che la paziente, che versava in gravi condizioni di salute, avrebbe optato per l’accelerazione dell’esecuzione dell’intervento (che poi ha dato un esito infausto), rinunziando all’opzione di farsi operare in una struttura idonea a quell’intervento, ossia una struttura adeguatamente fornita di unità di cardiochirurgia.

Alla luce di queste premesse, la Corte di cassazione ha quindi accolto il motivo di ricorso dei familiari della vittima, rinviando alla Corte d’Appello la quale dovrà procedere ad un nuovo esame della causa, applicando, però, i principi in materia di consenso informato che sono stati ribaditi dalla Suprema Corte.

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