È costituzionalmente illegittimo l’art. 580 c.p. nella parte in cui punisce l’aiuto al suicidio medicalmente assistito richiesto da persona non tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, ma affetta da patologia irreversibile e sofferenze intollerabili? Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025”, giunto alla sua V edizione, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon
Indice
- 1. Il fatto
- 2. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione: illegittimo punire l’aiuto al suicidio medicalmente assistito richiesto da persona non tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale
- 3. La soluzione adottata dalla Consulta
- 4. Conclusioni: infondatezza delle suddette questioni di legittimità costituzionale
1. Il fatto
Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Milano era chiamato a decidere su una richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano nei confronti di una persona indagata, in due procedimenti penali successivamente riuniti, per il delitto di cui all’art. 580 cod. pen..
Pur tuttavia, diversamente da quanto prospettato nella richiesta di archiviazione del pubblico ministero, che considerava il fatto in questione rientrante nell’area di non punibilità dell’agevolazione al suicidio, come circoscritta dalla sentenza n. 242 del 2019 della Consulta, il giudice riteneva come la condotta dell’indagato fosse astrattamente sussumibile nell’alveo della previsione punitiva dell’art. 580 cod. pen. visto che sarebbe mancato uno dei requisiti, a cui la non punibilità è subordinata, risultando «accertato che all’atto dell’esecuzione della condotta incriminata» nessuna delle due persone offese «dipendev[a] da un trattamento sanitario vitale» mentre sarebbero ricorsi gli altri tre requisiti delineati dalla suddetta sentenza, vale a dire: 1) la presenza di una malattia irreversibile; 2) il fatto che ambedue coloro affetti da siffatta malattia erano consapevoli delle sofferenze connesse alle rispettive patologie, e avevano formato in maniera autonoma e libera la decisione di morire e di rifiutare le terapie proposte, contattando l’indagato per l’organizzazione del viaggio e il trasporto in Svizzera, che non potevano porre in essere autonomamente. Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025”, giunto alla sua V edizione, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon
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2. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione: illegittimo punire l’aiuto al suicidio medicalmente assistito richiesto da persona non tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale
Ebbene, a fronte della situazione summenzionato, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Milano sollevava, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 32 (recte: 32, secondo comma,) e 117 (recte: 117, primo comma,) della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, «nella parte in cui prevede la punibilità della condotta di chi agevola l’altrui suicidio nella forma di aiuto al suicidio medicalmente assistito di persona non tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale affetta da una patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili che abbia manifestato la propria decisione, formatasi in modo libero e consapevole, di porre fine alla propria vita».
In particolare, il giudice rimettente osservava prima di tutto che, se è vero che la richiesta di archiviazione non poteva essere accolta, non essendo sostenibile l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 580 cod. pen., come risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 242 del 2019, che il pubblico ministero aveva proposto sulla base della equivalenza tra il rifiuto di un trattamento sanitario di sostegno vitale in atto e il rifiuto di un trattamento sanitario futile o inutile, in quanto espressivo di accanimento terapeutico dato che si tratterebbe di una «applicazione analogica», stante la «irriducibilità di fondo» dei due presupposti nel senso che, in un caso, vi è la «sottoposizione» a un trattamento sanitario di sostegno vitale, che il paziente ha rifiutato chiedendone l’interruzione mentre, nell’altro caso, vi è la «prospettazione» di un trattamento «mai iniziato e che il paziente di fatto non ha mai rifiutato espressamente», tuttavia, proprio perché il singolo giudice, in via interpretativa, non potrebbe «spostare il delicato baricentro» su cui poggia la causa di giustificazione elaborata in sede di legittimità costituzionale, la risoluzione della questione di legittimità costituzionale sollevata diverrebbe rilevante ai fini della definizione del giudizio.
Premesso ciò, il Giudice delle leggi notava come un primo profilo di censura dell’art. 580 cod. pen. fosse prospettabile in riferimento al principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., poiché, dall’ambito applicativo della «scriminante procedurale» riconosciuta dalla sentenza n. 242 del 2019 della Consulta, risulterebbe esclusa «una situazione sostanzialmente identica», cioè quella del soggetto affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psichiche intollerabili, e capace di prendere decisioni libere e consapevoli, ma che non sia tenuto in vita da un trattamento sanitario di sostegno vitale visto che, in casi del genere, si determinerebbe «una irragionevole disparità di trattamento», unicamente in quanto il paziente «non ha voluto iniziare un trattamento sanitario vitale perché ritenuto inutile».
Ebbene, a fronte di quanto appena esposto (unitamente ad altre considerazioni, prevalentemente medico-legali, contenute nel provvedimento qui in commento a cui si rinvia), il giudice a quo sottolineava il carattere irragionevole, e dunque discriminatorio, della esclusione dalle pratiche di suicidio assistito di chi, pur affetto da una patologia irreversibile e destinato a morte certa, «non abbia in corso un trattamento di sostegno vitale in quanto futile o inutile» dal momento che, anche tali persone, al pari di quelle tenute in vita da un simile trattamento, «affrontano con certezza la prospettiva della loro morte, più o meno imminente, preceduta da un periodo più o meno lungo di decadimento fisico, accompagnato spesso da acute sofferenze fisiche».
Chiarito ciò, il giudice rimettente deduceva altresì la violazione degli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., dal momento che l’esercizio del diritto all’autodeterminazione nelle scelte terapeutiche verrebbe limitato imponendo al paziente «un’unica modalità di congedo [d]alla vita», ossia di «iniziare un trattamento sanitario», seppure ab origine inutile, «per poterlo poi interrompere», facendo ciò aumentare la sofferenza della persona, esposta all’ulteriore sacrificio fisico per le conseguenze che il trattamento proposto provocherebbe.
Pertanto, per il giudice a quo, nel caso in cui il suddetto trattamento non sia attivo e nemmeno se ne prospetti l’utilità e laddove il paziente rifiuti le cure palliative e la sedazione profonda, egli sarebbe lasciato ad attendere la morte «senza alcuna tutela per la sua dignità di uomo» e di persona.
Infine, un ulteriore profilo di censura di illegittimità costituzionale era ravvisato a proposito dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU.
In particolare, secondo il giudice milanese, pur dandosi atto della mancanza di consenso sul tema tra gli ordinamenti dei Paesi europei, una volta ammessa dalla normativa italiana la liceità, nei limiti già indicati, del suicidio medicalmente assistito, questo dovrebbe «essere assicurato senza discriminazione […] a tutti i malati che si trovano nelle medesime condizioni», in guisa tale che il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, quale condizione di liceità dell’aiuto al suicidio, violerebbe i suddetti parametri perché, per un verso, non vi sarebbe giustificazione all’ingerenza statale rispetto alla contrazione del diritto di autodeterminazione del paziente, per altro verso, si determinerebbe una discriminazione basata su una condizione personale del tutto accidentale, dipendente dalla tipologia della malattia.
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3. La soluzione adottata dalla Consulta
La Corte costituzionale – dopo avere reputato inammissibili le eccezioni prospettate dalle parti costituite e meglio precisato l’oggetto delle questioni trattate nel caso di specie – le reputava infondate, e sostanzialmente per le medesime ragioni poste a base della sentenza n. 135 del 2024, in occasione della quale si ritennero parimenti non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 32 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
In particolare, la Consulta – dopo avere compiuto siffatta affermazione e ripercorso sinteticamente le doglianze prospettate nell’ordinanza di rimessione – notava prima di tutto come fosse opportuno ribadire il carattere essenziale, che rivestono i requisiti e le condizioni procedurali per la non punibilità dell’aiuto al suicidio cui ha fatto riferimento la giurisprudenza costituzionale, dato che essi, nella perdurante assenza di una legislazione che disciplini la materia, sono funzionali a creare una “cintura di protezione” per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio assistito «subiscano interferenze di ogni genere» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 6 del Considerato in diritto), fermo restando che, anche nel contesto del pluralismo etico che caratterizza una democrazia liberale, solo «una concezione astratta dell’autonomia individuale» (ordinanza n. 207 del 2018) del soggetto, nel senso etimologico di abs-tractus (ovvero tratto fuori, in forza di una visione individualistica assoluta, dal contesto sociale), può rivelarsi insensibile a questa preoccupazione: se l’autodeterminazione, infatti, è costretta o comunque condizionata dalle circostanze, allora non è più tale.
Ebbene, per il Giudice delle leggi, è proprio la tutela della libertà di autodeterminazione a giustificarne, innanzitutto affinché sia genuina e responsabile, il bilanciamento con il dovere dello Stato di tutela della vita, la quale «si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona» (sentenze n. 135 del 2024, punto 5.1. del Considerato in diritto, e n. 50 del 2022, punto 5.2. del Considerato in diritto, la quale precisa, poi, al punto 5.3.: «[q]uando viene in rilievo il bene della vita umana, dunque, la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima»), trattandosi dunque di una prospettiva radicalmente diversa da quella che animava la ratio originaria della punizione dell’aiuto al suicidio prevista dall’art. 580 cod. pen., rivolta a «tutelare la vita umana intesa come bene indisponibile, anche in funzione dell’interesse che la collettività riponeva nella conservazione della vita dei propri cittadini» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 6 del Considerato in diritto).
Per la Corte di legittimità, dal principio personalista di cui all’art. 2 Cost. non si ricava quindi il dovere di vivere cui si rifaceva l’originaria ratio dell’art. 580 cod. pen., bensì, rovesciando la prospettiva, il preciso «dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 5 del Considerato in diritto).
In definitiva, se l’autodeterminazione della persona «evoca l’idea secondo cui ciascun individuo debba poter compiere da sé le scelte fondamentali che concernono la propria esistenza, incluse quelle che concernono la propria morte», tale nozione deve essere sottoposta «a un bilanciamento a fronte del contrapposto dovere di tutela della vita umana; bilanciamento nell’operare il quale il legislatore deve poter disporre, ad avviso di questa Corte, di un significativo margine di apprezzamento» (sentenza n. 135 del 2024, punto 7.3. del Considerato in diritto).
Del resto, l’affermazione del dovere dello Stato di tutelare la vita umana è stata alla base anche della recente decisione di inammissibilità di un referendum abrogativo che mirava a rendere lecito l’omicidio del consenziente (sentenza n. 50 del 2022), «il cui esito positivo sarebbe stato quello di lasciare la vita umana in una situazione di insufficiente protezione, in contrasto con gli obblighi costituzionali e convenzionali menzionati» (sentenza n. 135 del 2024, punto 5.1. del Considerato in diritto).
Orbene, ad avviso del Giudice delle leggi, è proprio in tale prospettiva che la giurisprudenza costituzionale ha sviluppato, su un duplice livello, le condizioni per accedere al suicidio assistito, dato che se questo, per un verso, «amplia gli spazi riconosciuti all’autonomia della persona nel decidere liberamente sul proprio destino», «crea – al tempo stesso – rischi che l’ordinamento ha il dovere di evitare, in adempimento del dovere di tutela della vita umana che, esso pure, discende dall’art. 2 Cost.» (sentenza n. 135 del 2024, punto 7.2. del Considerato in diritto).
Nel dettaglio, il primo livello attiene alla necessità di prevenire il pericolo di abusi a danno delle persone deboli e vulnerabili, perché in situazioni di fragilità e sofferenza la scelta di porre fine alla propria vita potrebbe essere indotta o sollecitata da terze persone, per le ragioni più diverse visto che
bisogna considerare la situazione delle persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine, le quali potrebbero essere facilmente indotte a congedarsi prematuramente dalla vita qualora l’ordinamento consentisse a chiunque di cooperare, magari per ragioni di personale tornaconto, all’esecuzione di una loro scelta suicidaria (ordinanza n. 207 del 2018, punto 6 del Considerato in diritto), fermo restando che non marginale è poi il rischio che la richiesta di accesso al suicidio assistito costituisca una scelta non sufficientemente meditata, come ha recentemente rilevato la Corte EDU (sentenza Karsai, paragrafo 151), sottolineando altresì come l’accertamento della genuinità della richiesta del paziente divenga particolarmente difficoltoso in determinate situazioni cliniche, come nelle patologie neurodegenerative.
Per la Consulta, sono quindi le esigenze di tutela delle persone deboli e vulnerabili che danno rilievo alle precise condizioni procedurali costantemente ribadite dalla Corte costituzionale (sentenze n. 135 del 2024 e n. 242 del 2019, ordinanza n. 207 del 2018) poiché la «procedura medicalizzata», di cui all’art. 1 della legge n. 219 del 2017, è funzionale a garantire che l’accesso al suicidio assistito avvenga nell’ambito di una seria assistenza medica; in sua assenza la patologia non può essere inquadrata in modo adeguato e la prospettiva della morte come unica via di uscita potrebbe essere frutto di un irrimediabile abbaglio.
In questo contesto assume di conseguenza, per la Corte, grande importanza la concreta messa a disposizione di un percorso di cure palliative, che configura «un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente» (sentenza n. 242 del 2019 e ordinanza n. 207 del 2018) dal momento che il contatto con sanitari e con una struttura effettivamente in grado di assicurare la tempestiva attivazione di terapie palliative può garantire il diritto dei pazienti a ricevere informazioni complete sul loro percorso di cura e permettere a ogni persona l’opportunità di confrontarsi con la malattia e con l’ultimo tratto del cammino di vita in maniera dignitosa e libera da sofferenze, anche nella prospettiva di prevenire e ridurre in misura molto rilevante la domanda di suicidio assistito.
Ad ogni modo, l’altra condizione è quella del necessario coinvolgimento del Servizio sanitario nazionale, a garanzia di un disinteressato accertamento della sussistenza dei requisiti di liceità dell’accesso alla procedura di suicidio assistito.
Infine, in attesa di un organico intervento del legislatore – che ben potrebbe individuare strutture più calibrate, dal punto di vista delle competenze di etica clinica –, un’ulteriore condizione è quella del necessario parere del comitato etico territorialmente competente, funzionale anche alla specifica esigenza di ottenere un parere terzo in relazione alla domanda di accesso al suicidio assistito.
Ciò posto, il secondo livello è quello di contrastare derive sociali o culturali che inducano le persone malate a scelte suicide, quando invece ben potrebbero trovare ragioni per continuare a vivere, ove fossero adeguatamente sostenute dalle rispettive reti familiari e sociali, oltre che dalle istituzioni pubbliche nel loro complesso dato che i rischi in questione «non riguardano solo la possibilità che vengano compiute condotte apertamente abusive da parte di terzi a danno della singola persona che compia la scelta di porre termine alla propria esistenza, ma riguardano anche – come si è osservato (Corte suprema del Regno Unito, Nicklinson e altri, paragrafo 228) – la possibilità che, in presenza di una legislazione permissiva non accompagnata dalle necessarie garanzie sostanziali e procedimentali, si crei una “pressione sociale indiretta” su altre persone malate o semplicemente anziane e sole, le quali potrebbero convincersi di essere divenute ormai un peso per i propri familiari e per l’intera società, e di decidere così di farsi anzitempo da parte» (sentenza n. 135 del 2024, punto 7.2. del Considerato in diritto).
D’altronde, in un contesto storico caratterizzato da tensioni sull’allocazione delle risorse pubbliche, il cosiddetto “diritto di morire” rivendicato in alcune circostanze potrebbe essere paradossalmente percepito dal malato come un “dovere di morire” per non “essere di peso”, con un grave abbassamento della sensibilità morale collettiva che tutela le persone più fragili, spesso, peraltro, “invisibili”.
Tale scivolamento colliderebbe però frontalmente con il principio personalista che anima la Costituzione italiana mentre, da questo principio, deriva, invece, il dovere della Repubblica di rispondere all’appello che sgorga dalla fragilità, in modo che una persona malata possa avvertire la solidarietà attorno a sé non a tratti, non a prolungate intermittenze, ma in via continuativa, attraverso un percorso di effettiva presa in carico da parte del sistema sanitario e sociale.
Diventa quindi cruciale, per la Consulta, garantire adeguate forme di sostegno sociale, di assistenza sanitaria e sociosanitaria domiciliare continuativa, perché la presenza o meno di queste forme di assistenza condiziona le scelte della persona malata e può costituire lo spartiacque tra la scelta di vita e la richiesta di morte, così come è per di più rilevante mettere a disposizione delle persone con malattie inguaribili tutti gli strumenti tecnologici e informatici che permettono loro di superare l’isolamento e ampliare la possibilità di comunicazione e interazione con gli altri, non potendo al tempo stesso essere trascurato il “prendersi cura” anche di coloro che, nelle famiglie o all’interno delle relazioni affettive, assistono i pazienti in situazioni particolarmente difficili e per lunghi periodi.
Del resto, rammentava la Consulta nella pronuncia qui in commento, che, se già nell’ordinanza n. 207 del 2018 la medesima Corte costituzionale aveva, peraltro, stigmatizzato il rischio di una «prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative» (punto 10 del Considerato in diritto), del resto inserite nell’ambito dei livelli essenziali di assistenza, va evidenziato che, a oggi, in Italia: a) non è garantito un accesso universale ed equo alle cure palliative nei vari contesti sanitari, sia domiciliari che ospedalieri; b) vi sono spesso lunghe liste di attesa (intollerabili in relazione a chi versa in situazioni di grave sofferenza); c) si sconta una mancanza di personale adeguatamente formato e una distribuzione territoriale dell’offerta troppo divaricata (in tal senso Comitato nazionale per la bioetica, parere “Cure Palliative”, approvato il 14 dicembre 2023); d) la stessa effettiva presa in carico da parte del servizio sociosanitario, per queste persone, è a volte insufficiente.
Alla luce di tale stato delle cose, per il Giudice delle leggi, non può che rinnovarsi, con decisione, lo «stringente appello» al legislatore (sentenza n. 135 del 2024, punto 10 del Considerato in diritto) affinché dia corso a un adeguato sviluppo delle reti di cure palliative e di una effettiva presa in carico da parte del sistema sanitario e sociosanitario, al fine di evitare un ricorso improprio al suicidio assistito.
Chiarito ciò, era, da ultimo, ribadito con forza l’auspicio, già formulato nell’ordinanza n. 207 del 2018, nella sentenza n. 242 del 2019 e da ultimo nella sentenza n. 135 del 2024, che il legislatore e il Servizio sanitario nazionale intervengano prontamente ad assicurare concreta e puntuale attuazione a quanto stabilito dalla sentenza n. 242 del 2019, ferma restando la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina nel rispetto delle esigenze richiamate ancora una volta dalla presente pronuncia.
La Corte costituzionale, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, dichiarava non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 32, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Milano con la succitata ordinanza di rimessione.
4. Conclusioni: infondatezza delle suddette questioni di legittimità costituzionale
La Consulta, con la pronuncia qui in esame, in linea con quanto già affermato in precedenza, sempre in sede di giustizia costituzionale, con la sentenza n. 135 del 2024, come appena visto, ha ritenuto infondate le suesposte questioni di legittimità costituzionale.
Pur tuttavia, il Giudice delle leggi non si esime nel richiamare il legislatore, sulla falsariga di quanto evidenziato sempre da codesto Giudice in precedenti pronunce, affinché, oltre a dare corso a un adeguato sviluppo delle reti di cure palliative e di una effettiva presa in carico da parte del sistema sanitario e sociosanitario, al fine di evitare un ricorso improprio al suicidio assistito, provveda prontamente ad assicurare una concreta e puntuale attuazione a quanto stabilito dalla sentenza n. 242 del 2019.
In particolare, in quella occasione – (in cui venne dichiarata “l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione –, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”) – una volta preso atto che la “legislazione oggi in vigore non consente (…) al medico di mettere a disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte”, il Giudice delle leggi “suggeriva” diverse opzioni normative volta ad ovviare a tale stato delle cose, quali, “ad esempio, le modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto, la disciplina del relativo “processo medicalizzato”, l’eventuale riserva esclusiva di somministrazione di tali trattamenti al servizio sanitario nazionale, la possibilità di una obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella procedura”, ovvero procedendo “mediante una mera modifica della disposizione penale di cui all’art. 580 cod. pen. (…) inserendo la disciplina stessa nel contesto della legge n. 219 del 2017 e del suo spirito, in modo da inscrivere anche questa opzione nel quadro della “relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico”, opportunamente valorizzata dall’art. 1 della legge medesima» (ordinanza n. 207 del 2018)”, evidenziandosi pure “l’esigenza di «introdurre una disciplina ad hoc per le vicende pregresse», anch’essa variamente calibrabile”, oltre quella “di adottare opportune cautele affinché «l’opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua, ove idonee a eliminare la sua sofferenza […] in accordo con l’impegno assunto dallo Stato con la citata legge n. 38 del 2010»” dato che il “coinvolgimento in un percorso di cure palliative deve costituire (…) «un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente» (come già prefigurato dall’ordinanza n. 207 del 2018)”.
Orbene, stante quanto rilevato pure dalla pronuncia qui in commento, tali “suggerimenti” sono rimasti “lettera morta”, non avendo il legislatore ancora provveduto in tale ambito.
L’auspicio è dunque quello che il Parlamento affronti tali problematiche una volta per tutte e il prima possibile, in linea con quanto richiesto dalla Corte costituzionale in molteplici occasioni, ivi compresa quella trattata dalla sentenza qui in commento.
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