Abuso d’ufficio e dintorni

Cito Monica 28/07/11
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Storicamente, il tema dell’imparzialità e del buon andamento della Pubblica Amministrazione ha trovato consacrazione normativa nell’articolo 97 della Costituzione. È questa la norma che, nel sistema giuridico, introduce i principi citati, regolanti l’agire della pubblica amministrazione, o che dovrebbero regolarlo. È considerata, da parte della dottrina e della giurisprudenza, come norma programmatica, necessitante di norme attuative dei propri contenuti. Queste ultime sono norme d’attuazione tipiche del diritto amministrativo, e che rinvengono la loro più importante espressione in campo penale, nell’articolo 323 del codice sostanziale.

Un’alluvionale congerie di norme di diritto amministrativo (plurimæ leges) tenta di dare fisicità ai principi del buon andamento e dell’imparzialità. Sarà la loro violazione precipua, data la loro realtà presupposta e presupponente i fatti, insieme alla valutazione di gravità inerente la violazione stessa, a determinare la discesa in campo del giudice penale e l’interesse dello stesso; che si trova necessitato ad effettuare un controllo esterno sull’azione della Pubblica Amministrazione. Controllo che ha generato – e continua a generare negli uffici pubblici e nella P. A. nel suo insieme – una reazione “allergica”. Tutte le volte in cui il giudice penale è chiamato ad esercitare un controllo esterno con i propri sistemi/metodi/mezzi investigativi sull’operato della pubblica amministrazione, è evidente il tentativo della stessa di arginarlo; a volte invocando una presunta violazione della separazione di poteri tra P. A. ed attività giurisdizionale.

È proprio il tema del controllo del giudice penale sull’attività amministrativa, ad aver determinato un percorso di nascita e crescita dell’articolo 323, assolutamente tortuoso e sofferto. Norma-baluardo dell’azione amministrativa, al di là della quale il giudice è chiamato ad intervenire.

Negli anni Novanta ben due riforme l’hanno agganciata.

Nel 1990, il legislatore interviene a modificare l’originaria disposizione del codice Rocco nell’abuso del pubblico ufficiale, determinato dallo scopo del dolo specifico di arrecare vantaggio o danno nei confronti di qualcuno, precisandone la sanzionabilità penale se non previsto da altre disposizioni penali. Era possibile al giudice l’ingerenza nelle scelte discrezionali della P. A. , attribuitagli da una norma di chiusura, rigida, “ferma”. In realtà, l’eccessiva vaghezza, la strutturale indeterminatezza della norma, induce a rivedere l’impostazione della fattispecie, all’evidente fine di soddisfarne in maniera più congrua i criteri di precisione, tassatività, determinatezza.

Così, si passa, con la riforma del ’97, dal cosiddetto abuso innominato negli atti d’ufficio ad una norma che, in qualche misura, mira a restringere l’ambito d’intervento del giudice penale entro confini più limitati.

Ancora una volta però, dovendo il legislatore emanare una norma generale ed astratta, si tenne appunto sul generale; al livello da non spiegare in maniera esauriente/esaustiva/convincente in che cosa consistesse l’abuso del pubblico ufficiale, tale da richiedere la sanzione penale.

Pertanto, a distanza di sette anni, il legislatore ritorna sul testo normativo, sulla scorta delle pressioni operate dai pubblici amministratori sul Parlamento. Questa volta interviene in maniera più drastica, e fissa stringenti paletti, limitando l’intervento del giudice penale in confini molto definiti.

E, questa volta, la reazione di dottrina e giurisprudenza è quasi opposta alla prima. Autori come Magliaro e Grosso asseriscono che, con la riforma del 1997, il legislatore stravolge l’abuso d’ufficio, snaturandolo. È avvinto, agganciato ad una nozione di violazione che lascia trasparire l’intento politico d’impedire l’ingerenza di tale giudice nelle scelte di merito del pubblico amministratore: limitare l’intervento per evitare che il giudice possa arrivare a sostituirsi al pubblico amministratore, depositario del potere discrezionale di scelta/e nell’interesse pubblico, in ragione della migliore soluzione (quella ritenuta d’opportunità oggettiva); quasi legittimandolo a sostituire le proprie valutazioni e visioni dell’interesse pubblico del caso concreto, rispetto a valutazioni e visioni già operate dal pubblico amministratore. Parola d’ordine di tale ultima riforma, diventa l’essere assolutamente precluso al giudice penale il sindacato sull’eccesso di potere, che vada a scandagliare il potere discrezionale del pubblico amministratore, mettendolo in condizione di trovarsi nella difficoltà di dover rendere conto al potere giudiziario, che è un altro potere dello Stato.

Se la riforma del 1990 aveva fatto poco, quella del 1997 centra l’obiettivo, ma probabilmente dice troppo. Eliminando il sindacato del giudizio penale sul potere di scelta discrezionale, che deve essere conservato in capo al pubblico amministratore, è come se si svuotasse sostanzialmente di contenuto la norma, al punto tale da impedire il controllo di legalità, che pure il giudice penale deve avere sull’attività amministrativa quando questa debordi rispetto ai criteri/parametri/principi regolatori.

Il tema, oggi diventato pesante noioso pedante, è quello di definire, ad avvenuta riforma del ’97, in cosa debba consistere il potere di controllo di legalità del giudice penale sull’attività della P. A. Quali siano i paletti, i limiti all’interno dei quali deve muoversi, si può muovere. Quali siano i terreni sui quali non può approdare. In particolare, il pubblico ministero si trova, di fronte all’abuso d’ufficio, in una posizione assolutamente scomoda.

Nella vulgata delle cronache giudiziarie, viene tacciato di penetrare oltre misura nelle sfere della P. A. Dall’altro, scontenta coloro che si rivolgono al giudice penale perché ritengono che la giustizia amministrativa sia troppo lunga nella sua durata e parziale nel suo ambito di giurisdizione.

L’Associazione Nazionale Comuni Italiani, alla vigilia della riforma del ’97, probabilmente propugnandola, fece uno studio statistico. Dichiarò che il 95% delle inchieste penali sugli abusi  d’ufficio si risolveva in archiviazioni, assoluzioni, proscioglimenti. Evidente che il dato volesse denunciare l’erroneità del sistema nel suo insieme, al punto che qualcuno, in dottrina, propose d’abrogare in toto l’abuso d’ufficio, quindi eliminare il presidio penale sull’attività amministrativa, in quanto cosa non di pertinenza del giudice penale. Probabilmente, il 95% è dato reale, perché, nei fatti, chi si rivolge al giudice penale spesso confonde l’illegittimità amministrativa con l’illiceità della condotta del pubblico ufficiale. Molte volte, tale confusione induce il giudice penale a scontentare/disattendere la domanda di giustizia proveniente da chi si è sentito leso da un’azione dell’amministrazione pubblica, si è sentito danneggiato od ha accusato il torto per essergli stato favorito altro.

Il disagio è notevole, e cresce quando il pubblico ministero ritiene che non di sola illegittimità amministrativa stricto sensu si parli, ma la stessa si collochi nel contesto di un’azione più generale del pubblico funzionario: il quale non soltanto commette l’illegittimità amministrativa, ma lo fa procurando vantaggio ingiusto a sé o a terzi; oppure danno ingiusto.

Secondo la dottrina post ultima riforma, nel momento in cui la nuova formulazione della norma si pone per «il pubblico ufficiale che, nell’esercizio delle sue funzioni ed in violazione di legge o regolamento, abusi del suo ufficio intenzionalmente, procurando ingiusto vantaggio o danno», si racchiude, nel testo dell’articolo, l’intento del legislatore d’impedire al giudice penale il controllo del merito.

La nozione di violazione di legge evoca uno dei tre vizi dell’atto amministrativo, lasciando fuori l’eccesso di potere ed avendo poi compreso anche l’incompetenza. La dottrina sentiva il peso di una norma “di fatto” abrogata.

Quando normalmente un pubblico ministero riceve una notizia di reato per abuso d’ufficio, la polizia giudiziaria lo esorta ad andare presso l’ufficio pubblico ad acquisire le “carte”. Il P.M. in genere emette ordine d’esibizione e delega l’acquisizione, anticipatamente sapendo che quelle “carte” non porteranno a nulla: «Le carte sono formalmente a posto». Vogliamo, con questo accenno al pratico, arrivare ad anticipare quella che sarà, sul punto, la giurisprudenza della Corte di Cassazione, e quanto il suo orientamento interpretativo abbia contenutisticamente offerto alla locuzione di «violazione di legge».

Se pensassimo al pubblico amministratore così pollo da formare un atto in evidente spregio delle norme amministrative che regolano il suo agire, saremmo degli illusi. Salvo casi di aspiranti suicidi, normalmente, dal punto di vista formale, il pubblico amministratore le cose le fa nell’apparente legalità e regolarità formale. Cosa valutò la Cassazione all’indomani della riforma? Asserì che, se intendiamo la violazione di legge come rispetto del tenore letterale e formale della norma amministrativa, possiamo tranquillamente chiudere la bottega giuridica, dato che non riusciremo mai a rincorrere l’abuso d’ufficio. Quindi, quando analizzo una norma amministrativa, non devo soltanto valutarne l’aspetto e il tenore letterale e formale.

Esempio:

1)      si dice che una trattativa privata deve contemplare almeno tre o cinque concorrenti   è logico credere che il pubblico amministratore che la gestisce inviterà tre o cinque concorrenti;

2)      il dirigente la licitazione, normalmente, farà cercare/ricercare/selezionare gli operatori economici che verranno invitati alla licitazione stessa.

3)      Da un punto di vista formale, è tutto a posto.

La Cassazione invita ad andare – quando si sindaca la norma amministrativa per vedere se è stata violata oppure no – a scandagliare il suo aspetto teleologico (scopo e ratio); il voluto dal legislatore “amministrativo” quando ha affidato a quel pubblico amministratore la gestione della cosa pubblica. Un esempio concreto:

  1. un caso giudicato in prima battuta a Torino.
  2. È denunciato un primario-barone della facoltà di medicina dell’Università di Torino, il quale aveva dei suoi beniamini aspiranti alla cattedra di professore associato.
  3. Si verrà poi a scoprire che, tra i quattro beniamini aspiranti vincitori, c’era anche la figlia del professore in questione.
  4. Storicamente accade che, qualche giorno prima della prova, qualcuno ruba i test.
  5. Si viene a scoprire il tutto.
  6. Si pone il problema se rimodulare/rifare i test, oppure no.
  7. Nel caso specifico, gli esaminatori non provvedono alla redazione di nuovi test e sottopongono agli esaminati quelli che erano stati rubati.
  8. La denuncia parte da una candidata esclusa.
  9. Il Tribunale e la Corte d’Appello di Torino condannano il professore.
  10. In Cassazione, la difesa del professore espone: «Violazione di legge o regolamento. Trovatemi la norma che stabilisca che, nel caso in cui qualcuno sottrae le prove alla vigilia dell’esame, il commissario deve riformarle in modo tale da scongiurare che siano favoriti dei candidati. A stretto rigore, non c’è».

Segue l’esplicato ragionamento della Corte di Cassazione.

Se la legge ti attribuisce il compito di dirigere una procedura selettiva qual è il concorso, il presupposto di fatto di una qualunque procedura è che ci siano le condizioni tali per cui tutti partano da una posizione paritaria. Poiché l’esaminatore è posto in una sorta di posizione di garanzia, e deve tutelare la ratio della norma, poco importa che la norma, nel suo tenore letterale, sia stata violata o addirittura non esista. Dalla norma che disciplina il concorso e dalla nozione stessa, dal significato intrinseco di concorso, devo estrapolare/ricavare quel principio/quei criteri o parametri; primo fra tutti l’obbligo d’imparzialità nella gestione della voce pubblica.

Quando valuto la violazione di una norma, ne devo dunque valutare la ratio. Se la stessa m’indica una certa direzione, sto esercitando male il mio potere discrezionale perché dovevo piegare la mia funzione pubblica per favorire interessi privati.

Un doveroso richiamo allo sviamento di potere, antichissimo vizio dell’atto amministrativo, risalente alla dottrina ottocentesca, ci conduce alla risoluzione di casi “pari” all’ultimo segnato, dato che l’azione amministrativa fortemente aderente al dato letterario è “sviata”/ “sviante”. Il potere si piega a seguire un percorso diverso da quello attribuito dal legislatore.

Se lo scopo della legge (la sua ratio) è stato violato, il giudice penale può concludere per una violazione di legge.

La Cassazione non rinuncia all’idea forte che tale giudice debba e possa sindacare l’uso distorto del potere discrezionale del pubblico amministratore. L’in sé dell’abuso d’ufficio è lo stravolgimento del potere discrezionale.  

Se il pubblico ministero non avrà la possibilità d’indagare sul potere discrezionale per scandagliare se è stato rivolto non già ad un interesse pubblico, ma ad uno privato, è chiaro che le sue armi di controllo di legalità verranno meno. In definitiva (e sempre secondo la Cassazione), se la riforma del ’97 ha impedito il sindacato sull’eccesso di potere, non lo ha bloccato sullo sviamento di potere. E allora: tutte le volte in cui vedo che il pubblico amministratore, con furbizia/malizia ha perseguito, pur col rispetto formale della norma, uno scopo diverso da quello tipico della norma stessa, posso dire che ha violato la legge. La Cassazione si muove sulla base di uno sprone dottrinale più restrittivo della prima, più garantista, giurisprudenza. Ed ha avviato tutto questo percorso interpretativo giungendo al risultato visto non senza passare da altre strade; prima fra tutte l’articolo 97 della Costituzione, quale norma-programma del buon andamento. Con riferimento, invece, all’imparzialità, è considerabile norma precettiva, perché regola direttamente l’azione del pubblico amministratore. L’abuso d’ufficio, da reato di condotta, è diventato reato di evento. Sono VANTAGGIO e DANNO a costituire l’evento. Salvo la possibile ipotesi del tentativo.

La forte novità è data dall’intenzionalità: il pubblico amministratore, se abusa del suo ufficio, pertanto violando la legge e procurando un vantaggio a qualcuno ed un danno a qualche altro, lo deve fare al precipuo scopo di favorire/privilegiare l’interesse privato a scapito del pubblico. In realtà, pur essendo questo un connotato fondamentale, ineliminabile, del reato de quo, succede spesso che il pubblico amministratore, nel perseguire un interesse privato, realizzi o miri a realizzare un interesse pubblico. In tale coesistenza d’interessi, la cassazione richiama l’attenzione sull’interesse primario. Se l’interesse primario che ha dettato il comportamento/la condotta viene ricostruito essere il favorire il privato, evidentemente c’è dolo (elemento psicologico) e il reato sussiste. La compresenza di elemento pubblico e privato gioca a favore del pubblico ufficiale. Gli fa dire che l’intenzione non era quella/non era soltanto quella di favorire il privato.

Altro elemento oggi caratterizzante l’articolo 323 codice penale è che ci può essere un interesse diverso da quello patrimoniale. Posso procurare un danno non patrimoniale e commettere ugualmente l’abuso d’ufficio. Esempio: un dirigente demansiona, senza che tuttavia ciò comporti un danno economico, un proprio dipendente perché gli ha testimoniato contro. Dovendo però essere il vantaggio di natura patrimoniale, si possono creare problemi applicativi. I pubblici amministratori commettono abusi anche per esigenze “politiche”, oltre che per scopi patrimoniali d’arricchimento. Pensiamo a condotte poste in essere per scopi elettorali.

Altro esempio concreto: si è celebrato, negli anni scorsi, un processo che ha visto la condanna del sindaco di Agrigento, il quale nulla faceva, ed anzi impediva, che i suoi dirigenti cercassero di demolire le costruzioni abusive intorno alla Valle dei Templi, perché questo gli procurava un vantaggio elettorale. Evidentemente, abbattere tutte le case abusive intorno ai templi, avrebbe determinato una mobilitazione degli occupanti, e quindi non solo non fece nulla, ma addirittura impedì.

L’abuso d’ufficio non è detto che si realizzi solo attraverso l’emanazione di atti (amministrativi, legislativi, giurisdizionali). Si concreta anche con condotte materiali od omissive. Il sindaco di Agrigento poneva in essere una condotta positiva. La Cassazione, posta di fronte al problema di qualificare la di lui intenzione, valuta non trattarsi di arricchimento ed arriva a confermare la condanna dicendo che si è determinato un vantaggio patrimoniale per il terzo, ossia gli occupanti abusivi.

Il contesto spazio-temporale entro cui so commette l’abuso, è stato ristretto dal legislatore del ’97, il quale colloca l’azione del pubblico ufficiale nello svolgimento delle funzioni o servizio, evitando il sanzionamento di un approfittamento di una mera qualità.

Per ribadire: commette abuso soltanto chi esercita male i propri poteri nell’ambito dell’esercizio delle proprie funzioni pubblicistiche, e non il mero profittatore della propria qualità.

Esempio: un procuratore della Repubblica non in servizio viene fermato dalla polizia perché sta andando troppo veloce con la macchina. Inventa la scusa che lo fa per ragioni di servizio. Sta abusando della sua qualità, ma il reato non è sussistente perché il legislatore ha espunto tutti quegli abusi che si convertono in un mero approfittamento della propria posizione/della propria qualità senza che ciò involga in un cattivo uso del potere e della funzione.

L’art. 323 c. p. è, da una parte, considerata norma centrale nel catalogo delle norme a tutela della pubblica amministrazione, dall’altra, è valutata la Cenerentola del sistema sostanziale penale in tema di delitti contro la P. A. Infatti, quando si arriva a denunciare un abuso d’ufficio, spesso si ha la sensazione che ci si stia accontentando, che dietro si nasconda un più grave reato che non si riesce a scoprire. L’approccio a questa norma è particolarmente spinoso. E lo è sia per chi si trova nella veste di soggetto passivo, parte offesa, danneggiato di reato, sia per chi ne è imputato. È norma che richiede delicatezza, prudenza, attenzione. Bisogna saperla maneggiare e manovrare, dato che facile è, per il giudice penale, il rischio di finire per esercitare il proprio potere giurisdizionale peggio di quanto il pubblico ufficiale abbia fatto con riferimento alle funzioni pubbliche.

Sinora, con la norma base, abbiamo aperto la strada alla discussione intorno alla corruzione e alla concussione, rimanendo ben ancorati ai «non facere» dettati dall’unico articolo codicistico che sin qui ha vessato queste pagine, riempiendo d’ipotesi la mente.

Secondo le parole di Giuliano Vassalli: «La corruzione è uno dei più gravi fenomeni di disgregazione dello Stato e dell’ordine sociale». Tecnicamente, tale reato è parzialmente proprio al concorso necessario, perché vuole due soggetti, di cui uno qualificato (un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio). Il rapporto è di tipo sinallagmatico. Alla prima lettura della norma ex articolo 317 codice penale, segue l’idea del concussore reo e del concusso vittima. In realtà, il sinallagma e la bilaterale responsabilità sono previste nel successivo articolo 321.

Il sistema, sotto quest’egida normativa, equipara il trattamento sanzionatorio tra corrotto e corruttore. Ne discende il particolare aspetto dell’impedimento processuale del corrotto alla collaborazione, dovuto al reato contratto bilateralmente illecito posto in essere.

Recentemente, una sentenza molto interessante delle Sezioni Unite (la 26654 del 2008) ha posto in luce la distinzione dottrinaria di Fernando Mantovani tra reato in contratto e reati contratto. Nell’ipotesi di reati contratto, è la stessa stipulazione del contratto illecito che costituisce reato. L’altra ipotesi (reato in contratto) ricorre quando il reato va ad incidere sulla volontà contrattuale o sull’esecuzione del programma negoziale. E il negozio rimane efficace tra le parti salvo che venga annullato a seguito dell’azione prevista dagli articoli 1441 e seguenti del codice civile.

Il codice penale dedica moltissime norme alla corruzione dalle molteplici forme. Ed abbiamo studiato che distinguono tra corruzione attiva e passiva, propria e impropria, antecedente e susseguente. La distinzione più rilevante è tra corruzione antecedente e susseguente.

Chiudiamo questo minisaggio con la sentenza a Sezioni Unite sul caso Mills: corruzione in atti giudiziari ex articolo 319 ter codice penale, introdotto dalla legge 87 del 1990. In precedenza, tale corruzione non rappresentava una fattispecie autonoma, ma semplicemente circostanza aggravante.

Il delitto di corruzione in genere è reato ad elevata cifra oscura. Dovendo seguire i criminologi nella distinzione tra cifra nera e cifra grigia, osserviamo che la prima riguarda i reati non scoperti e la seconda concerne i reati che sono scoperti, ma di cui resta ignoto l’autore, o per i quali non si perviene ad una sentenza irrevocabile di condanna, ad esempio: il reato di furto non è a cifra nera, perché la maggior parte dei reati di furto vengono scoperti ed è un reato ad elevata cifra grigia, perché molto spesso accade che resti ignoto l’autore dello stesso.

Per quanto concerne la corruzione, succede diametralmente l’opposto: la cifra nera è molto elevata; la cifra grigia è bassa. Nel momento in cui viene scoperto, emerge il fenomeno della corruzione, di regola si riesce ad individuare anche l’autore del reato.

La corruzione assume un andamento carsico. È fenomeno per natura occulto, che occasionalmente emerge in superficie. Di solito, questo accade per breve tempo e a seguito di particolari vicende giudiziarie, com’è accaduto con Tangentopoli nei primi anni novanta. Sono fatti che in qualche maniera riescono a risvegliare l’attenzione dei mezzi di comunicazione e l’interesse della pubblica opinione. Ma perlopiù la corruzione si sviluppa in profondità e resta invisibile. Ed è percepibile solo all’interno di una ristretta cerchia di soggetti. Il fattore causale principale, essenziale di questo fenomeno, è dato dalla scarsa propensione alla denuncia. La corruzione è un contratto bilaterale illecito, caratterizzato dalla massima riservatezza di un rapporto sinallagmatico tra parti, con effetto lesivo ritardato. Come dire che gli effetti lesivi di questi reati possono essere individuati e puniti solo a notevole distanza di tempo.

Elevata cifra nera che ha connotato da sempre questo tipo di reati, insieme alla ridotta attività della polizia giudiziaria, portano a ritenere che la scoperta dei fatti di corruzione si debba principalmente all’operato della magistratura inquirente, all’attività dei pubblici ministeri.

La corruzione endemica ed il relativo ordinamento giuridico invisibile, proposto quale analisi dal Vannucci, danno la visione che non si tratti affatto di un mercato illegale caotico e disorganizzato. Le norme comportamentali, cristallizzate nel tempo, realizzano funzioni cruciali, facilitano identificazioni di partners affidabili, differenziano i ruoli nell’aggregazione di corrotti e corruttori, attenuano l’eventuale disagio psicologico dell’illegalità, emarginano e castigano onesti e dissenzienti, socializzano i nuovi entrati alla legge della corruzione. Vi è poi una norma fondamentale, dettata dalla corruzione, dell’ineluttabilità della faccenda, da lì elevandola ad unico strumento per conseguire risultati/vantaggi.

Con una chiave suggestiva di lettura del conflitto d’interessi, s’informa la corruzione invisibile, nella quale corrotto e corruttore vengono a coincidere nella stessa persona. La tangente non passa da una mano all’altra, ma diventa una partita di giro gestita dal medesimo soggetto; che ha una duplice veste: quella di amministratore pubblico e quella di portatore d’interessi privati. Chiamare il caso a risoluzione con norme penali sarebbe esagerato, ed anche per questo, ma non soltanto, qualcuno propone una ridefinizione di pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio, sulla falsariga di quanto previsto dall’articolo 2 della Costituzione ONU del 2003. questa definizione complessa ed ampia, consente di abbracciare tutte o quasi le tipologie di pubblici ufficiali. L’idea consterebbe nell’unificare gli attuali articoli 357 e 358 codice penale in un unico articolo, e dare unitaria definizione del pubblico ufficiale, senza più separare e distinguere le due categorie di pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio.

Per quanto riguarda le condotte, una proposta potrebbe essere quella d’inserire nel codice la nuova fattispecie di traffico d’influenze, già prevista in altri sistemi giuridico-penali. È il fatto di chi, vantando un ruolo di centro nell’amministrazione, si propone come intermediario per il sollecito di pratiche in cambio di denaro e favori per accelerare l’iter delle stesse, o per ottenerne un vantaggio. Si tratta di una fattispecie più complessa ed ampia rispetto alla fattispecie ex 340 codice penale (millantato credito), che, secondo parte della dottrina, non risponderebbe a tutte le esigenze repressive, e che dovrebbe essere perlomeno affiancato da questa nuova fattispecie.

Sarebbe anche necessaria l’introduzione – in questa prospettiva si muovono anche le convenzioni internazionali – di una fattispecie ad hoc  di corruzione nel settore privato. Un paradigma normativo da seguire, potrebbe essere rappresentato dalla definizione che di questo reato dà la Convenzione ONU del 2003, agli articoli  21 e 22. Il discorso, per inciso, pare allontanarci dalla corruzione in atti giudiziari, ma queste figure “in prospettiva” condurranno proprio al caso Mills succitato e non neuronalmente abbandonato. Sul versante sanzionatorio, è inutile insistere con la solita politica. Frutto di una visione distorta e simbolico-repressiva del diritto penale, “vittima” dell’aggravamento continuo delle pene detentive. Bisogna fare lo sforzo di fantasia, che studi nuovi meccanismi sanzionatori. Ad esempio: la trasformazione in sanzioni principali delle misure interdittive, quali l’interdizione temporanea o perpetua dai pubblici uffici, oggi sanzioni accessorie. Con lo svincolamento totale dai limiti di pena detentiva.

L’articolo 321 codice penale sancisce la parità di trattamento, sul piano sanzionatorio, di corrotto e corruttore. Cambiando strategia: l’introduzione di previsioni di tipo premiale, atte sostanzialmente a ridurre la pena per chi collabora con l’autorità inquirente, porterebbe ad un minore numero oscuro. Alla stessa logica s’ispirano l’articolo 72 comma 7 del D.P.R. 309 del ’90 in materia di stupefacenti, la legislazione in materia di terrorismo, quella in materia di organizzazioni criminali. Ed è la stessa logica che indusse la procura milanese, negli anni caldi di Tangentopoli, a contestare, laddove possibile, anziché il reato di corruzione, il reato di concussione, che garantiva la collaborazione processuale del concusso, che non aveva nulla da perdere e da temere.

La procura di Roma, in quegli stessi anni, contestava prevalentemente la corruzione.

Il primo indirizzo operativo fu una strategia, a volte sul piano tecnico non impeccabile, in alcuni casi certo discutibile, ma che si rilevò molto utile ai fini pratici delle indagini. Il problema posto dal caso Mills è di un salto culturale ulteriore: la compatibilità strutturale della corruzione in atti giudiziari con la figura della corruzione susseguente. O meglio: se sia configurabile, nella forma susseguente la corruzione in atti giudiziari. Il problema si è posto perché l’articolo 319 ter codice penale, prevede un dolo specifico, richiamando i fatti previsti dai precedenti articolo 318 e 319 (casi di corruzione propria o impropria). Lo scopo della norma incriminatrice è che siano puniti i fatti commessi per favorire o danneggiare una parte in un processo (civile, penale o amministrativo). Punire fatti che presentino questo dolo specifico è realizzare un’anticipazione della tutela penale. Sennonché, il caso giurisprudenziale Mills, specie secondo la dottrina, ha visto una Cassazione inadeguata all’esserci, come immaginato, una corruzione susseguente in atti giudiziari. Il legale britannico avrebbe reso testimonianze false/reticenti in alcuni processi nei quali era stato imputato il premier Berlusconi. Per effetto di questo comportamento del testimone Mills, Berlusconi pare abbia evitato di essere coinvolto in questi fatti, e per “ripagare” il favore/la prestazione nel processo, avrebbe retribuito con una tangente ex post  (susseguente, appunto).

Per questa dottrina, va specificato come punto di partenza dell’indagine giuridica, che la corruzione è una proiezione finalistica (dolo specifico), orientata a qualcuno. I fatti devono essere commessi per favorire o danneggiare una parte nel processo. Se chi eventualmente ha ottenuto un vantaggio da un comportamento processuale altrui (corretto?) “paga” una somma a titolo di “tangente”, quella condotta non dovrebbe essere punita. Non dovrebbe rientrare nella corruzione in atti giudiziari, in quanto mera liberalità.

Precedentemente, due orientamenti giurisprudenziali di Cassazione contrapposti, coesistevano, prima di questo punto giurisprudenziale a Sezioni Unite (15208 del 2010) che li ha “spazzati” arrampicandosi sugli specchi. La particolare finalità del dolo specifico, collegata alla falsa testimonianza, e non invece all’accordo/pactum sceleris (precedente) predisponente, la stessa non può convincere. Essa regge soltanto storicamente, qualora inquadrabile come controprestazione d’un patto, che per logica non può avere consistenza ex post.

Le due sentenze citate, per la loro “storicità” e l’alto profilo argomentativo e contro, sono citate nei recenti convegni sul tema, osservando che i «reati contratto», i «reati in contratto», la corruzione in generale, la concussione in particolare, e ancor più quella in atti, siedono allo stesso desco d’obbligatorie/imprescindibili interferenze reciproche.

Ringrazio l’A.I.G.A. di Brindisi per aver reso possibile, con un convegno organizzato sul tema appunto, e suggestivamente intitolato “Abuso d’ufficio, corruzione, concussione. Coeeuptissima re publica plurimæ leges”, queste osservazioni catartiche e questo studio.

Cito Monica

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