A proposito di sequestro probatorio.

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Nessuna confusione può insorgere fra la norma di cui all’art. 79 comma V dpr 309/90 e la disposizione di cui all’art. 321 c.p.p.: è questa la lapidaria – e corretta – conclusione cui perviene la Suprema Corte, con la pronunzia in commento.
D’altro canto lo stesso tenore letterale delle due previsioni legislative colloca le stesse su due piani completamente differenti e complementari tra loro.
Come, infatti, lucidamente argomentano i giudici di legittimità, l’art. 79/5° contiene una misura di natura interdittiva, mentre l’art. 321 c.p.p. è, sine dubio, forma di cautela espressamente reale.
 
1. L’ART. 79 COMMA V QUALE MISURA CAUTELARE INTERDITTIVA.
 
Sulla felice e corretta definizione, che inquadra l’istituto in questione, si può e si deve essere d’accordo, anche perchè essa conferma un orientamento giurisprudenziale che appare consolidato da tempo e che ha trovato anche recentemente significative conferme nel senso di propugnare la compatibilità della stessa con l’istituto del sequestro probatorio.
            Va, infatti, rilevato che la collocazione in differenti ed autonome categorie giuridiche delle due disposizioni in oggetto è già primo argomento che deve indurre ermeneuticamente ad evitare confusioni di sorta.
         Ciò, nonostante una non certo felice formulazione lessicale del comma V dell’art. 79, il quale in maniera giuridicamente impropria ed abnorme parla di “chiusura del pubblico esercizio”, fissando, in tal modo, la propria attenzione sul risultato della misura e non già indicando od individuando la misura in sé e per sé.
          Ad ogni buon conto, pare di potere riaffermare la condivisibilità della classificazione operata, proprio perchè, paradossalmente, l’uso del (non felice) termine “chiusura” focalizza la volontà di incidere – con la sanzione interinale – sull’attività economica che si svolge nell’immobile.
         In buona sostanza, per dirla con il *******[1], il soggetto inquisito viene colpito nella propria sfera, venendo, così, delegittimato a compiere taluni atti in sé leciti (la normale apertura e conduzione dell’esercizio), proprio perchè ove questi non fossero impediti, de jure, si verrebbe a riprodurre potenzialmente (e non solo) la situazione di illiceità che si venuta a creare.
         L’appartenenza a pieno titolo dell’istituto di cui al comma V dell’art. 79 dpr 309/90 alla categoria delle misure interdittive, si deriva anche da una duplice considerazione.
         Da un lato, la nemesi storica delle misure interdittive dimostra che l’origine delle stesse può essere fatta risalire, per discendenza diretta, dalle cd. pene accessorie.
         Dall’altro, il concetto di chiusura dell’attività, esplicato [con scelta, terminologica, che si ribadisce appare indubbiamente discutibile in punto di filologia giuridica] nell’art. 79, induce, peraltro, a ritenere che – nella specie – l’intervento dell’Autorità si concreta esclusivamente in un divieto di facere.
         Vale a dire che – come sostenuto in precedenza – l’ordine di chiudere l’esercizio economico integra una opzione del tutto differente da quella di bloccare fisicamente l’immobile (dove si attua quotidianamente l’attività), che è l’in sé del sequestro e che si vedrà infra.
         E’ proprio, dunque, la diversa prospettiva di preclusione sanzionatoria interinale, nonché la differenza di piani di intervento materiale, che rende così diverse e così complementari le due norme che si stanno considerando.
La proibizione insita nell’interdizione è, pertanto, diretta al soggetto (persona giuridica o persona fisica) che pone in essere quella professione o quella attività imprenditoriale che ha funto da sciente casus belli per la commissione del reato.
Si tratta, quindi, all’evidenza, di una misura cautelare tutt’altro che reale (intesa come diretta a creare un vincolo od un peso sulla res), essa appare, infatti, perfettamente conforme alla categoria della misure personali, caratterizzata come è dall’essere diretta e destinata, come già osservato, verso una persona.
 D’altronde, è operazione pleonastica quella di notare che appare impossibile, proprio sul piano logico e naturalistico, ordinare l’interdizione rispetto ad un bene materiale, in quanto l’interdizione si risolve nella privazione legale dell’esercizio di taluni diritti potestativi o facoltà legalmente riconosciute, situazioni di ordine soggettivo che non possono che essere coniugate solamente con una persona [come già detto fisica o giuridica] e non certo con un bene materiale.
L’inserimento sotto il profilo sistematico della misura di cui all’art. 79/5° dpr 309/90, nella categoria dei provvedimenti interdettivi, inoltre, dimostra come il legislatore abbia inteso procedere (ed ha proceduto) ad un‘evidente graduazione sul piano della pericolosità sociale e gravità di quei comportamenti che hanno a che fare con la proliferazione del fenomeno stupefacenti.
In tale contesto, dunque, la violazione dei due primi commi[2] dell’art. 79 che consiste, principalmente, nella configurazione di un reato omissivo mediante commissione [“consente che sia adibito un locale pubblico o un circolo privato di qualsiasi specie a luogo di convegno di persone che ivi si danno all’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope”] e solo residualmente in un reato di pura condotta attiva (il termine “adibisce” appare, infatti, nella sua estrema genericità, probatoriamente aggirabile, posto che non sarà mai semplice dimostrare la volontà di predisporre od organizzare un locale ai detti fini, mentre sarà meno difficile dimostrare l’omissione), per la sua natura di vera inazione, viene considerata come actio illicita minoris, rispetto ad esempio alla previsione di cui all’art. 73 T.U. stupefacenti.
Da ciò, dunque, la considerazione – salva sempre la possibilità di applicare in specifiche situazioni soggettive misure cautelari di natura coercitiva – che la previsione normativa in disamina risponda ad un criterio di proporzionalità ed adeguatezza in relazione alla specifica condotta descritta.
E’ evidente, altresì, che il testo del comma 5 dell’art. 79 non lasci dubbi o spazi in relazione alla necessità che l’ordinanza (forma naturale del provvedimento trattandosi di misura cautelare) del giudice sia munita di idonea motivazione e che quest’ultima debba involgere sia i gravi indizi di colpevolezza, che le esigenze cautelari ritenuti sussistenti.
Il relativo principio generale è stato ribadito recentemente dalla Sez. VI della Corte di Cassazione che con la sentenza 23-06-2006, n. 32626, [in Impresa, 2006, 12, 1856 nota di ****], ha affermato che per l’adozione di misure cautelari interdittive (nel caso specifico a carico di una società) condizione tipica “è la sussistenza di esigenze cautelari da indurre sia da elementi oggettivi, attinenti alle specifiche modalità e circostanze del fatto (quali gravità dell’illecito ed entità del profitto), sia da elementi soggettivi, riguardanti la personalità dell’ente (quali politica aziendale pregressa, modelli organizzativi, sostituzione degli amministratori coinvolti)”.
Posizione questa già anticipata dal Tribunale di Milano con ordinanza 27-04-2004, (Siemens AG), che sancì come “l’applicazione di misure cautelari interdittive nei confronti di un ente ai sensi del D.Lgs. 8 giugno 2001 n. 231 richiede l’accertamento non solo dell’esistenza dei presupposti tipici delle misure cautelari (gravi indizi di responsabilità e pericolo di reiterazione dell’illecito), ma altresì delle condizioni previste per l’irrogazione delle sanzioni interdittive in via definitiva”.
 
2.IL SEQUESTRO PREVENTIVO DI CUI ALL’ART. 321 C.P.P.
 
Diversa prospettiva abbraccia l’istituto del sequestro preventivo di cui all’art. 321 c.p.p. .
Il presupposto applicativo di questa misura reale è dato dalla sussistenza del pericolo che la libera disponibilità di una cosa che sia in rapporto di pertinenzialità con l’ipotizzato reato, possa creare una condizione di aggravamento o protrazione delle conseguenze del reato ritenuto o favorire la commissione di ulteriori reati.
Le condizioni che la norma codicistica prevede come legittimanti sono, dunque :
A)   la libera disponibilità del bene
B)    il collegamento eziologicamente diretto con il reato che si assume commesso
C)    la possibile reiterazione del reato che si assume commesso
D)   o il possibile aggravamento o protrazione del reato in questione.
Il sequestro preventivo si indirizza esclusivamente, pertanto, diversamente dalla misura di cui all’art. 79/5° dpr 309/90, nei confronti di qualsiasi bene materiale – a chiunque appartenente e, quindi, anche a persona estranea al reato – il cui uso, in un momento successivo alla percezione della commissione del reato, potrebbe (non è necessaria la certezza sullo specifico punto) costituire pericolo di aggravamento o di protrazione delle conseguenze del reato ovvero di agevolazione della commissione di ulteriori fatti penalmente rilevanti (Cfr. Cass. pen. Sez. V, 16-06-2006, n. 37033 (rv. 235283), S.N., CED Cassazione, 2006)
         Parimenti, si deve sottolineare che una interessante pronunzia della Sez. V, in data 9-06-2005, n. 24685 (rv. 231977), ******** [in CED Cassazione, 2005, Arch. Nuova Proc. Pen., 2006, 5, 573, Riv. Pen., 006, 7-8, 865] ha definito il concetto di pericolo di protrazione o aggravamento delle conseguenze del reato, che legittima il sequestro preventivo, dichiarando che esso non può essere individuato nel solo fatto che il bene sia uscito dalla sfera di dominio del soggetto autore del reato, qualora si trovi nella disponibilità del terzo acquirente di buona fede, che abbia adempiuto alle formalità di trasferimento.
Secondo i Supremi Giudici, infatti, il pericolo, in tale ipotesi, deve afferire alla natura stessa del bene, nel senso che occorre valutare se dalla disponibilità e libera circolazione del bene, in quello specifico contesto, siano resi più gravi e duraturi gli effetti dell’illecito penale (contra Cass. pen. Sez. II, 14-12-2005, n. 2810 (rv. 233334), P.N., in CED Cassazione, 2006, Arch. Nuova Proc. Pen., 2007, 2, 254, Arch. Giur. Circolaz., 2007, 2, 197, Riv. Pen., 2007, 1, 109).
La nozione di pericolo rilevante, ai fini dell’adozione del sequestro, deve essere intesa, comunque, in senso prettamente oggettivo, vale a dire come probabilità di danno futuro che risulti connessa all’effettiva disponibilità materiale o giuridica della cosa o al suo uso, e deve presentare il carattere della concretezza e dell’attualità [Cfr. Cass. pen. Sez. V, 16-03-2005, n. 14068 (rv. 231686), ********, CED Cassazione, 2005, Arch. Nuova Proc. Pen., 2006, 5, 574, Riv. Pen., 2006, 6, 758].
Si tratta di posizione che trova suo naturale incipit nella considerazione che, vertendo in ambito di misure cautelari, ancorché reali, non operi alcuna forma di deroga ai generali criteri regolatori che usualmente vengono applicativi in relazione alle misure di natura personale (coercitive od interdittive a seconda dei casi)[3].
Per quanto concerne il concetto di concretezza, si impone, dunque, un accertamento che operi su basi tangibili, [sulla scorta di elementi di fatto che vengono individuati in modo certo], in ordine all’effettiva ed elevata probabilità, [e non già alla generica eventualità], che la res di cui si intende vincolare e limitare la disponibilità, posta in comparazione con tutte le circostanze del fatto (natura della cosa, connessione di essa con il reato, destinazione alla commissione dell’illecito ecc.), acquisisca una configurazione strumentale rispetto alla protrazione o all’aggravamento delle conseguenze del reato.
Per quanto, invece, riguarda la nozione di attualità l’accertamento in ordine al metus paventato deve, quindi, operare in riferimento al momento dell’adozione della misura reale e non già in una prospettiva teorica e astratta, pena la sua inammissibilità.
Si tratta di peculiarità significative e proprie del sequestro previsto dall’art. 321 co. 1° c.p.p., posto che in ipotesi di sequestro preventivo funzionale alla confisca – anche con riferimento all’ipotesi di responsabilità degli enti collettivi per illeciti dipendenti di reato – (art. 321/2° c.p.p.) dottrina e giurisprudenza[4] appaiono unanimemente orientate nel senso di escludere la prova della sussistenza degli indizi di colpevolezza, e la loro gravità, sul presupposto che il controllo del giudice non deve necessariamente investire la concreta fondatezza dell’accusa, ma solo involgere l’astratta possibilità di sussumere il fatto attribuito ad un soggetto in una determina ipotesi di reato.
Tanto meno si ritiene che occorra una valutazione circa la sussistenza del "periculum" richiesto per il sequestro preventivo di cui all’ipotesi che stiamo valutando, essendo invece sufficiente accertare il presupposto della confiscabilità dei beni ed in particolare l’esistenza di un rapporto pertinenziale fra il bene che si intende sequestrare ed il reato per cui si procede.
Sulla corretta identificazione della tipologia del bene che appaia suscettibile di essere soggetto al sequestro preventivo la migliore giurisprudenza ha intuito la necessità di non circoscrivere il raggio di azione dell’istituto ai soli beni che sia collegati in maniera diretta al reato (Cfr. la presa di posizione Cass. pen. Sez. V, 06-06-2006, n. 22353 (rv. 234556), C.D., CED Cassazione, 2006).
 Ne è conseguito l’orientamento che intende, quindi, coinvolgere nel concetto pertinenza non solo quelle cose caratterizzate da un’intrinseca, specifica e strutturale strumentalità rispetto al reato commesso ed a quelli futuri di cui si paventa la commissione, ma anche quelle che risultino indirettamente legate al reato per cui si procede, sempre che la libera disponibilità di esse possa dare luogo al pericolo di aggravamento o di protrazione delle conseguenze del reato.
Tratteggiato, seppur in via di sommarietà, ma nei suoi caratteri peculiari e salienti, l’istituto del sequestro preventivo, si deve, quindi, porre l’accento sul connotato della sua incidenza rispetto ad un bene (la res) di natura puramente materiale.
La natura di vincolo giuridico, ma anche, contemporaneamente, fattuale (nel senso che fisicamente il bene non è affatto accessibile o fruibile in alcun modo senza l’autorizzazione del giudice) che crea, pertanto, una situazione di piena e totale indisponibilità del bene soggetto passivo del provvedimento, con ampia preclusione per chiunque all’utilizzo (anche lecito, ove fosse possibile) è l’elemento che caratterizza la misura in questione e la rende del tutto differente da quella prevista dall’art. 79 comma 5 dpr 309/90.
La previsione dell’art. 321 co. 1 c.p.p. è, quindi, non solo giuridicamente, ma anche ontologicamente, naturalisticamente e finalisticamente divergente e diversa dalla norma speciale.
 
3. CONCLUSIONI.
 
Attese le premesse svolte, scontate, al limite dell’ovvietà, appaiono le conclusioni cui si previene.
Esse sono perfettamente in linea con quelle trasfuse nella sentenza commentata e confermano un trend giuridico che, quale manifestazione di costante insegnamento, risulta consolidato e per nulla suscettibile di nuovi approdi.
Conferma del fatto che l’intervento del S.C. vada catalogato come espressione confermativa, si rinviene agevolmente in varie pronunzie di legittimità.
Per prima si richiama una decisione di oltre dieci anni fa resa dalla Sez. V, in data 5-11-1996, [n. 4775, ****,Giust. Pen., 1997, III, 638, Cass. Pen., 1998, 662], che affermò che “nell’ipotesi di reato prevista dall’art. 79 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 (agevolazione dell’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope) è legittimo il sequestro preventivo dei locali ove si svolge l’attività criminosa. E ciò in quanto sussista una correlazione indefettibile tra l’immobile e la commissione del reato. L’immobile non è dunque solo il luogo ove tale attività si compie – e che sarebbe realizzabile altrove -, ma è un "quid" inscindibile dall’illecito, ossia un mezzo indispensabile per l’attuazione e la protrazione della condotta illecita”.
 Pur precisando le condizioni alle quali la compatibilità dei due istituti, ritenuti abbraccianti campi di applicazione ed operatività distinte, la S.C. appare lapidaria sul punto.
 In epoca più recente la. Sez. IV, con la sentenza del 21-06-2006, n. 37993 (rv. 235087), [ in CED Cassazione, 2006], che annullò con rinvio, una decisione del Tribunale della libertà di Prato, emessa il 30 dicembre 2005 ha ribadito il concetto, sancendo che “Nell’ipotesi di reato prevista dall’art. 79 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 (agevolazione dell’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope) è legittimo il sequestro preventivo dei locali ove si svolge l’attività criminosa a condizione che emerga dalla motivazione del provvedimento cautelare il presupposto relativo all’utilizzazione non episodica o occasionale dei locali medesimi, bensì abituale e protratta nel tempo”.
In quest’ultimo caso si è evidenziato come rilevante, ai fini della configurabilità delle condizioni legittimanti l’adozione della misura, il carattere di continuità temporale ed abitualità dell’utilizzo della struttura.
Il distinguo operato, comunque, non toglie nulla – semmai rafforza – alla linea di pensiero che ammette la compatibilità fra le due misure di cu si è dibattuto ed alle quale va formulata una convinta adesione.
 
 
Rimini, lì 24 Giugno 2007
 
 
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Spaccio di sostanze stupefacenti, bar, misure cautelari, sequestro preventivo
Cassazione penale , sez. IV, sentenza 24.05.2007 n° 20204
 
 
 
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
 
SEZIONE IV PENALE
 
Sentenza 24 maggio 2007, n. 20204
 
(Presidente **** – Relatore *********)
 
Fatto e diritto
 
Nell’ambito di un procedimento penale a carico D. D. ed altri, durante la fase delle indagini, il pubblico ministero aveva chiesto ed ottenuto il sequestro preventivo del locale pubblico (il bar X. di Y.) nel quale era svolta l’attività criminosa descritta dall’articolo 79 del dpr n. 309.
 
Il tribunale del riesame, adito dalla difesa, ha revocato in data 5.5.2006 il provvedimento di sequestro sostenendo, a quanto è dato capire (la motivazione, oltre ad essere manoscritta, è anche estremamente sintetica) l’impraticabilità del ricorso alla misura del sequestro preventivo sulla base di un duplice ordine di considerazioni.
 
La prima è basata sul rilievo che l’articolo 79 del dpr n. 309/90 nel prevedere, al comma 5, una misura cautelare tipica (la chiusura temporanea del locale), finalizzata alla chiusura del locale per la durata massima di cinque anni (comma 4), adottabile con la condanna, impedirebbe il ricorso al sequestro preventivo.
 
La seconda, a quanto è dato capire, è basata sull’ulteriore rilievo che non sarebbe comunque consentito il ricorso al sequestro preventivo proprio perché la già rilevata prevista chiusura del locale, non consentirebbe la possibilità di procedere alla confisca del locale.
 
Avverso il citato provvedimento ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trento deducendo l’erronea interpretazione delle norme di legge, con riferimento agli artt. 73, 74, 79 DPR 309/90 e 321 c.p.p e contraddittorietà della motivazione. Sostiene il ricorrente l’insussistenza di alcun dato normativo che precluda il sequestro preventivo e la confisca del locale pubblico che venga impiegato per l’attività di vendita a terzi di sostanza stupefacente ex art. 79 DPR 309/90. L’introduzione dello strumento cautelare previsto dai commi 4 e 5 del citato art. 79, come più volte affermato in giurisprudenza, è una previsione che si aggiunge alle possibilità previste dall’art. 321 c.p.p. ma non varrebbe certamente ad escluderle.
 
Il ricorso è fondato.
 
Nella vicenda processuale de qua, all’indagato era stato evidentemente contestato il reato di cui all’articolo 79, comma 1, del dpr 9 ottobre 1990 n. 309.
 
Trattasi, come è noto, di quella fattispecie criminosa che, tra le altre, punisce la condotta di colui che adibisce o consente che sia adibito, cioè destinato ed adattato all’uso, un locale pubblico o un circolo privato di qualsiasi specie a luogo di convegno di persone che ivi si diano all’uso di dette sostanze.
 
La ricostruzione del giudicante sopra esposta è erronea e merita di essere accolto il ricorso del pubblico ministero.
 
A tal fine è utile una puntualizzazione della disciplina di riferimento, per apprezzare se e sulla base di quali norme possa in ipotesi procedersi alla "chiusura del locale" nel caso di contestazione della fattispecie incriminatrice di cui all’articolo 79, comma 1, del dpr n. 309190.
 
In primo luogo, qualora il luogo del convegno illecito sia un pubblico esercizio, è previsto che alla condanna consegua la pena accessoria della chiusura dell’esercizio per un periodo da due a cinque anni (articolo 79, comma 4).
 
In secondo luogo, sempre nei confronti dei pubblici esercizi, per assicurare immediata efficacia alla risposta sanzionatoria, è previsto che la chiusura possa essere disposta dall’autorità giudiziaria anche nel corso del procedimento (articolo 79, comma 5).
 
Trattasi, secondo la migliore opinione anche dottrinaria, di una speciale misura cautelare interdittiva, diretta ad impedire all’imputato lo svolgimento di quell’attività economica il cui abuso ha reso possibile, agevolato o comunque occasionato la realizzazione della fattispecie criminosa di cui all’articolo 79 (cfr. Cassazione, Sezione VI, 14 dicembre 2000, ********).
 
Va osservato per inciden, che proprio tale qualificazione giuridica consente di ritenere che per la concreta disciplina della misura de qua, trova applicazione quella contenuta nell’articolo 287 e segg. c.p.p., laddove sono dettagliate in via generale le condizioni di applicabilítà delle misure interdittive.
 
In terzo luogo, la chiusura del pubblico esercizio può comunque essere disposta in via cautelare anche amministrativamente, per un periodo non superiore ad un anno, dal prefetto territorialmente competente o dal Ministro della salute (articolo 79, comma 6): trattasi, in questo caso, di una sorta di misura di prevenzione amministrativa.
 
Quanto esposto, però, non esclude affatto che possa procedersi, secondo le regole generali, al sequestro preventivo del locale ove si svolga l’attività criminosa di cui all’articolo 79 e ciò in quanto sussista una correlazione indefettibile tra l’immobile e la commissione del reato: in tal caso, infatti, l’immobile non è dunque solo il luogo ove tale attività si compie e che sarebbe realizzabile altrove , ma è un quid inscindibile dall’illecito, ossia un mezzo indispensabile per l’attuazione e la protrazione della condotta illecita (cfr. Cassazione, Sezione V, 5 novembre 2006, ****).
 
In tale evenienza, per l’adozione del sequestro preventivo non rileva tanto la previsione di cui al comma 2 dell’articolo 321 c.p.p. (che correla la misura cautelare alla successiva confisca) (come erroneamente ritenuto dal giudicante), quanto la previsione ordinaria di cui al comma 1 dell’articolo 321 c.p.p., onde la misura cautelare è finalizzata ad impedire l’aggravamento delle conseguenze del reato ovvero, con specifico riguardo all’ipotesi criminosa de qua, ad impedire la protrazione dell’attività illecita, attraverso il sequestro preventivo del locale ove è tollerato l’uso delle sostanze stupefacenti.
 
È quindi evidente l’errore in cui incorso il giudicante quanto, apoditticamente, ha ritenuto che la disciplina speciale contenuta nell’articolo 79, afferente i provvedimenti adottabili a vario titolo per la chiusura del locale, impedisse concettualmente il ricorso alle norme generali in materia di sequestro preventivo.
 
Il provvedimento va annullato con rinvio, dovendo il tribunale del riesame rivalutare il ricorso nel rispetto dei suesposti principi.
 
P.Q.M.
 
La Corte Suprema di Cassazione annulla il provvedimento impugnato con rinvio al Tribunale di Trento


[1]    Procedura Penale Giuffrè, Milano, 2003, pg. 510
[2] La disposizione in materia recita testualmente ai commi 1 e 2 “Chiunque adibisce o consente che sia adibito un locale pubblico o un circolo privato di qualsiasi specie a luogo di convegno di persone che ivi si danno all’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope e’ punito, per questo solo fatto, con la reclusione da tre a dieci anni e con la multa da euro 3.000 ad euro 10.000 se l’uso riguarda le sostanze e i medicinali compresi nelle tabelle I e II, sezione A, previste dall’articolo 14, o con la reclusione da uno a quattro anni e con la multa da euro 3.000 ad euro 26.000 se l’uso riguarda i medicinali compresi nella tabella II, sezione B, prevista dallo stesso articolo 14.
Chiunque, avendo la disponibilità di un immobile, di un ambiente o di un veicolo a ciò idoneo, lo adibisce o consente che altri lo adibisca a luogo di convegno abituale di persone che ivi si diano all’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope è punito con le stesse pene previste nel comma 1”, viene
 
[3] V. Cass. pen. Sez. I, 10-12-2003, n. 1827, ***** e altri, Guida al Diritto, 2004, 13, 79
[4] Cfr. Ex plurimis Cass. pen. Sez. II, 16-02-2006, n. 9829 , Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Enna, ****. It., 2006, 11, 2139 nota di ***********

Zaina Carlo Alberto

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