A proposito di legittima difesa

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L’ontologica e giuridica differenza che intercorre tra la prova della sussistenza di una situazione di difesa legittima, in sede penale, e la dimostrazione della medesima situazione in ambito civile viene valorizzata dalla pronunzia in esame.
La Corte di Cassazione, infatti, con una ricostruzione assolutamente coerente e pregevole, in punto di diritto, muove dall’analisi dell’istituto regolato dall’art. 52 c.p. per trarre il corretto indirizzo applicativo dello stesso in sede civile, attraverso il richiamo all’art. 2044 c.c. .
E’ indubbio che le due norme vengano, dunque a svolgere la medesima funzione scriminante, pur nel campo delle rispettive competenze funzionali.
L’art. 2044 c.c., poi, costituisce una vera e propria novità legislativa, posto che le precedenti codificazioni – il codice civile del 1865 ed il code ******** – non avevano un’analoga previsione[1].
In dottrina si segnala MONATERI[2], il quale afferma che l’art. 2044 c.c., sotto il profilo strettamente civilistico, riconosce ed instaura un vero e proprio diritto di respingere l’attacco altrui, che si traduce in una indiscussa tolleranza dell’ordinamento all’atto dannoso diretto a respingere l’aggressione ingiusta.
Vale a dire il medesimo caridne della previsione dell’art. 52 c.p. .
La ratio di tale previsione appare evidente, necessitata e naturale, posto che la reazione difensiva avverso l’aggressore ingiusta (fattore quest’ultimo scatenante la scansione temporale dei concatenati eventi) può, talora, comportare conseguenze che pur apparendo armoniche rispetto al dato strettamente penalistico, di fatto, lo travalicano e si possono sostanziare, eventualmente, in ipotesi di danno di portata patrimoniale ed extrapatrimoniale.
La norma, però, esclude in radice che il danno cagionato in presenza della causa di giustificazione, possa essere ingiusto, poiché la lesione prodotta in capo alla posizione giuridica dell’aggressore, ancorché in teoria contra ius, è, in realtà, in iure, posto che, intervenendo la causa di non punibilità (per la stretta conformazione della condotta allo stereotipo normativo) viene a mancare cioè uno degli elementi dell’iniuria[3].
Il testo dell’art. 2044 c.c. (“Non è responsabile chi cagiona il danno per legittima difesa di sé o di altri”) introduce, pertanto, in intima e speculare correlazione con la previsione penalistica, una causa di esclusione di responsabilità civile, per il caso di commissione di un fatto, il quale se non fosse scriminato, potrebbe indubbiamente rivestire il carattere di fonte di risarcimento extracontrattuale.
La ragione della assenza di antigiuridicità e di irresponsabilità sul piano civile da parte dell’agente, si rinviene nella circostanza che la condotta, con la quale il soggetto si oppone all’aggressione (quest’ultima non tutelata dall’ordinamento e, per tale motivo, definita ingiusta), è ritenuta – a precise e determinate condizioni – dall’ordinamento meritevole di tutela, quindi, lecita.
In proposito, va ricordata la pronuncia del Tribunale di Firenze, del 27 giugno 19901, con la quale si precisa che nell’ipotesi di legittima difesa “l’evento è voluto dal soggetto e la sussistenza della causa di giustificazione incide ex post su di esso eliminando dal fatto l’antigiuridicità”.
Viene, in questo modo, esclusa qualsiasi forma di contrarietà alla norma giuridica, altrimenti sussistente, e, parimenti, viene meno la fonte dell’obbligazione, che sarebbe extracontrattuale, cioè quella da fatto illecito o aquiliana[4].
Sempre a conferma dell’assunto che vuole la previsione normativa penale sul punto, come elemento di assoluto e pieno riferimento anche per la elaborazione civilistica dell’istituto, si cita la Sez. III, civ. 24 Febbraio 2000, n.2091. Min. int. ********** e altri[5], che ha affermato come “L’art. 2044 rinvia sostanzialmente, per la nozione di legittima difesa quale situazione idonea ad escludere la responsabilità civile per fatto illecito, all’art. 52 c.p., che richiede, a tal fine, la sussistenza, nella fattispecie, della necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta (sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa).”
Nella fattispecie è stata esclusa la configurabilità della legittima difesa (così come dello stato di necessità) in relazione al fatto dell’agente di polizia che, sopraggiunto immediatamente dopo la commissione di una rapina in una farmacia, mentre il rapinatore si stava allontanando, per sottrarsi alla cattura, impugnando una pistola a scopo difensivo, abbia esploso all’indirizzo dello stesso, che si proteggeva con il corpo del farmacista, un colpo di arma da fuoco il quale abbia attinto anche un cliente.
Si è, infatti, così, ravvisato un eccesso colposo nell’uso legittimo di armi.
Il principio della irresponsabilità, dell’aggredito, il quale si difenda secondo i dettami canonizzati della legittima difesa, anche sul piano civile, si estende al caso in cui il fatto, che determina la reazione, provenga da un soggetto non imputabile. 
Va detto che, alla luce delle osservazioni che precedono, non pare, poi, per nulla casuale l’inserimento della disposizione regolatrice la legittima difesa nel sistema delineato dal legislatore in tema di responsabilità civile, il quale trova come norma fondamentale e di riferimento assoluto, l’art. 2043 c.c. .
 La reazione difensiva, infatti, ancorchè tutelata dall’ordinamento – per le ragioni dianzi esposte – provoca, naturalmente, un danno obbiettivamente ingiusto, il quale, in assenza delle circostanze costituenti la legittima difesa, sarebbe senza sorta di dubbio alcuno – come già puntualizzato – fonte di responsabilità ai sensi del citato art. 2043 c.c. .
Per completezza è opportuno, inoltre osservare che l’effettivo ambito applicativo della norma portata dall’art. 2044 c.c., non può essere affatto circoscritto alla persona, pena una grave discrasia rispetto alla norma penale, di cui all’art. 52 c.p., che – come già ribadito – appare sicuro riferimento in materia, anche sul piano eminentemente civilistico.
In questo contesto, l’ambito di operatività dell’art. 2044 c.c. appare, ad esempio, ben più ampio ed esteso rispetto al dettato della norma di cui all’art. 2045 c.c., la quale regola lo stato di necessità.
Quest’ultimo acquisisce valenza soltanto in relazione al danno arrecato in difesa di un diritto relativo alla persona[6].
Deriva, pertanto, l’ovvia considerazione che anche nell’ambito della disciplina civilistica si possa affermare che, silente la legge, l’azione reattiva rientri nel novero della legittimità, se si riferisca alla difesa di una posizione giuridica soggettiva tutelata, qualunque sia l’oggetto del diritto.
Anche ai fini prettamente risarcitori e civilistici, si deve concludere che la reazione possa essere ritenuta legittima anche quando il diritto minacciato abbia natura patrimoniale, o comunque non sia strettamente inerente alla persona umana, allo stesso modo in cui si ritiene operi la correlativa tutela penalistica.
Proprio dai principi identificativi la legittima difesa sul piano penale – come peraltro già detto – quale ad esempio la sussistenza di una minaccia ingiusta ed attuale ad un diritto, si è ricavato il convincimento del fatto che sia legittimo difendersi, in relazione a tutti i diritti indistintamente, nessuno escluso.
Consequenziale, quindi, è, stata la configurazione della scriminante anche relativamente alla materia concorrenziale mantenendo fermo il limite, anche in questo caso, della proporzione tra la difesa e l’offesa arrecata, così come affermato dal Tribunale di Milano, sia con la sentenza 26 settembre 1977[7], sia con quella 26 gennaio 1989, n. 606[8].
Va, poi, detto che il concetto di legittima difesa ha avuto, in sede civile, una forma di applicazione caratterizzata da profili di progressiva e maggiore ampiezza rispetto al dato puramente penalistico.
Esso si è venuto, infatti, a correlare con situazioni patentemente disancorate da dinamiche penalmente rilevanti, pur rimanendo, però, sempre nel rigoroso rispetto dei requisiti penalisticamente elaborati.
Per meglio comprendere la portata estensiva del principio, va ricordata la sentenza della Pretura di Catania, del 23 Marzo 1983, Soc. Imap C. Cornelli[9], che evidenziò il profilo della necessarietà ed inevitabilità della condotta difesa attuata[10].
Particolarmente significativa in relazione a quanto si va sostenendo è, poi, la decisione del Tribunale di Torino, del 21 Marzo 1983, Soc. Sorin Biomedica C. Shiley Sales corp[11], che, in materia di pubblicità, ha ritenuto pertinente il richiamo e l’applicazione del combinato disposto dagli artt. 2044 c.c. e 52 c.p. (quest’ultima norma di puro riferimento), precisando che “La pubblicità contenente apprezzamenti sfavorevoli sui prodotti dei concorrenti è lecita in due ipotesi e precisamente a) quando l’apprezzamento sfavorevole idoneo a screditare il prodotto concorrente è il mezzo per reagire all’attacco altrui, quindi è scriminato dalla legittima difesa ai sensi art. 2044 c. c.; b) quando l’apprezzamento sfavorevole circa il prodotto concorrente direttamente o indirettamente indicato è il mezzo necessario per mettere in evidenza l’effettiva superiorità tecnica del proprio prodotto, quindi è scriminato dall’esercizio di un diritto che la le sue radici nella libertà di iniziativa economica garantita dal 1° comma art. 41 cost”.
Va ricordata, inoltre, la decisione della Pretura di Taranto 2 luglio 1982, (********* – c. Italgel e *********)[12] , che ha escluso che sia antigiuridica, perchè compiuta per legittima difesa, a norma dell’art. 2044 c.c., la condotta dell’imprenditore che reagisca per conservare la propria clientela alla condotta di chi ha tentato di sottrargliela.
Tesi quest’ultima, che ha trovato riscontri tranquillizzanti nella pronuncia della Suprema Corte, 26 novembre 1976, n. 4887.
Nello specifico senso che lo sviamento della clientela configuri un danno irreparabile, donde la legittimità del provvedimento l’urgenza, ex art. 700 c.p.c., si segnalano, inoltre, le pronunzie della Pretura di Firenze 2 maggio 1979[13], della Pretura di Roma 9 marzo 1973[14], e della Pretura di Milano 18 giugno 1977[15].
La gamma delle situazioni rispetto alla quali il concetto in disamina trova appropriata applicazione, superando l’angusto e stereotipato limite dato dalla sua originaria estrazione penalistica è dimostrata, inoltre, dalla pronuncia del Giudice Conciliatore di Bologna, che, in data 9 ottobre 1991 (******** – c. Nuova Center Car Srl)[16] ha affermato che “Il fatto di chi parcheggia la propria vettura in uno spazio privato adeguatamente segnalato come interdetto alla sosta, può senza dubbio qualificarsi come una molestia al pacifico godimento della strada privata da parte dell’ente proprietario e possessore. Ne consegue che la rimozione dell’auto parcheggiata contro le disposizioni date e rese adeguatamente conoscibili integra il lecito esercizio dell’autotutela possessoria, che trova il suo fondamento normativo nell’art. 2044 c.c. che esclude l’antigiuridicità della reazione ad un’azione obiettivamente ingiusta.
La pronunzia che precede è, pertanto, sintomatica della centralità che l’art. 2044 c.c. ha finito per rivestire, quale patente espressione di una manifestazione di lecita autodifesa, rilevante anche sotto il profilo civilistico[17] .    
Profilo che appare – come detto – abbracciare tematiche ed occasioni fattuali formalmente e sostanzialmente differenti da quelle che usualmente vengono ad essere argomento principale dell’esimente in questione.
Ciò pacificamente premesso sul piano dell’esegesi ricognitiva dell’istituto in parola, va detto che nella fattispecie in questione emerge un profilo processuale particolarmente interessante.
Si appalesa, infatti, l’evidente differenza in ordine al metro valutativo che distingue, a livello probatorio, la legittima difesa, intesa come causa di giustificazione penalmente rilevante, da quella civilisticamente considerata.
Afferma, infatti, il Supremo Collegio che pur dovendosi ravvisare quella sostanziale identità concettuale che sino a questo punto si è qui rinvenuta tra l’art. 52 c.p. e l’art. 2044 c.c., non si può, peraltro, prescindere dal confronto “con le diverse regole che presiedono la formazione della prova nel processo civile e penale, oltre che con il favor rei che governa in materia penale; con la conseguenza che – mentre nel giudizio penale la semipiena probatio in ordine alla sussistenza della scriminante comporta l’assoluzione dell’imputato ex art. 530 comma 3 c.p.p. – nel giudizio civile il dubbio si risolve in danno del soggetto su cui incombe il relativo onere della prova, id est del soggetto che la invoca”.
Intuita e naturale è, pertanto, la ulteriore conseguenza che si ricava da tale argomento.
Sul piano della valutazione civilisticamente orientata, in ipotesi di insufficienza della prova, in ordine alla individuazione e distinzione fra chi appaia l’aggressore e chi risulti l’aggredito, non si potrà innovare l’operatività della scriminante.
E’ ovvio, dunque, che non si possa parlare, quindi, di legittima difesa in caso di rissa, neppure in sede di giudizio civile.
La ragione è semplice ed agevole da comprendersi.
La rissa si concreta quando entrambe le parti agiscono in contemporanea e con pari volontà di offesa (Cfr. Cassazione, Sez. III, civ. 6 Maggio 2003, n.6863, ******************)[18].
Si potrà anche presumere che ciascuno dei corrissanti abbia potuto agire sull’erroneo presupposto psicologico di versare in uno stato di doverosa difesa e tutela della propria persona, ma appare chiaro che la reciprocità delle condotte materiali e la ipotetica reciprocità dei convincimenti – dianzi espressi – non pare affatto sufficiente a legittimare il richiamo all’esimente in oggetto (anzi tale situazione si pone in contrasto con una siffatta posizione).
L’indimostrabilità dei presupposti di fatto che possano rendere la legittima difesa effettivamente invocabile da uno dei protagonisti dell’evento (attraverso la ricostruzione della sequenza temporale dei comportamenti), confina, dunque, il giudice nel limbo del dubbio e gli impedisce di applicare lo specifico istituto.
Assimilabile, poi, a queste considerazioni è pure l’orientamento, in base al quale anche in sede civile si è dato, inoltre, corso alla distinzione fra la legittima difesa e la provocazione.
Il tratto saliente che distingue le due situazioni consiste nel fatto che il danno cagionato dalla reazione del soggetto vittima della provocazione non rientra nei canoni della come legittima difesa.
L’azione reattiva, infatti, non è finalizzata alla tutela della persona o del patrimonio, ma è dovuta ad un impulso collerico ed emotivo , anche se cagionato da un fatto ingiusto altrui.
Sul punto paiono concordi sia FRANZONI[19], che *********-******[20], che COMPORTI[21].
Per MONATERI, invece, ove la provocazione si ponga oltre una certa intensità, le relative conseguenze dovrebbero ricadere, seppur parzialmente, su chi ha dato corso alla provocazione stessa.
Costruzione che porta ad ulteriori conclusioni nel senso di escludere l’elemento soggettivo dell’illecito in capo al provocato, nell’ipotesi in cui la provocazione appaia talmente intensa da determinare una reazione quasi automatica, di modo che la stessa non possa ritenersi voluta.
 
 
 
*******************
 
 
 
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
 
SEZIONE III CIVILE
 
Sentenza 25 febbraio 2009, n. 4492
 
(******************* – est. ********)
 
MOTIVI DELLA DECISIONE
 
2. Con l’unico motivo di impugnazione si deduce violazione o falsa applicazione dell’art. 52 c.p., nonché degli artt. 2043 e 2044 c.c., per non essere ammessa nel nostro ordinamento la legittima difesa reciproca. Il ricorrente richiama, a tal riguardo, principi consolidati nella giurisprudenza in materia penale di questa Suprema Corte, rilevando come l’esimente in parola debba escludersi quando lo scontro tra due soggetti possa essere inserito nel quadro complessivo di sfida, essendo ciascuno dei soggetti in tal caso animato da volontà aggressiva nei confronti dell’altro e ponendosi entrambi consapevolmente in una posizione di pericolo e illecita. Ne conseguirebbe che la Corte di appello di Trieste – dopo avere verificato che gli elementi probatori non consentivano di stabilire la responsabilità originaria della zuffa, oltre che la concreta successiva dinamica dei fatti non avrebbe potuto ritenere reciprocamente scriminate le colpe delle parti, presumendo che avessero agito entrambe per legittima difesa, ma avrebbe dovuto accertare la responsabilità in ordine alle lesioni, che ciascuna parte aveva pacificamente causato all’altra nel corso della colluttazione e condannare ognuna di esse al risarcimento dei danni in favore della controparte sulla base delle risultanze della consulenza tecnica.
 
3.1. Il motivo è fondato nei termini che seguono.
 
In punto di fatto si osserva che – come emerge dal testo della sentenza impugnata – non è controverso che vi sia stato tra il X. e lo Y. uno scontro fisico, in conseguenza del quale entrambe le parti hanno subito lesioni personali; ciò che è controverso (e che l’istruttoria non è riuscito a chiarire, secondo la valutazione espressa da entrambi i giudici del merito) è quale delle parti abbia assunto l’iniziativa della colluttazione, posto che ognuna dì esse assume dì avere reagito all’aggressione altrui, accampando la scriminante della legittima difesa.
 
3.2. In punto di diritto si rileva che l’art. 2044 c.c. rinvia sostanzialmente, per la nozione di legittima difesa, quale situazione idonea ad escludere la responsabilità civile per fatto illecito, all’art. 52 c.p. che richiede, a tal fine, la sussistenza, nella fattispecie, della necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, semprechè vi sia proporzionalità tra la difesa e l’offesa (requisito, quest’ultimo, da valutarsi ex ante, verificando, cioè, se, nelle circostanza della vicenda, la reazione dell’offeso fosse l’unica possibile, non sostituibile con altra meno dannosa e ugualmente idonea alla tutela del diritto).
 
Merita puntualizzare che colui il quale agisce in stato di legittima difesa, «vuole» l’evento (in altri termini, «ha il dolo» dell’evento), quale conseguenza della propria azione diretta a difendere un diritto, posto in attuale pericolo da una offesa ingiusta altrui. La legittima difesa, infatti, non inerisce alla struttura della fattispecie e alla colpevolezza, ma postula viceversa l’esistenza di un reato perfetto negli elementi costitutivi, oggettivi e soggettivi (cfr. Cass. pen. sez. V, ord. 18-10-1999, n. 4945) e, sul piano civilistico, l’esistenza di un fatto (doloso), rilevante ai fini del risarcimento ex art. 2043 c.c.. Essa opera, quindi, come scriminante ex post e ab externo, dal momento che il suo riconoscimento esclude sia la reazione punitiva dello Stato (dovendo l’imputato essere prosciolto ex art. 530 c.p.p. con la formula «perché il reato è stato commesso da persona non punibile»), sia, nell’ambito dei rapporti tra le parti, il riconoscimento della pretesa risarcitoria per i danni subiti dall’aggressore (dovendo il soggetto, che ha agito in tale stato, essere ritenuto «non responsabile» ai sensi dell’art. 2044 ce).
 
Occorre aggiungere che l’identità concettuale che si è fin qui rinvenuta tra l’art. 52 c.p. e l’art. 2044 c.c. deve, comunque, confrontarsi con le diverse regole che presiedono la formazione della prova nel processo civile e penale, oltre che con il favor rei che governa in materia penale; con la conseguenza che – mentre nel giudizio penale la semipiena probatio in ordine alla sussistenza della scriminante comporta l’assoluzione dell’imputato ex art. 530 comma 3 c.p.p. – nel giudizio civile il dubbio si risolve in danno del soggetto su cui incombe il relativo onere della prova, id est del soggetto che la invoca.
 
3.3. Ciò posto e chiudendo le fila del discorso, si osserva che, nel caso all’esame, i giudici di appello – dichiaratamente recependo la valutazione dei fatti operata in prime cure, secondo cui doveva ritenersi sussistente «reciproca responsabilità e danneggiamento fisico» dei predetti X. e Y., che «non si sono risparmiati notevoli e reciproche lesioni» (cfr. pag. 1-2-3 della sentenza impugnata) – hanno dato per certa sia la volontarietà della condotta di ognuna delle parti, sia l’efficienza causale di tale condotta nella produzione delle lesioni subite dalla controparte, ritenendo, però, che nell’incertezza circa la dinamica dei fatti, dovesse ritenersi «quantomeno in via presuntiva» che ognuna avesse agito in stato di legittima difesa.
 
Senonchè il fatto che vi siano state lesioni volontarie reciproche non implica necessariamente che una delle parti abbia agito in stato di legittima difesa; tantomeno può presumersi nella rissa una legittima difesa reciproca, considerato che i corrissanti sono ordinariamente animati dall’intento reciproco di offendersi e accettano la situazione di perìcolo nella quale volontariamente si pongono, con la conseguenza che la loro difesa non può dirsi necessitata (così: Cass. pen. sez. V, 16 novembre 2006, n. 7635, la quale ha precisato, che il principio affermato può essere derogato solo in situazioni eccezionali e cioè solo ove, in costanza di tutti gli altri requisiti voluti dalla legge, vi sia una reazione assolutamente imprevedibile e sproporzionata e, pertanto, un’offesa che, in quanto diversa e più grave dì quella accettata, si presenti del tutto nuova, autonoma ed in tal senso ingiusta).
 
E poiché – per quanto sopra evidenziato – la scriminante della legittima difesa costituisce elemento negativo di un fatto illecito in sé perfetto ex art. 2043 c.c., il dubbio sull’esistenza dei relativi presupposti a favore dell’una o dell’altra parte si risolve in mancanza (assoluta) dì prova sull’esistenza degli elementi costitutivi della stessa scriminante.
 
In definitiva l’impugnata sentenza va cassata con rinvio alla Corte di appello di Trieste in diversa composizione perché si uniformi ai suesposti principi.
 
 
P.Q.M.
 
 
La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata in relazione all’unico motivo accolto e rinvia anche per le spese del giudizio di cassazione alla Corte di appello di Trieste in diversa composizione.
 
 


[1]    Cfr. ************** legittima difesa, ********, 2007
[2]    La responsabilità civile, in Tratt. dir. civ., diretto da Sacco, Torino, 1998, 228
[3]    Franzoni, Dei fatti illeciti, in Comm. ********-******, sub artt. 2043-2059, Bologna-Roma, 1993, 289
[4]    Cfr. *****, idem cap. 5
[5]             Mass. Giur. It., 2000, Danno e Resp., 2000
[6]   Sul punto cfr. *****, cit.
[7]    in Giust. comm., 1978, p. 397
[8]    in C.E.D., Cass. pen. n. 891334..
[9]    in Giur. ********., 1983, 541
[10]           E’ stato sancito nell’occasione come “Un comportamento che di per sé integra gli estremi di un atto di concorrenza sleale può ritenersi consentito qualora sia reso necessario al fine di difendersi da un comportamento parimenti scorretto realizzato da un concorrente, applicandosi anche a questo particolare illecito extracontrattuale la scriminante della legittima difesa prevista dall’art. 2044 c. c., quindi ove sussistano i requisiti del danno ingiusto e della proporzionalità tra offesa e difesa”.
[11] in Giur. ********., 1983, 527
[12]        in Arch. civ. 1982, 1145.
[13] in Riv. dir. proc. 1980, 218, con nota di La *****
[14]  Giust. civ. 1973, I, 1604
[15]           in Riv. dir. ind. 1978, II, 272, con nota di Natta, Provvedimenti ex art. 700 c.p.c. in materia di concorrenza sleale
[16]            in Arch. giur. circ. 1992, 55.
[17]         Per problematiche analoghe a quella oggetto della sentenza in questione v. GRASSI, Giurisprudenza in merito alla rimozione coattiva di veicoli, in Crocevia 1976, n. 6/7, 20; STELLA *******, Il problema della sosta: strategia ed aspetti normativi, in Giust. civ. 1987, II, 543 e VENTRELLA, Danni derivanti da sosta di veicoli in aree private, in Riv. giur. circ. e trasp. 1977, 56. 
[18]          Giur. It., 2004, 760, nota di ********
[19]Dei fatti illeciti, cit. Bologna-Roma, 1993
[20] *********-******, Le cause di giustificazione, in Comm. Cendon, VIII, Torino, 1998;;
[21] Comporti, Fatti illeciti: le responsabilità presunte, artt. 2044-2048, in Comm. ***********, diretto da ********, Milano, 2002

Zaina Carlo Alberto

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