Referendum sulla giustizia fallito, non è stato raggiunto il quorum

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Nella giornata di ieri domenica 12 giugno si è votato in tutto il Paese per i cinque referendum sulla riforma della giustizia e in quasi mille Comuni per le elezioni amministrative.

In entrambe le elezioni il quorum è stato molto scarso, ma se per le elezioni amministrative questo dato è ininfluente (cioè può avere significati a livello politico, e dire qualcosa sul generale “disamoramento” degli italiani nei confronti della classe dirigente del Paese) poiché le elezioni sono valide qualunque sia il numero di elettori che vi abbia partecipato, non lo stesso si può dire del referendum.

Affinché un referendum sia valido è necessario che venga raggiunto un determinato quorum, termine latino che significa letteralmente “dei quali” (cioè in sostanza degli aventi diritto al voto), ovvero una quota minima di persone votanti, calcolata numericamente o in percentuale, che in questo caso è della metà degli aventi diritto più uno (art. 75 IV comma Costituzione).

I referendum sulla giustizia di ieri sono ben lontani da questi numeri, dal momento che si è recato a votare meno del 21% degli aventi diritto.

Ricordiamo che il referendum è il modo con cui, nel nostro Paese, il popolo partecipa attivamente alla formazione delle leggi. Più precisamente, poiché il referendum in Italia è solamente abrogativo, tramite il nostro voto possiamo scegliere se mantenere in vita una legge già esistente ed approvata, oppure abrogarla.

In questo articolo corredato da video avevamo provato a spiegare i quesiti nel modo più semplice possibile, cercando di fare capire le conseguenze del sì e del no, ma la stragrande maggioranza degli italiani ha preferito non esprimere alcuna preferenza.

C’è da dire che negli anni, salvo eclatanti eccezioni, i referendum hanno registrato andamenti ondivaghi. In generale hanno raggiunto percentuali significative i quesiti molto vicini al sentimento popolare (aborto, divorzio, nucleare), mentre i quesiti più tecnici non hanno quasi mai conquistato gli Italiani, che negli anni hanno preferito spesso trascorrere il fine settimana al mare, piuttosto che esprimere la preferenza sui quesiti.

Ed in questo caso, dove già qualcuno parla di flop senza precedenti, i quesiti erano estremamente tecnici.

Complesso far decidere alla popolazione per quale motivo si debba o non si debba stare in carcere preventivamente (uno dei quesiti chiedeva di esprimersi sull’abrogazione delle misure cautelari, limitatamente al pericolo di reiterazione del reato) o peggio ancora se sia giusto o meno separare le carriere dei magistrati giudicanti e di quelli requirenti.

Non è cosa da tutti conoscere l’iter per diventare magistrato, e per la maggior parte delle persone le competenze in tema di processo penale sono quelle derivate dalle serie televisive e dai film americani, che sono gli unici contesti in cui si sente parlare di pubblico ministero.

Per quanto riguarda la legge Severino, sarebbe stato forse opportuno prima spiegare in che cosa consiste tale previsione legislativa e non parliamo poi dei due quesiti riguardanti la modifica del consiglio giudiziario, i meccanismi di candidatura al CSM (questo sconosciuto) e la valutazione dei magistrati.

Poca informazione sui quesiti, troppo complessi, distanti dalla popolazione e dagli interessi comuni, pochissima tribuna politica e spazio sui media, che sono stati totalmente monopolizzati nei mesi scorsi prima dalle vicende della pandemia e poi da quelle della guerra hanno contribuito a determinare un insuccesso che veniva comunque dato come largamente annunciato.

Indipendentemente da ogni commento di natura politica, per cui non è questa la sede adeguata, il fallimento dei referendum sulla giustizia potrebbe forse servire da spunto per una riflessione seria su due esigenze fondamentali per il nostro Paese: da un lato una riforma sulla giustizia, civile e penale, che tuttavia (a parere di chi scrive) dovrebbe essere di provenienza legislativa e non popolare.

Dall’altro l’attualità dello strumento referendario come strumento di democrazia popolare: negli ultimi quindici anni solo due referendum hanno raggiunto il quorum, segno evidente del disinteresse pressoché costante sui temi proposti ai cittadini.

Forse questo potrebbe essere l’insegnamento da trarre dal voto di ieri: una riflessione sull’allontanamento dei cittadini dalla politica, la disillusione dilagante, la convinzione che il referendum non serva a nulla e che per le questioni veramente importanti i cittadini non vengano mai consultati o che la loro decisione venga ignorata, come è successo per i referendum proposti su eutanasia legale e cannabis. Nonostante il grande successo della raccolta firme per chiederne l’approvazione, entrambi non hanno passato il vaglio della Corte Costituzionale.

Segno evidente che, ancora una volta, politica e sentire comune sono non solo su due piani diversi, ma addirittura in due sistemi solari destinati, purtroppo, a non incontrarsi mai.


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Avv. Luisa Di Giacomo

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