Dal provvedimento redatto “in forma semplificata” a quello “plurimotivato”: traiettorie giurisprudenziali in tema di motivazione del provvedimento amministrativo

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La recente giurisprudenza del Consiglio di Stato ha offerto molteplici occasioni per sviluppare riflessioni sul mai esaurito tema della motivazione del provvedimento amministrativo, oggetto di ciclico interesse da parte degli operatori giuridici.

In particolare, la recente attenzione giurisprudenziale si è concentrata per un verso sul tema del provvedimento c.d. “plurimotivato”, ossia di quello il cui dispositivo sia sorretto da una serie di ragioni dotate di reciproca autonomia. Non sono però mancate anche recenti incursioni nella diversa questione del provvedimento con motivazione “elementare”, anche redatto “in forma semplificata” ai sensi dell’art. 2 L. 7 agosto 1990 n. 241, ossia dell’atto che si regga invece su un’unica ragione – di fatto e di diritto – rispetto alla quale vive in un rapporto di coessenziale dipendenza.

I recenti arresti giurisprudenziali, considerati sinotticamente, consentono di ricostruire le interessanti traiettorie dell’evoluzione pretoria in ordine alla più ampia tematica della motivazione del procedimento e meritano quindi particolare approfondimento, anche in quanto idonei ad informare l’azione dell’amministrazione pubblica nella cura futura degli interessi pubblici.

In questa sede intende darsi conto di alcune tra le coordinate giurisprudenziali recenti, proprio nella cornice di questa evoluzione.

L’atto plurimotivato

In ordine all’atto “plurimotivato”, nozione di ormai non più recente creazione pretoria[1], si deve premettere che la giurisprudenza definisce quest’ultimo non sulla base della sua stesura o struttura formale, bensì della sua costruzione argomentativa sostanziale.

È “plurimotivato” quell’atto che reca un dispositivo sorretto non già da una sola motivazione, ma da plurime, tra loro indipendenti[2]. Si badi, è proprio la reciproca autonomia dei capi della motivazione che peculiarizza questo particolare tipo di atto, sicché non si può definire invece “plurimotivato” quello che sia sorretto da una molteplicità di argomentazioni tra loro del tutto compenetrate e interdipendenti.

In effetti, può ben dirsi che l’atto plurimotivato, a prescindere da come sia formalmente esteso, abbia una motivazione scomponibile in “capi” diversi, ciascuno dotato di una propria autonomia. In sostanza, si tratta di componenti autonome della motivazione, ossia di vere e proprie motivazioni parallele.

Si badi, le singole componenti della motivazione per potersi dire “autonome” devono essere ciascuna in sé idonea a sorreggere il dispositivo.

Patologia dei singoli elementi della motivazione

Questa caratterizzazione dianzi brevemente anticipata è di assoluto rilievo perché consente di ricostruire logicamente le conseguenze delle patologie che affliggono singoli capi della motivazione[3], ossia singole componenti autonome del compendio motivazionale.

È infatti evidente che, alla luce della considerazione sinteticamente estese, la patologia che affligga il singolo capo della motivazione di per sé è insufficiente a determinare l’invalidità del provvedimento, ove altri capi siano invece immuni da censure.

Questo perché, se è vero che il provvedimento plurimotivato si regge su autonome motivazioni tra loro autonome e ciascuna di per sé sufficiente a fondare il dispositivo, il venir meno dell’una non comprometterà la stabilità delle altre e garantirà quindi la sopravvivenza del provvedimento nel suo complesso considerato.

Implicazioni processuali: interesse all’impugnazione

Da questa premessa si desume che, ove il ricorso sia proposto unicamente avverso uno degli autonomi capi della motivazione, se ne vedrà dichiarata l’inammissibilità per difetto d’interesse[4], atteso che in nessun caso l’azione potrebbe pervenire all’annullamento del provvedimento, stante la persistenza del residuo addentellato motivazionale.

Da un punto di vista processuale, si determina infatti un difetto di interesse alla singola censura, quando il vizio denunciato, ove accertato, si riveli tuttavia insufficiente all’annullamento dell’atto.

L’interesse rivive – recte, scaturisce – unicamente ove dal complessivo impianto impugnatorio rivolto nei confronti del procedimento si desumano fondate censure sufficienti a deteriorare ogni singolo capo della motivazione e quindi a recidere ogni radice giustificatrice del provvedimento.

Né parrebbe sufficiente l’interesse morale a vedersi sconfessato il singolo capo motivazione, se questo non è autonomamente lesivo, venendo in ogni caso meno l’utilità dell’azione[5]. Una siffatta conclusione trova altresì conferma nella piana considerazione per cui, l’amministrazione – ove il provvedimento fosse censurato con riguardo a un solo capo della motivazione – nella riedizione del potere si limiterebbe comunque a riproporre gli altri rimasti immuni al sindacato giurisdizionale.

Ulteriori implicazioni processuali: principio della ragione più liquida

Queste considerazioni si rivelano altresì interessanti sotto un ulteriore profilo.

Si è detto che, nel caso di proposizione di ricorso avverso un atto plurimotivato, soltanto la demolizione di tutti i capi della motivazione determinerebbe l’annullamento del provvedimento e giustificherebbe quindi l’accoglimento del ricorso.

Da ciò si è quindi ulteriormente dedotto, sotto il profilo schiettamente processuale, che è sufficiente l’accertamento dell’infondatezza delle censure rivolte a un singolo capo della motivazione per garantire la sopravvivenza del provvedimento, dunque sorreggere l’annullamento del ricorso. Ciò garantisce al giudice la possibilità, respinte tutte le censure avverso un singolo capo della motivazione, di assorbire ogni altra questione, in quanto comunque inidonea a sorreggere una diversa decisione.

È proprio quest’ultimo il profilo di maggior interesse nella prospettiva dell’economia del provvedimento decisorio del giudice, anche in ottemperanza al tanto attenziono principio di sinteticità degli atti processuali. Ove il giudicante, nell’esaminare il ricorso, accerti la legittimità del provvedimento con riguardo a una soltanto delle autonome motivazioni, potrà assorbire ogni altro motivo.

Tale assorbimento, in ottica sostanziale, si traduce sostanzialmente in un riconoscimento del difetto d’interesse alla decisione della specifica questione, in quanto comunque insufficiente a mutare l’esito del giudizio.

Si legga anche:”Aspetti giuridici sulla natura del provvedimento di revoca dell’assessore. L’onere della motivazione.”

Dalla pluri-motivazione alla motivazione “elementare”

Se l’atto plurimotivato ha suscitato un vivace interesse in giurisprudenza, meritano parimenti attenzione anche altre peculiari manifestazioni dell’elemento motivazionale del provvedimento. In particolare, deve riservarsi interesse anche per le forme più elementari di motivazione, ove l’estrinsecazione delle ragioni sottese al dispositivo si risolve nel riferimento – spesso assai sintetico – a singoli elementi.

In effetti, se per atto pluri-motivato s’intende quello retto da plurime autonome motivazioni (recte componenti della motivazione), ben può darsi il caso di provvedimenti fondati su un unico elemento giustificatore, in fatto o in diritto: è questo un caso di motivazione “elementare”, concentrata in un singolo elemento.

È appena il caso di ricordare che la pluri-motivazione non è sempre indice di maggiore solidità del provvedimento, dovendosi valutare quest’ultimo profilo semmai dalla consistenza giuridica delle ragioni addotte, piuttosto che dalla loro quantità. Ad esempio, un’unica ragione sostanziale solida soddisfa certamente le esigenze di giustizia procedimentale quanto se non più di una molteplicità di ragioni formali.

In effetti, è costante l’opinione che ove uno solo dei motivi sia sufficientemente circostanziato possa definitivamente escludersi il difetto di motivazione dell’atto[6].

L’atto a motivazione “semplificata”

La legge sul procedimento amministrativo (L. 7 agosto 1990. n. 241) istituzionalizza una specifica ipotesi di ricorso alla motivazione “elementare”, ossia consistente in un’unica (e unitaria) ragione di fatto o di diritto”. In particolare, all’art. 2, comma 1, si prevede che le Pubbliche Amministrazioni “se ravvisano la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda, le pubbliche amministrazioni concludono il procedimento con un provvedimento espresso redatto in forma semplificata, la cui motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo.

È questo il provvedimento redatto in forma “semplificata”, che debba provvedersi al rigetto di un’istanza per l’ipotesi di palese inaccoglibilità[7].

La norma corrobora quindi l’idea che, affinché sia soddisfatto il requisito della motivazione del provvedimento basti l’indicazione di un unico elemento, ove ontologicamente sufficiente a sorreggere il dispositivo e dunque, nella specifica ipotesi, a dimostrare la non spettanza dell’utilità pretensivamente richiesta. In effetti, una tale conclusione appare anche coerente con il principio di semplificazione dell’azione amministrativa[8].

Come osservato in dottrina, non è quindi la motivazione in sé a essere semplificata, ma semmai la forma del provvedimento[9] e quindi il modo in cui la estrinseca.

Divieto di integrazione postuma della motivazione e limiti alla semplificazione del compendio motivazionale

La giurisprudenza anche recentissima[10] ha poi avuto occasione di chiarire che, anche ove il provvedimento sia redatto in forma semplificata ai sensi dell’art. 2, resta comunque fermo il divieto di integrazione postuma del compendio motivazionale, da tempo costantemente ribadito.

Tale divieto impone al giudice di vagliare la legittimità del provvedimento unicamente alla stregua delle motivazioni in questo riportate senza poter considerare eventuali ragioni ulteriori che emergano nel corso del giudizio o che siano comunque manifestate dall’amministrazione in atti successivi.

Alla luce di tale preclusione, si è affermato un principio di cristallizzazione del compendio motivazionale che, nel momento in cui è trasfuso all’interno del provvedimento, non può più essere rimodulato in epoca successiva. Tale circostanza incide evidentemente sull’opportunità di ricorrere alle motivazioni semplificate e orienta l’azione amministrativa verso la ricerca di un maggiore soddisfazione dell’onere di enucleazione delle ragioni sottese alla decisione amministrativa.

Conclusioni

All’esito di siffatte premesse, si impongono alcune necessarie conclusioni.

Per un verso è indubbio che esigenze di semplificazione dell’azione amministrativa e di ottimizzazione dei procedimenti di cura dell’interesse pubblico inducano a ritenere apprezzabile lo sforzo di sinteticità nella elaborazione dei provvedimenti, anche dal punto di vista della stesura delle ragioni sottese.

Tale esigenza non parrebbe però sufficiente a giustificare una compressione del compendio motivazionale da un punto di vista qualitativo e ontologico, alla luce del contrapposto divieto di integrazione postuma della motivazione, che rende insanabile un eventuale vizio di carenza motivazione evitabile.

Nel chiaroscuro dei ricordati principi giurisprudenziali, l’equilibrio può rinvenirsi quando nel provvedimento sia trasfusa una motivazione organica e comunque idonea a sorreggere il dispositivo, la quale è per di più di norma naturale conseguenza di un’istruttoria diligente.

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Note

[1] La nozione ricorre recentemente in T.A.R. Campania, Napoli, 25 novembre 2019, n. 5565 in Giustamm.it, n. 11, 2019, e Consiglio di Stato, IV, 22 maggio 2016, n. 1921, ma si rinviene prima ancora in Consiglio di Stato, VI, 18 maggio 2012 n. 2894, IV 5 luglio 2010, n. 4244; VI, 17 ottobre 2008, n. 3609.

[2] Sulla pluralità di ragioni a sostegno dell’unico provvedimento, si veda il repertorio Il provvedimento amministrativo, Padova, Exeo, 2017, disponibile in digitale.

[3] Sulle quali si rinvia a A. Papillo, La motivazione del provvedimento amministrativo e le sorti dell’atto plurimotivato parzialmente viziato, in De Iustitia, n. 1, 2017, pp. 45 ss.

[4] Sicché è inammissibile per carenza d’interesse il ricorso rivolto soltanto avverso alcuni capi della motivazione come ravvisato chiaramente in T.A.R. Sicilia, Palermo, III, 21 febbraio 2012, n. 406. Sul tema, a margine della recentissima giurisprudenza, T. Cocchi, Sull’impugnazione dei provvedimenti amministrativi plurimotivati, in L’Amministrativista, 21 gennaio 2020, a commento in particolare della sentenza T.A.R. Lazio, III-quater, 17 gennaio 2020, n. 562.

[5] Sulla questione in realtà potrebbero spendersi ulteriori riflessioni. Con riguardo al requisito dell’utilità del ricorso e con specifici riferimenti al tema, G. Moneta, Elementi di giustizia amministrativa, Torino, Giappichelli, 2013, p. 48.

[6] Consiglio di Stato, IV, 5 marzo 2013, n. 1344, richiamata di recente anche in M. Clarich, G. Fonderico, Procedimento Amministrativo, Assago, Wolters Kluwer, 2015.

[7] Sotto i vari profili possibili, procedimentali e di merito. Non è un caso che la norma, con la consueta attenzione al dettaglio, enuclei analiticamente distinte ipotesi di inaccoglibilità richiamando non solo l’infondatezza della richiesta, ma anche “irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità”.

[8] Cfr. anche A. Colavecchio, L’obbligo di provvedere tempestivamente, Torino, Giappichelli, 2013, p. 199.

[9] M.S. Bonomi, La motivazione dell’atto amministrativo: dalla disciplina generale alle regole speciali, Roma, Roma Tre University Press, 2020, p. 44, in cui si rileva anche come la nozione di motivazione semplificata abbia una matrice processuale.

[10] Consiglio di Stato, IV, 17 giugno 2020, n. 3896.

Avv. Gambetta Davide

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