Il responsabile del procedimento e sua responsabilità civile, penale e amministrativa

Redazione 22/10/03
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di Gianfranco Tedeschi

Lo schema principale attraverso cui si esplica l’attività svolta da una moderna P.A. per la cura concreta degli interessi pubblici ad essa affidati dalla legge, è rappresentato da quella sequenza coordinata di operazioni ed atti amministrativi che, considerati nel loro insieme, configurano il c.d. procedimento amministrativo.

   Infatti, salvo i casi in cui ragioni eccezionali impongano una deviazione dall’ordinario modus operandi (si pensi a quelle ordinanze emanate per far fronte a situazioni contigibili e urgenti), la P.A. persegue i suoi fini istituzionali utilizzando un modulo procedimentali formato da una serie di atti ontologicamente distinti, ma funzionalmente collegati ad un unico fine: l’emanazione di un provvedimento centrale e conclusivo che rappresenti l’espressione concreta della funzione amministrativa.

   La dottrina moderna è ormai concorde nel ritenere che il procedimento amministrativo non sia però soltanto un metodo per la formazione del provvedimento finale, ma sia anche e soprattutto uno strumento indispensabile per verificare la bontà dell’agire amministrativo, in quanto costituente la sede principale di incontro tra l’esercizio del potere pubblico e l’esercizio dei diritti dei cittadini che di quel potere sono pur sempre i destinatari finali.

   È stato infatti osservato che proprio all’interno dello schema procedimentale devono trovare attuazione quei criteri guida di ogni comportamento della P.A. che sono individuati dall’art. 97 della Costituzione. Tale norma, prevedendo i principi di imparzialità e buon andamento dell’ amministrazione, sancisce espressamente l’obbligo della P.A. di organizzarsi e di operare attraverso modalità eque e comportanti il minor sacrificio possibile degli interessi particolari eventualmente coesistenti con il preminente interesse pubblico.

   Il convincimento che il procedimento amministrativo sia un momento di coordinamento e di composizione di tutti gli interessi pubblici e privati emergenti in occasione dell’esercizio della funzione amministrativa, e come tale rappresenti il luogo principale di attuazione concreta dei suddetti principi costituzionali, ha trovato pieno accoglimento nell’ordinamento positivo solo nel 1990. Infatti, con la legge n. 142 (sia pur limitatamente all’ordinamento delle Autonomie locali) e soprattutto con la successiva legge n. 241,. Il legislatore ha inteso dettare una disciplina generale del procedimento amministrativo, individuando allo scopo alcuni criteri cui devono sempre ispirarsi i pubblici poteri nello svolgimento della loro attività procedimentale.

L’applicazione ai singoli procedimenti di tali principi –in parte mutuati dalla logica imprenditoriale tipica delle imprese private (efficacia, efficienza, economicità), in parte derivati dall’art. 97 Cost. (giusto procedimento, pubblicità e semplificazione) – ha determinato un radicale cambiamento del rapporto tra P.A. e cittadino, elevando quest’ultimo da semplice soggetto passivo a reale protagonista del procedimento.

   In particolare, al fine di combattere la cronica lentezza ed inefficienza dell’azione delle PP.AA., la dottrina e la giurisprudenza hanno elaborato il principio di trasparenza dell’azione amministrativa, inteso come immediata e facile controllabilità di tutti i momenti e i passaggi attraverso cui si esplica l’operato della P.A., onde garantirne uno svolgimento imparziale. Tale principio, diretto corollario dell’art. 97 Cost., si articola, nell’ambito della L. 241/90, in una serie di precetti giuridici (diritto di partecipazione attiva al procedimento, obbligo generale di motivazione del provvedimento finale, riconoscimento ai soggetti interessati del diritto di accedere agli atti della P.A.) che sono tutti finalizzati a consentire un efficace controllo democratico sulla correttezza e imparzialità dell’azione amministrativa.

   In quest’ottica può essere inserita anche la figura del responsabile del procedimento, introdotto ex novo nel nostro ordinamento dagli artt. 4,5 e 6 della L. 241/90. Infatti, la previsione espressa di una persona fisica cui affidare l’intera direzione e gestione del procedimento amministrativo, oltre a rappresentare un momento di conoscibilità e trasparenza dell’azione amministrativa, risponde sicuramente ad una finalità di tutela degli interessati da possibili comportamenti arbitrari della P.A. procedente.

   Del resto, l’individuazione di tale soggetto, effettuata da ciascuna P.A. sulla base delle proprie articolazioni interne , deve essere portata a conoscenza degli interessati “…mediante forme di pubblicità idonee di volta in volta stabilite dall’Amministrazione medesima (art. 8 L.241/90): allo scopo potrebbe farsi ricorso allo strumento regolamentare o, laddove già istituiti, agli Uffici per le Relazioni con il Pubblico, il cui compito istituzionale è proprio quello di “…fornire all’utenza tutte le informazioni sugli atti, sui responsabili, sullo svolgimento e sui tempi di conclusione dei procedimenti amministrativi” (art. 12 Dlgs. 29/93).

   Da un punto di vista strettamente organizzativo, è tuttavia da sottolineare come, per procedere alla concreta individuazione del singolo dipendente cui attribuire la funzione di responsabile del procedimento, sia necessario che ciascuna P.A. abbia preventivamente determinato (ove ciò non sia stato già direttamente stabilito dalla legge o dal regolamento), per ciascun tipo di procedimento relativo ad atti di propria competenza, l’ufficio (l’art. 4 della 241 parla di unità organizzativa) competente a compiere tutti gli adempimenti necessari ai fini di una completa istruttoria. E’ ovvio che tale determinazione sarà fatta ratione materiae, cioè secondo i compiti funzionali propri di ciascun ufficio, così come delineati in sede di autoregolamentazione organizzativa. Solo a seguito di tale adempimento, il funzionario preposto all’unità organizzativa provvederà, pena la propria responsabilità, ad individuare –con apposito ordine di servizio- il soggetto cui attribuire i compiti di direzione e di gestione dell’istruttoria di tutti o di alcuni dei procedimenti curati da quell’ufficio.

   Nell’ipotesi, non infrequente nella pratica, in cui uno stesso procedimento sia di pertinenza di più uffici, il dlgs. 29/93 prevede che il dirigente generale dell’Ente –o un suo delegato- provveda a coordinare l’operato dei vari responsabili dei procedimenti, attribuendo, se del caso, la responsabilità complessiva ad un unico ufficio. Qualora, invece, vi siano uno o più procedimenti articolati in diverse fasi curati da uffici appartenenti ad Enti diversi (si pensi ad ipotesi coinvolgenti l’operato di organi di amministrazione attiva, consultiva e di controllo preventivo), sarà necessario individuare tanti responsabili quanti sono gli enti coinvolti: ciò allo scopo di garantire la possibilità di un distinto controllo democratico su ogni momento dell’attività amministrativa. Tale soluzione, se può non sembrare in linea con le esigenze di snellezza e di divieto di aggravio del procedimento sancite dalla 241/90, è pur sempre l’unica possibile, almeno fino a quando i regolamenti emanati in base alla L. 59/97 per la delegificazione delle norme sui procedimenti amministrativi, non avranno completato l’opera di riduzione del numero delle fasi procedimentali e delle PP.AA. intervenienti.

   In base all’art. 6 della l. 241, i compiti del responsabile del procedimento sono facilmente individuabili con riferimento a tutte quelle attività connesse alla sola fase istruttoria, in cui cioè si acquisiscono e si valutano i singoli atti rilevanti per l’emanazione del provvedimento finale.

Quest’ultimo compito è, infatti, solo eventualmente configurabile in capo al responsabile del procedimento, dovendosi allo scopo valutare se, caso per caso, egli cumuli in sé anche la qualità di organo della P.A. e se quindi sia abilitato all’adozione di atti provvedimentali.

   Tuttavia, a prescindere dalla competenza che il responsabile del procedimento abbia in merito all’adozione dell’atto conclusivo dell’iter procedimentale da lui gestito, resta fermo che il verificarsi di omissioni o inadempimenti durante il procedimento implicherà necessariamente una sua diretta responsabilità, sebbene la L.241 si limiti ad indicare solo gli adempimenti di sua competenza, senza occuparsi delle conseguenze di ordine sanzionatorio derivanti dalla violazione di tali obblighi. E’ indubbio, infatti, che la l. 241, introducendo tale figura nel nostro ordinamento, abbia voluto eliminare quel sostanziale anonimato che garantiva la irresponsabilità civile, penale e amministrativa dei pubblici dipendenti. Di conseguenza il responsabile del procedimento, proprio perché ben individuato, incorrerà più facilmente nelle varie ipotesi di responsabilità previste nel nostro ordinamento. Infatti, oltre alle consuete forme di responsabilità amministrativa (disciplinare e/o contabile) configurabili in relazione allo speciale rapporto di impiego che lo lega alla P.A. di appartenenza, egli vedrà aumentare –proprio in ragione della sua maggiore “visibilità”- la possibilità di essere chiamato a rispondere del proprio operato in sede civile e penale.

    Pertanto, sul piano strettamente civilistico, il responsabile del procedimento sarà responsabile, assieme alla P.A. di appartenenza, verso i terzi per i danni ad essi arrecati a causa dell’omesso o ritardato compimento degli atti o delle operazione cui era tenuto per legge o per regolamento. Tuttavia, dal combinato disposto dell’art. 28 Cost. e dalle norme disciplinanti la responsabilità civile degli impiegati civili dello Stato (contenute nel T.U.3/57), deriva che la responsabilità non potrà essere imputata al dipendente allorquando questi abbia agito con colpa lieve o quando il disservizio si sia verificato nell’osservanza di un ordine scritto impartito da un superiore.

Comunque, all’infuori di queste due ipotesi residuali, il mancato o intempestivo compimento di un atto procedimentale comporterà per il responsabile dell’istruttoria il sorgere di una forma di responsabilità civile le cui conseguenze vanno sempre più aggravandosi. Infatti, se l’art. 25 del T.U. 3/57 subordinava la proponibilità dell’azione risarcitoria alla preventiva notificazione alla P.A. e al suo impiegato di un atto di diffida ad adempiere e al successivo trascorrere di un ulteriore termine di 30 giorni., l’art. 20 della l.59/97 ha stabilito che i regolamenti disciplinanti i vari procedimenti di competenza delle singole PP.AA. prevedano “…forme di indennizzo forfettario e automatico per i soggetti interessati, nei casi di mancato rispetto dei termini procedimentali, o comunque di ritardato o incompleto assolvimento degli obblighi e delle prestazioni da parte della P.A.”. Così facendo, il legislatore Bassanini, nell’ottica di una accentuata semplificazione delle procedure, ha inteso svincolare il sorgere di tale forma di responsabilità dal rigido rispetto della procedura di cui al citato T.U. Inoltre, a seguito della sentenza n. 500/99 delle S.U. della Cassazione, che ha riconosciuto la risarcibilità del danno derivante dalla lesione di interessi legittimi pretesivi (quali sono certamente quelli vantati dai soggetti interessati ad una conclusione tempestiva del procedimento, ex art. 2, comma V della l. 241), la tutela del privato è stata ulteriormente rafforzata. Infatti, in caso di esito favorevole della relativa azione, egli potrà ottenere, in luogo di un semplice indennizzo rivolto a ristorarlo solo parzialmente del pregiudizio subito, di un vero risarcimento volto alla completa reintegrazione patrimoniale della sfera giuridica violata. Inoltre, da un punto di vista processuale, la garanzia di una più rapida ed efficace tutela delle ragioni del privato discende da quelle disposizioni della L. 205/00, la quale, oltre a riconoscere la possibilità per il g.a. di “conoscere di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno”, ha previsto una procedura alquanto snella in materia di ricorsi avverso il silenzio amministrativo.

    Infine, venendo all’esame della responsabilità penale in cui può incorrere il responsabile del procedimento, va sottolineata l’ipotesi delittuosa prevista nell’art. 3238 c.p. Tale norma contempla, nel 1° comma, il delitto di rifiuto di atti di ufficio e, nel secondo, quello di omissione di atti di ufficio, che ricorre allorquando l’atto non è compiuto entro 30 giorni dalla richiesta e non vengano esposte, nello stesso termine, le ragioni del ritardo.

   In realtà è piuttosto difficile che si verifichi la fattispecie delittuosa prevista nel 1° comma, in quanto la legge ne limita l’ambito applicativo con riferimento ad in atto da compiere senza ritardo per le sole ragioni di giustizia, sicurezza, ordine pubblico, igiene e sanità.

   Più frequente è invece l’ipotesi contemplata dal 2° comma della norma in esame, anche perché, in considerazione della ratio della l.241/90 intesa ad accelerare e rendere trasparente l’azione amministrativa, ne viene fornita una interpretazione estensiva. Nonostante la norma parli genericamente di atto e non specificamente di comportamento, si ritiene infatti sanzionabile anche la condotta di chi non compia, entro il termine previsto, quegli adempimenti procedimentali elencati dall’art. 6 della l. 241.

    Da ultimo va notato che la condotta omissiva del responsabile del procedimento potrebbe integrare anche gli estremi della fattispecie delittuosa dell’abuso di ufficio di cui all’art. 323 c. p., ove si ritengano ammissibili figure di abuso omissivo, non sussumibili nella figura di reato di semplice omissione di atti d’ufficio che presuppone sempre la presentazione di una istanza rimasta inevasa.

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