La manutenzione straordinaria in edilizia dopo la conversione in legge del decreto “Sblocca Italia”

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 Sommario: 1. Premessa. – 2. La definizione degli interventi edilizi di manutenzione straordinaria prima dell’entrata in vigore del decreto-legge “Sblocca Italia” e della sua conversione in legge. – 3. Segnali di crisi del concetto consolidato di manutenzione straordinaria. – 4. Il decreto-legge n. 133/2014 e la nuova definizione degli interventi edilizi di manutenzione straordinaria. – 5. La restrizione degli interventi di ristrutturazione edilizia assoggettati al permesso di costruire. – 6. La manutenzione straordinaria e la questione del mutamento della destinazione d’uso originaria. – 7. La possibile variazione anche in aumento del carico urbanistico. – 8. La parziale onerosità del contributo di costruzione. – 9. La comunicazione di inizio dei lavori e una difficilissima asseverazione.

1. Premessa. – Questa rivista aveva cortesemente ospitato il mio articolo: L’ampliamento degli interventi edilizi di manutenzione straordinaria secondo il decreto-legge “Sblocca Italia”. Di recente, il decreto-legge è stato convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164, pubblicata sul Supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 262 dell’11 novembre.

Le modificazioni hanno comportato la necessità di aggiornare, spesso con notevoli variazioni, il suddetto articolo.

2. La definizione degli interventi edilizi di manutenzione straordinaria prima dell’entrata in vigore del decreto-legge “Sblocca Italia” e della sua conversione in legge. – La definizione era stata introdotta nella legislazione statale dalla legge 5 agosto 1978, n. 457 “Norme per l’edilizia residenziale” che, all’art. 31, comma 1, lettera b, così caratterizzava gli interventi di manutenzione straordinaria: “le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di uso”.

Dal 1978 la definizione era giunta pressoché intatta fino al 13 settembre 2014, data di entrata in vigore del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133 (“Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive” detto anche decreto “Sblocca Italia”). Il testo unico dell’edilizia, di cui al D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, e le numerose successive modificazioni, avevano conservato un art. 3 che, al comma 1, lettera b, definiva gli interventi di manutenzione straordinaria ripetendo le identiche parole della legge n. 457/1978.

Una definizione sostanzialmente perdurata per 36 anni è un risultato notevole di fronte ad una legislazione irrequieta e turbolenta come la nostra. Si poteva parlare, a ragione, di una vera e propria concettualizzazione degli interventi di manutenzione straordinaria.

Più in generale – va anche ricordato – il citato art. 31 definiva gli interventi di recupero edilizio, impiegando la molto utile e apprezzata distinzione in: a) manutenzione ordinaria, b) manutenzione straordinaria, c) restauro e risanamento conservativo, d) ristrutturazione edilizia, e) ristrutturazione urbanistica.

La distinzione aveva avuto successo ed era stata ampiamente recepita non soltanto nella legislazione successiva, sia statale che regionale, ma era stata utilizzata dagli strumenti urbanistici comunali e sovracomunali e dai regolamenti edilizi, anche perché il comma 2 del suddetto art. 31 aveva disposto: “Le definizioni del presente articolo prevalgono sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi”. L’identica prevalenza era stata confermata dall’art. 3, comma 2, del testo unico dell’edilizia.

Va segnalato inoltre, altro sintomo del suo successo, che la distinzione era stata estesa dagli interventi edilizi di recupero residenziale a qualsiasi tipo di intervento edilizio.

Tornando alla manutenzione straordinaria, anche la giurisprudenza aveva apprezzato la definizione e il suo consolidamento nel tempo. E’ sufficiente citare, tra le sentenze più recenti, che arrivano quasi alle soglie della data di entrata in vigore del decreto-legge n. 133/2014: T.A.R. Campania, Napoli, Sez. III, 15 settembre 2014, n. 4925, laddove sottolinea, richiamando e citando la costante giurisprudenza, come i concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento conservativo, che presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell’edificio e la distribuzione interna della sua superficie (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 18 ottobre 2002 n. 5775; Cons. Stato, Sez. V, 23 maggio 2000 n. 2988), siano incompatibili con il rinnovo degli elementi costitutivi dell’edificio e con un’alterazione dell’originaria fisionomia e consistenza fisica dell’immobile. Questi ultimi interventi, compresi quelli che comportino un aumento delle unità immobiliari o modifiche delle superfici, ricadono nelle previsioni dell’art. 10, comma 1, del testo unico dell’edilizia e vanno qualificati come interventi di ristrutturazione edilizia subordinati al rilascio del permesso di costruire.

Parimenti per Cons. Stato, Sez. V, 5 settembre 2014, n. 4523: si è formato un consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal quale non vi è motivo per discostarsi, secondo cui gli interventi edilizi che alterino, anche sotto il profilo della distribuzione interna, l’originaria consistenza fisica di un immobile e comportino l’inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi non si configurano come manutenzione straordinaria (né come restauro o risanamento conservativo), ma rientrano nell’ambito della ristrutturazione edilizia di cui all’art. 10, comma 1, del testo unico dell’edilizia (Cons. Stato, Sez. V, 17 dicembre 1996, n. 1551), ravvisabile nella modificazione della distribuzione della superficie interna e dei volumi e dell’ordine in cui sono disposte le diverse porzioni dell’edificio anche per il solo fine di rendere più agevole la destinazione d’uso esistente: pure in questi casi si configura il rinnovo di elementi costitutivi dell’edificio ed un’alterazione dell’originaria fisionomia e consistenza fisica dell’immobile, incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e risanamento conservativo, che invece presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell’edificio e la distribuzione interna della sua superficie (Cons. Stato, Sez. V, 17 marzo 2014, n. 1326; Cons. Stato, Sez. V, 18 ottobre 2002, n. 5775; Cons. Stato, Sez. V, 23 maggio 2000, n. 2988).

Come è agevole notare, le sentenze esaminate, facendo eco al concetto legale, affermano che non possono essere qualificati interventi edilizi di manutenzione straordinaria quelli che alterano, anche sotto il profilo della distribuzione interna, l’originaria consistenza fisica di un immobile e comportano l’inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi. In questi casi si tratta di interventi che non rientrano nel concetto di manutenzione straordinaria, ma ricadono nella disciplina di quelle ristrutturazioni edilizie che richiedono necessariamente il rilascio del permesso di costruire.

3. Segnali di crisi del concetto consolidato di manutenzione straordinaria. – Tuttavia, occorre aggiungere – e si tratta di un parziale preavviso del futuro mutamento di indirizzo legislativo che sarà realizzato dal decreto-legge n. 133/2014 e dalla legge di conversione n. 164/2014 – la seconda sentenza sopra citata (Cons. Stato, Sez. V, n. 4523/2014), accenna pure alla circostanza che è stato considerato come manutenzione straordinaria (e non quale ristrutturazione edilizia) l’intervento volto ad ampliare un’attività commerciale, già in precedente esercitata, mediante il semplice spostamento interno di tramezzi, idoneo a realizzare una differente ripartizione interna dei locali (con rilascio gratuito del relativo titolo autorizzatorio, Cons, Stato, Sez. V, 19 luglio 2005, n. 3827).

In sostanza, un’alterazione delle superfici delle unità immobiliari, pur fuoriuscendo dai confini della manutenzione straordinaria, è stata ugualmente fatta rientrare in quel concetto, poiché, ad avviso della sentenza n. 3827/2005 del Consiglio di Stato: le opere realizzate hanno comportato semplicemente – senza intaccare alcuna struttura portante dell’edificio – una parziale differente distribuzione degli spazi interni relativi ai singoli locali in vista di una loro parziale rinnovazione anche di tipo tecnologico, di conseguenza le stesse appaiono pienamente riconducibili alla tipologia di opere proprie della manutenzione straordinaria.

Nel paragrafo precedente abbiamo rilevato che la definizione di manutenzione straordinaria, formulata nel 1978, era giunta pressoché intatta fino al 2014, fino al decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133.

Però, bisogna fare cenno ad un significativo precedente legislativo, verificatosi nel 2010, del futuro mutamento del concetto di manutenzione straordinaria che ha consentito espressamente l’esecuzione degli interventi di manutenzione straordinaria, ivi compresi l’apertura di porte interne o lo spostamento di pareti interne, purché non riguardino le parti strutturali dell’edificio, non comportino aumento del numero delle unità immobiliari e non implichino incremento dei parametri urbanistici.

In tal senso è formulato l’art. 5, comma 2, lettera a, del decreto-legge 25 marzo 2010, n. 40, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2010, n. 73, che include nella manutenzione straordinaria l’apertura di porte interne o lo spostamento di pareti interne, quindi una alterazione delle superfici delle unità immobiliari, a condizione che non venga aumentato il numero delle unità immobiliari. Inoltre, la disposizione non richiede alcun titolo abilitativo per la esecuzione di siffatti lavori, ma reputa sufficiente una previa comunicazione, anche per via telematica, dell’inizio dei lavori da parte dell’interessato all’amministrazione comunale.

La disposizione sarà ulteriormente ampliata nei suoi confini dal decreto-legge “Sblocca Italia”.

Infine forti segnali di crisi del concetto consolidato di manutenzione straordinaria erano apparsi nella normativa di alcune Regioni.

Ad esempio, una delibera della Giunta regionale della Lombardia 25 settembre 1998, n. 6/38573: Criteri ed indirizzi generali per la predisposizione dei regolamenti edilizi comunali, presentava (nell’allegato A) un art. 1.2, in base al quale “sono comprese nella manutenzione straordina­ria le opere di modifica dell’assetto distributivo di singole attività immobiliari e anche le opere che comportino l’aggregazione o la suddivisione di unità immobiliari purché non alterino l’impianto distributivo complessivo dell’edificio e non interessino parti comuni”.

Successivamente, la legge regionale Lombardia 11 marzo 2005, n. 12: “Legge per il governo del territorio”, all’art. 27, comma 1, lettera b, ha definito gli interventi di manutenzione straordinaria nei seguenti termini: “le opere e le modifiche riguardanti il consolidamento, il rinnovamento e la sostituzione di parti anche strutturali degli edifici, la realizzazione ed integrazione dei servizi igienico-sanitari e tecnologici, nonché le modificazioni dell’assetto distributivo di singole unità immobiliari. Sono di manutenzione straordinaria anche gli interventi che comportino la trasformazione di una singola unità immobiliare in due o più unità immobiliari, o l’aggregazione di due o più unità immobiliari in una unità immobiliare”.

In maniera analoga, la legge regionale Veneto 10 agosto 2012, n. 34, con l’art. 1, ha disposto modifiche all’art. 76 della legge regionale 27 giugno 1985, n. 61 “Norme per l’assetto e l’uso del territorio”, con l’inserimento nella nozione di manutenzione straordinaria degli interventi che “comportino la trasformazione di una singola unità immobiliare in due o più unità immobiliari o l’aggregazione di due o più unità immobiliari in una unità immobiliare, purché l’unità immobiliare sulla quale si interviene abbia e mantenga la destinazione d’uso residenziale e le opere non interessino parti comuni dell’edificio”.

Per qualche aspetto ha contribuito a porre in evidenza la crisi del concetto consolidato di manutenzione straordinaria anche la legge regionale dell’Emilia-Romagna 30 luglio 2013, n. 15 “Semplificazione della disciplina edilizia”. L’art. 32 di questa legge ha sollevato un problema in tema di frazionamento delle unità immobiliari, successivamente risolto con delibera della Giunta regionale n. 75 del 27 gennaio 2014, secondo cui il frazionamento si colloca in uno spazio intermedio tra la manutenzione straordinaria e la ristrutturazione edilizia, non potendo identificarsi con alcuno dei due tipi di interventi edilizi (è appena il caso di segnalare che tale soluzione non sarebbe stata condivisa dalla prevalente giurisprudenza citata nel paragrafo 2, che avrebbe inquadrato il frazionamento nell’ambito della ristrutturazione edilizia. Invece, il decreto-legge n. 133/2014 dilaterà il concetto di manutenzione straordinaria per accogliervi sia i frazionamenti sia gli accorpamenti delle unità immobiliari).

I diversi segnali di crisi che abbiamo ricordato mostravano chiaramente l’insorgenza di orientamenti che mal sopportavano il consolidato concetto di manutenzione straordinaria, laddove comportava il divieto di alterazione delle superfici delle singole unità immobiliari.

4. Il decreto-legge n. 133/2014 e la nuova definizione degli interventi edilizi di manutenzione straordinaria. – L’art. 17, comma 1, lettera a, del decreto-legge “Sblocca Italia” ha modificato in maniera incisiva la definizione degli interventi di manutenzione straordinaria, innovando l’art. 3, comma 1, lettera b, del testo unico dell’edilizia. La nuova definizione (non rimaneggiata dalla legge di conversione n. 164/2014) è così formulata: sono “interventi di manutenzione straordinaria, le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino la volumetria complessiva degli edifici e non comportino modifiche delle destinazioni di uso. Nell’ambito degli interventi di manutenzione straordinaria sono ricompresi anche quelli consistenti nel frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico purché non sia modificata la volumetria complessiva degli edifici e si mantenga l’originaria destinazione d’uso”.

Mentre la disposizione legislativa precedente imponeva di non alterare i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari, attualmente viene fissato il divieto di non alterare la volumetria complessiva degli edifici.

Inoltre, vengono inclusi nella definizione degli interventi di manutenzione straordinaria i frazionamenti e gli accorpamenti delle unità immobiliari con esecuzione di opere, anche se comportano la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico, purché non venga modificata la volumetria complessiva degli edifici e resti ferma l’originaria destinazione d’uso.

In sostanza i limiti che non possono essere valicati dalla innovata manutenzione straordinaria sono due: la volumetria complessiva degli edifici e la destinazione d’uso originaria. Invece, diventa possibile mutare le superfici delle singole unità immobiliari anche a mezzo di frazionamenti e accorpamenti ed è ammissibile la variazione anche in aumento del carico urbanistico (v. paragrafo 7).

Nel campo di applicazione della nuova definizione bisogna aggiungere gli interventi previsti dall’art. 6, comma 2, lettera a, del testo unico dell’edilizia in tema di attività edilizia libera (innovato dall’art. 17, comma 1, lettera c, del decreto-legge n. 133/2014 e mantenuto dalla legge di conversione n. 164/2014), che include nella manutenzione straordinaria: l’apertura di porte interne o lo spostamento di pareti interne, purché non riguardino le parti strutturali dell’edificio.

A prima vista si potrebbe ritenere che la nuova definizione – quando si riferisce al frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico – debba necessariamente comprendere le nuove porte interne e lo spostamento di pareti ma, approfondendo un po’ di più la questione, risulta essenziale la precisazione che porte e pareti, per restare nell’ambito della manutenzione straordinaria, non devono coinvolgere le parti strutturali dell’edificio.

Invece, è da ritenere assimilata alla manutenzione straordinaria, ma pur sempre distinta da essa, la previsione dell’art. 6, comma 2, lettera e-bis, del testo unico dell’edilizia, (pure essa innovata dall’art. 17, comma 1, lettera c, del decreto-legge n. 133/2014 e mantenuta dalla legge di conversione n. 164/2014), vale a dire “le modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati adibiti ad esercizio d’impresa, sempre che non riguardino le parti strutturali, ovvero le modifiche della destinazione d’uso dei locali adibiti ad esercizio d’impresa”.

L’assimilazione è determinata da due considerazioni: da un lato, sono previste, analogamente alla manutenzione straordinaria, modifiche interne alle superfici coperte dei fabbricati adibiti ad attività imprenditoriali, distinguendosi però per quanto riguarda il mutamento della destinazione d’uso, che non è consentito nella manutenzione straordinaria; dall’altro lato, gli interventi di cui all’art. 6, comma 2, tanto alla lettera a, quanto alla lettera e-bis, sono assoggettati all’identico regime di comunicazione asseverata di inizio dei lavori da presentare all’amministrazione comunale.

5. La restrizione degli interventi di ristrutturazione edilizia assoggettati al permesso di costruire. – L’ampliamento degli interventi di manutenzione straordinaria, che ora comprendono anche lavori in passato considerati di ristrutturazione edilizia, ha comportato necessariamente la modificazione, in senso restrittivo, degli interventi di ristrutturazione edilizia subordinati al rilascio del permesso di costruire disciplinati dall’art. 10 del testo unico dell’edilizia.

In precedenza alcune disposizioni legislative avevano già modificato il suddetto art. 10, adesso l’art. 17, comma 1, lettera d, del decreto-legge “Sblocca Italia” (non modificato dalla legge di conversione n. 164/2014) elimina ogni riferimento, nell’ambito della ristrutturazione edilizia, all’aumento delle unità immobiliari o delle superfici dei singoli edifici, proprio perché detti interventi sono trasmigrati nella manutenzione straordinaria.

In seguito a siffatte amputazioni, la nuova definizione degli interventi di ristrutturazione edilizia subordinati al permesso di costruire, contenuta nel modificato art. 10 del testo unico dell’edilizia, è la seguente: “gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni”.

6. La manutenzione straordinaria e la questione del mutamento della destinazione d’uso originaria. – Il concetto di manutenzione straordinaria non ha mai tollerato il mutamento della destinazione d’uso dei fabbricati oggetto di intervento. La esclusione del cambio di destinazione era già presente nell’art. 31 della legge 457/1978 e nell’art. 3 del testo unico dell’edilizia.

Qualche problema sorge, invece, con il decreto “Sblocca Italia” e persiste dopo la sua conversione in legge per effetto dell’art. 17, comma 1, lettera n, che introduce nel testo unico dell’edilizia l’art. 23-ter, avente ad oggetto il mutamento d’uso urbanisticamente rilevante.

In base al nuovo art. 23-ter, fatte salve le diverse disposizioni che possono essere contenute nelle leggi regionali, il mutamento della destinazione d’uso urbanisticamente rilevante consiste in qualsiasi forma di utilizzazione di un immobile o di una singola unità immobiliare diversa da quella originaria e tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra le seguenti cinque: a) residenziale, a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale.

L’apparente stranezza della lettera a-bis, inserita tra le lettere a) e b) e dedicata alla destinazione turistico-ricettiva, dipende dalla circostanza che la versione originaria del decreto-legge n. 133/2014 aveva indicato soltanto quattro categorie funzionali, mettendo insieme, nella prima categoria, la destinazione residenziale e quella turistico-ricettiva.

Molto probabilmente, in sede di conversione in legge, è prevalsa la considerazione che la destinazione residenziale abbinata alla destinazione turistico-ricettiva sotto una unitaria categoria poteva indurre un albergatore – per fare un esempio – a frazionare un hotel in più appartamenti residenziali senza effettuare un mutamento urbanisticamente rilevante. Oppure – secondo esempio ed ipotesi inversa alla precedente – il proprietario di un edificio articolato in più appartamenti residenziali avrebbe potuto trasformarlo in un albergo senza dar vita ad un mutamento urbanisticamente rilevante.

Il principale problema che pone l’art. 23-ter è dato dall’innovazione delle categorie funzionali di destinazione d’uso.

L’art. 2 del Decreto interministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi, da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della legge n. 765 del 1967) induceva ad immaginare le seguenti essenziali categorie di destinazioni d’uso: residenziale, produttiva (intesa come industriale e artigianale), agricola, attrezzature ed impianti di interesse generale.

L’art. 10 della legge 28 gennaio 1977, n. 10 si basava sulle seguenti essenziali categorie funzionali: produttiva (attività artigianali o industriali); turistica, commerciale e direzionale; agricola.

Adesso, come già accennato, l’art. 23-ter, a differenza delle disposizioni sopra citate, affronta esplicitamente la questione delle categorie funzionali urbanisticamente rilevanti e perentoriamente le suddivide in a) residenziale, a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale.

Però non si capisce perché la destinazione produttiva debba convivere con la destinazione direzionale, facendo pensare ad uffici e studi professionali in mezzo ai capannoni industriali e artigianali, mentre in passato erano separate e non si capisce perché, d’ora in poi, la destinazione commerciale dovrà essere separata dalla direzionale.

In luogo della destinazione d’uso agricola, individuata persino 46 anni fa dal decreto del 1968, appare ora, con una terminologia più arcaica, la destinazione rurale. Il cambiamento di terminologia ha degli effetti sostanziali? Speriamo proprio di no e che, quindi, la categoria funzionale “rurale” venga intesa come sinonimo di “agricola”.

E’ completamente sparita la destinazione ad attrezzature ed impianti di interesse generale e, anche in questo caso, bisogna augurarsi che ciò non comporti la possibilità di trasformare le relative aree in residenze o altre destinazioni e l’irrilevanza urbanistica di detti mutamenti di destinazione.

Per fortuna il comma 1 dell’art. 23-ter esordisce facendo salve le diverse disposizioni che possono essere contenute nelle leggi regionali, e ciò consentirà di porre rimedio alle incongruenze sopra rilevate.

Inoltre, il nuovo art. 23-ter, anche dopo la conversione in legge, qualifica come “urbanisticamente rilevanti” i cambiamenti di categoria funzionale pure quando non sono accompagnati dall’esecuzione di opere edilizie.

La rilevanza urbanistica del mutamento di destinazione d’uso senza opere farà sorgere parecchi interrogativi, a meno che (anche in questo caso) non vi pongano rimedio le leggi regionali: ad esempio, in caso di morte dell’imprenditore agricolo, gli eredi abitanti nella stessa unità immobiliare del defunto, dovranno svolgere attività agricola oppure, se si limitano soltanto a risiedervi, si dovrà ritenere che vi è il passaggio urbanisticamente rilevante dalla destinazione rurale a quella residenziale?

Rispetto alla scelta effettuata dall’art. 23-ter, appare di gran lunga migliore la soluzione, finora condivisa dalla giurisprudenza prevalente, orientata nel senso dell’onerosità del mutamento di destinazione d’uso senza opere ogniqualvolta esso determini un aumento del carico urbanistico e quindi degli standard urbanistici.

Cons. Stato, Sez. V, 13 febbraio 1993, n. 245; Cons. Stato, Sez. V, 2 febbraio 1995, n. 180; Cons. Stato, Sez. V, 27 dicembre 2001, n. 6411; Cons. Stato, Sez. V, 22 marzo 2010, n. 1650; Cons. Stato, Sez. IV, 14 ottobre 2011, n. 5539; Cons. Stato, Sez. VI, 1 ottobre 2014, n. 4875, invocano il costante e pacifico principio giurisprudenziale in base al quale il mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante è solo quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, posto che nell’ambito delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistico costruttivi, stanti le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell’ambito della medesima categoria.

Cass. penale, Sez. III, 3 luglio 2014, n. 31465, afferma la giurisprudenza di questa Corte ha, invero, costantemente ritenuto che il mutamento della destinazione d’uso che comportasse una traslazione non precaria dell’immobile da una ad un’altra categoria urbanistica (uso residenziale, uso agricolo, uso industriale, uso commerciale) richiedesse, ai sensi del combinato disposto della legge 28 febbraio 1985, n. 47, artt. 8, 25 e 26, il rilascio di concessione edilizia, stante l’incidenza sui carichi urbanistici (Cass. penale, Sez. III, 22 novembre 2001, n.45119). Il mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante è solo quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, da individuarsi tenendo conto della destinazione indicata nell’ultimo titolo abilitativo relativo all’immobile ovvero della sua tipologia, nonché delle attitudini funzionali che il bene stesso viene ad acquisire. Sicché il mutamento di destinazione d’uso è assoggettato a D.I.A. (ora SCIA), purché però intervenga nell’ambito della stessa categoria urbanistica; mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d’uso sia eseguito nei centri storici, anche all’interno di una stessa categoria omogenea (Cfr. Cass. pen., Sez. III, 13 dicembre 2013, n.5712; Cass. pen., Sez. III, 8 febbraio 2012, n. 4943).

Confusionario anche il comma 3 del nuovo art. 23-ter. In sede di conversione è stato aggiunto all’inizio un nuovo periodo che recita: “Le regioni adeguano la propria legislazione ai princìpi di cui al presente articolo entro novanta giorni dalla data della sua entrata in vigore. Decorso tale termine, trovano applicazione diretta le disposizioni del presente articolo”.

Questa aggiunzione è mal congegnata: era sufficiente quanto già previsto dal comma 1 del medesimo articolo che fa salve le diverse disposizioni che possono essere contenute nelle leggi regionali. Adesso, ci sono due indicazioni contrastanti: da un lato, viene accettato quanto già disposto dalle leggi regionali; dall’altro lato, occorrono nuove leggi regionali che accolgano i principi, abbastanza discutibili, contenuti nell’articolo in esame.

Per il resto il comma 3 dell’art. 23-ter mantiene immutata la formulazione già contenuta nel decreto-legge Sblocca Italia: “Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali, il mutamento della destinazione d’uso all’interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito”.

Pertanto, ritornando al nuovo concetto di manutenzione straordinaria, bisogna ritenere che anche essa potrà comportare mutamenti di destinazione d’uso purché siano mantenuti nell’ambito della stessa categoria funzionale, senza assurgere al rango di mutamenti urbanisticamente rilevanti. Ciò ovviamente salva diversa e più restrittiva disposizione contenuta nelle leggi regionali o negli strumenti urbanistici comunali.

7. La possibile variazione anche in aumento del carico urbanistico. – Nel paragrafo 4 si è detto della inclusione, nella definizione degli interventi di manutenzione straordinaria, dei frazionamenti e degli accorpamenti delle unità immobiliari con esecuzione di opere, anche se comportano la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico, purché non venga modificata la volumetria complessiva degli edifici e resti ferma l’originaria destinazione d’uso.

La manutenzione straordinaria può, dunque, comportare variazioni del carico urbanistico. In questo modo esordisce per la prima volta nella legislazione statale, con una forte carica dirompente (giacché persino la manutenzione straordinaria può forzare il carico urbanistico) la nozione di “carico urbanistico”, dopo essere stata utilizzata ampiamente dalla legislazione regionale.

E’ vero che del carico urbanistico già faceva menzione l’art. 10, comma 3, del testo unico dell’edilizia, prevedendo che “Le regioni possono altresì individuare con legge ulteriori interventi che, in relazione all’incidenza sul territorio e sul carico urbanistico, sono sottoposti al preventivo rilascio del permesso di costruire”.

Però si trattava di un rinvio alla legislazione regionale, mentre ora il carico urbanistico debutta direttamente nella legislazione statale: i frazionamenti e gli accorpamenti, compresi nella manutenzione straordinaria, possono tranquillamente comportare una variazione del carico urbanistico ed apparentemente senza alcun limite.

Per comprendere meglio che cosa si intende con “carico urbanistico”, possiamo avvalerci della giurisprudenza: Cass. penale, Sez. III, 27 novembre 2012, n. 11544, afferma: la nozione di “carico urbanistico” deriva dall’osservazione che ogni insediamento umano è costituito da un elemento c.d. primario (abitazioni, uffici, opifici, negozi) e da uno secondario di servizio (opere pubbliche in genere, uffici pubblici, parchi, strade, fognature, elettrificazione, servizio idrico, condutture di erogazione del gas) che deve essere proporzionato all’insediamento primario, ossia al numero degli abitanti insediati ed alle caratteristiche dell’attività da costoro svolte. Quindi, il carico urbanistico è l’effetto che viene prodotto dall’insediamento primario come domanda di strutture ed opere collettive, in dipendenza del numero delle persone insediate su di un determinato territorio. Si tratta di un concetto, non definito dalla vigente legislazione, ma che è in concreto preso in considerazione in vari istituti del diritto urbanistico, tra i quali: a) gli standard urbanistici di cui al D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, che richiedono l’inclusione, nella formazione degli strumenti urbanistici, di dotazioni minime di spazi pubblici per abitante a seconda delle varie zone; b) la sottoposizione a concessione [oggi a permesso di costruire] e, quindi, a contributo sia di urbanizzazione che sul costo di produzione, delle superfici utili degli edifici, in quanto comportino la costituzione di nuovi vani capaci di produrre nuovo insediamento; c) il parallelo esonero da contributo di quelle opere che non comportano nuovo insediamento, come le opere di urbanizzazione o le opere soggette ad autorizzazione.

Pure i giudici amministrativi pongono in evidenza che il carico urbanistico comporta un adeguamento degli standard urbanistici (in tal senso, tra le tante sentenze: T.A.R. Liguria, Sez. I, 7 febbraio 2011, n. 243; Consiglio di Stato, Sez. IV, 7 giugno 2012, n. 3381), vale a dire degli spazi riservati alle attività collettive, al verde pubblico e ai parcheggi.

La sentenza da ultimo citata del Consiglio di Stato sottolinea la necessità di preservare la potestà programmatoria nonché l’effettivo controllo del territorio di competenza delle amministrazioni comunali, al fine di garantire una ordinata pianificazione urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei correlativi standard compatibile con le esigenze di finanza pubblica.

Tanto premesso, non si può fare a meno di osservare che la nuova definizione della manutenzione straordinaria comprende interventi comportanti la variazione anche in aumento del carico urbanistico. In particolare, un elevato numero di frazionamenti in una determinata zona dei territori comunali condurrà ad evidenti forzature del carico urbanistico senza che i Comuni possano impedirlo.

E’ vero che la manutenzione straordinaria (v. paragrafo 8) può rivelarsi onerosa, comportando il pagamento di un contributo commisurato all’incidenza delle opere di urbanizzazione, però è anche vero che il contributo è calcolato, molto spesso, in importi del tutto insufficienti rispetto ai costi effettivi delle urbanizzazioni e, soprattutto, che i Comuni, in grandissima parte versando in gravissima crisi economica e finanziaria, non sono vincolati a spendere per maggiori opere di urbanizzazione le somme introitate a titolo di contributi di costruzione. Inoltre, non sempre è possibile in determinate aree, quelle più urbanizzate, realizzare ulteriori spazi da destinare al verde pubblico, alle attività collettive e ai parcheggi.

8. La parziale onerosità del contributo di costruzione. – Occorre premettere che, per le tre categorie di interventi subordinati al rilascio del permesso di costruire (interventi di nuova costruzione, di ristrutturazione urbanistica e (nei casi di cui si è detto nel paragrafo 5) di ristrutturazione edilizia, gli interessati debbono, di solito, versare un contributo di costruzione articolato in due parti: la prima commisurata all’incidenza degli oneri di urbanizzazione e la seconda al costo di costruzione, con le modalità indicate nell’art. 16 del testo unico dell’edilizia e successive modificazioni.

Invece, per gli interventi di manutenzione straordinaria, anche perché non sono subordinati a rilascio del permesso di costruire, non era dovuto il contributo di costruzione. In tal senso era molto preciso l’art. 9, comma 1, lettera c), della legge n. 10/1977.

Le novità sono iniziate con l’originaria versione del decreto-legge Sblocca Italia che, mediante l’art. 17, comma 1, lettera h, modificava l’art. 17, comma 4, del testo unico dell’edilizia, prevedendo il pagamento del contributo di costruzione anche per la manutenzione straordinaria, sia pure nella sola parte commisurata all’incidenza delle opere di urbanizzazione.

La disposizione, indubbiamente mal formulata, rischiava di rendere oneroso qualsiasi intervento di manutenzione straordinaria, disincentivando fortemente i soggetti interessati.

Adesso, in seguito alla conversione in legge, il modificato art. 17, comma 4, del testo unico dell’edilizia stabilisce: “Per gli interventi da realizzare su immobili di proprietà dello Stato, nonché per gli interventi di manutenzione straordinaria di cui all’art. 6, comma 2, lettera a, qualora comportanti aumento del carico urbanistico, il contributo di costruzione è commisurato alla incidenza delle sole opere di urbanizzazione, purché ne derivi un aumento della superficie calpestabile”.

Pertanto, un intervento di manutenzione straordinaria comporta il pagamento del contributo di costruzione commisurato all’incidenza delle opere di urbanizzazione in presenza di due condizioni: a) aumento del carico urbanistico; b) aumento della superficie calpestabile.

Una prima questione consiste nello stabilire che cosa intendere per “superficie calpestabile” e se questa sia diversa dalla “superficie utile”, considerato che il testo unico dell’edilizia, come modificato dalla legge n. 164/2014, utilizza attualmente tutti e due i concetti.

Fortunatamente, i due concetti definiscono una identica situazione, tanto è vero che spesso si parla di “superficie utile calpestabile”: in base all’art. 3 del decreto ministeriale (Lavori pubblici) 10 maggio 1977, n. 801, per “superficie utile abitabile si intende la superficie di pavimento degli alloggi misurata al netto di murature, pilastri, tramezzi, sguinci, vani di porte e finestre, di eventuali scale interne, di logge di balconi”. Per la circolare del ministero dei lavori pubblici 23 luglio 1960, n.1820,la superficie utile “è la somma delle superfici di pavimento dei singoli vani dell’alloggio, esclusi i balconi, le terrazze, gli armadi a muro, le cantine, le soffitte non abitabili, tutti gli eventuali spazi comuni e le superfici comprese negli sguinci”.

9. La comunicazione di inizio dei lavori e una difficilissima asseverazione. – L’art. 6 del testo unico dell’edilizia, già rimaneggiato da leggi precedenti, subisce ora parecchie modifiche ad opera dell’art. 17, comma 1, lettera c, del decreto-legge “Sblocca Italia” convertito, con ulteriori modificazioni dalla legge n. 164/2014.

In particolare, tutti gli interventi di manutenzione straordinaria, secondo la nuova definizione illustrata nel paragrafo 4, possono essere eseguiti senza necessità di titoli abilitativi edilizi (vale a dire che non sono necessari il permesso di costruire o la segnalazione certificata di inizio attività) ma è sufficiente che il soggetto interessato trasmetta all’amministrazione comunale l’elaborato progettuale e la comunicazione, anche in via telematica, dell’inizio dei lavori.

La comunicazione deve essere asseverata da un tecnico abilitato che, sotto la propria responsabilità, attesti la conformità dei lavori rispetto agli strumenti urbanistici approvati e ai regolamenti edilizi vigenti, nonché la loro compatibilità con la normativa in materia sismica e con quella sul rendimento energetico nell’edilizia. Il tecnico deve inoltre attestare che i lavori non interessano le parti strutturali dell’edificio. La comunicazione deve, infine, contenere i dati identificativi dell’impresa che realizzerà gli interventi.

Identica trasmissione deve essere fatta per le modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati adibiti ad esercizio d’impresa, sempre che non riguardino le parti strutturali, ovvero le modifiche della destinazione d’uso dei locali adibiti ad esercizio d’impresa.

A differenza di quanto previsto, per la comunicazione di inizio dei lavori, dall’originaria versione del decreto-legge Sblocca Italia, in sede di conversione sono stati opportunamente aggiunti: la trasmissione all’amministrazione comunale anche dell’elaborato progettuale (la cui omissione avrebbe reso impossibile il controllo degli uffici comunali sulle opere da realizzare) e la estensione della asseverazione del tecnico abilitato alla compatibilità dei lavori con la normativa in materia sismica e con quella sul rendimento energetico nell’edilizia.

La comunicazione di inizio dei lavori, purché integrata con la comunicazione di fine dei lavori, è valida anche ai fini dell’aggiornamento catastale ed è tempestivamente inoltrata da parte dell’amministrazione comunale ai competenti uffici dell’Agenzia delle entrate.

La mancata comunicazione dell’inizio dei lavori di cui al comma 2 dell’art. 6 in esame, ovvero la mancata comunicazione asseverata dell’inizio dei lavori di cui al comma 4 del medesimo articolo, comportano la sanzione pecuniaria pari a 1.000 euro. La sanzione è ridotta di due terzi se la comunicazione è effettuata spontaneamente quando l’intervento è in corso di esecuzione.

Merita, infine, una precisazione l’adempimento del tecnico che deve, tra l’altro, attestare che i lavori non interessano le parti strutturali dell’edificio; però, come si è avuto modo di verificare nei paragrafi precedenti, la definizione legislativa della manutenzione straordinaria inizia affermando che sono “interventi di manutenzione straordinaria, le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici …”.

Per non mettere il tecnico in una situazione impossibile, bisogna concludere che anche l’art. 6, comma 4, del testo unico dell’edilizia è mal formulato e, per dare un senso coerente alla attestazione del tecnico, è necessario riconoscere che questi potrà attestare che, fatta eccezione per gli interventi necessari a rinnovare e sostituire determinate e specificate parti strutturali di un fabbricato, non vengono effettuati altri lavori che interessano le parti strutturali del medesimo fabbricato.

Lorenzotti Fabrizio

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