Attività del fisco e interessi legittimi

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1. Le situazioni giuridiche soggettive attive del contribuente di fronte all’agire dell’Autorità fiscale
 
<< Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge >>.
La riserva di legge di cui all’art. 23 della Costituzione pone in luce l’assenza dell’intermediazione dell’Autorità fiscale[1] nella determinazione dell’imposta.
Dalla mancanza del diaframma che permette all’Amministrazione finanziaria di effettuare valutazioni di opportunità – convenienza, ne discende che il contribuente vanta, davanti all’Autorità pubblica, una situazione giuridica soggettiva riconducibile non ad un mero interesse legittimo, bensì ad un vero e proprio diritto soggettivo finalizzato alla pretesa corretta determinazione del tributo([2]) ([3]).
L’attività del Fisco, tuttavia, è particolarmente complessa.
Al segmento di attività che si prefigge, in senso stretto, l’emanazione del provvedimento impositivo, o meglio, dell’avviso di accertamento[4], in cui al Fisco è preclusa ogni scelta dispositiva di matrice economico – sostanziale del carico tributario e dove, per tale ragione, il contribuente vanta il diritto soggettivo alla giusta imposizione[5], si accosta sia il segmento di attività che lo precede, finalizzato allo svolgimento dell’attività istruttoria, dove, di massima, si svolgono le indagini fiscali, sia quello che lo segue, volto alla riscossione del credito tributario.
Tanto nella fase delle indagini, rectius, fase conoscitiva in quanto finalizzata all’acquisizione di informazioni e conoscenze fiscalmente rilevanti, quanto in quella della riscossione, entrambe separate da una netta linea di demarcazione riferibile alla fase << intermedia >> accertativa[6], l’Autorità fiscale dispone, normalmente, di un ampio margine discrezionale in ordine alle proprie scelte, finalizzato alle migliori soluzioni rispondenti a criteri di buon andamento ed imparzialità (art. 97 Cost.) e che, per questo, è idoneo a far nascere in capo al contribuente la pretesa a che l’Amministrazione finanziaria operi legittimamente. Qui, adoperando una terminologia amministrativistica trasposta nel diritto tributario, il margine discrezionale di attività, riconducibile all’Amministrazione finanziaria, è dettato da norme di azione, ossia relative all’esercizio del potere che conferiscono sì poteri dispositivi di interessi, ma non di quelli di matrice economico – sostanziale, riservati alle scelte di indole politica. Il contribuente, pertanto, vanta una posizione di interesse legittimo.
Di contro, si verte in tema di norme di relazione allorquando queste disciplinano direttamente gli aspetti economico – sostanziali della prestazione tributaria, non conferendo margini dispositivi di interessi all’Amministrazione finanziaria, la quale è parte di un rapporto intersoggettivo paritetico, non essendole riconosciuto un particolare potere di supremazia nei riguardi del singolo. Il risultato (il bene) cui il contribuente tende, è garantito in modo diretto dalla norma, in assenza del vaglio amministrativo, che non c’è, appunto. A fronte della norma di relazione, finalizzata a risolvere conflitti intersoggettivi di interessi in un contesto paritario, il contribuente è titolare di diritti soggettivi.
Lo spazio di valutazione che si riscontra nelle fasi dell’istruzione e dell’esazione del tributo, in cui l’Autorità fiscale non abbandona il potere pubblico, che esercita nel rispetto di parametri di imparzialità e trasparenza, non è incompatibile con la riserva di cui all’art. 23 Cost., non comportando decisioni che incidono sulle scelte sostanziali dell’imposizione tributaria, riservate al Legislatore([7]) ([8]).
L’Autorità fiscale ha altresì margini di operatività discrezionale che, pur non interessando necessariamente la fase istruttoria oppure quella finalizzata alla riscossione del credito tributario, può tuttavia adottare in circoscritti contesti, dove vengono effettuati contemperamenti di interessi di origine pubblicistica e privatistica che nulla hanno a che vedere con le scelte di politica economica alla giusta determinazione della pressione tributaria, ma che comunque possono implicare, per esempio, scelte di opportunità per una celere definizione dei rapporti fiscali in correlazione al presunto gettito tributario, o all’economicità dell’impiego delle pubbliche risorse, o all’effetto suadente dei controlli, ecc., in cui, comunque, essa << non fa politica >>.
La stessa normativa tributaria ha introdotto istituti che attribuiscono al Fisco un certo margine valutativo in ordine ad alcune scelte prese in fase accertativa, che comunque non sono ragguagliabili ad << atti dispositivi del credito tributario >>, dunque a scelte riguardanti aspetti economico – sociali coinvolti nel prelievo, riservate, è noto, alla legge.
Tanto accade nell’<< avviso di accertamento con adesione >>[9], per esempio: attraverso tale istituto l’Ufficio fiscale può concordare in contraddittorio con il contribuente il quantum dovuto di una determinata imposta, comparando costi e benefici, in specie correlando l’interesse del Fisco per un corretto adempimento tributario, da parte del contribuente, alle conseguenze negative che potrebbero derivare da un lungo contenzioso o comunque legate alla possibilità di una soccombenza in ambito processuale. Pur non essendo esercitata alcuna attività discrezionale dispositiva di interessi economico – sociali, tuttavia le scelte sono dirette alla tutela dell’interesse per un efficiente governo della controversia, al fine di una quanto più possibile sicura riscossione del credito tributario.
L’eccessivo disinvolto utilizzo di tale margine valutativo, tuttavia, soffre della riserva di legge consacrata nell’art. 23 Cost.: in alcuni contesti, infatti, la giurisprudenza della Corte dei conti ha ritenuto censurabile il comportamento del funzionario dell’Ufficio fiscale che, attraverso la procedura volta all’emissione dell'<< avviso di accertamento con adesione >>, non avendo tenuto nella dovuta considerazione i rilievi compendiati nell’atto di indagine endoprocedimentale – il processo verbale di constatazione – redatto dall’organo investigativo, si sia arrogato una discrezionalità che la norma non gli attribuisce, travalicando i << paletti >> posti in essere dal principio di legalità nel diritto tributario, di cui, giustappunto, all’art. 23 della Costituzione[10].
Di recente è la Corte di Cassazione a Sezioni Unite[11], che richiamando un proprio precedente indirizzo[12], si è espressa riconoscendo che l’Amministrazione fiscale non si pronuncia esclusivamente con provvedimenti che sono l’espressione di poteri vincolati ma anche con atti espressione di una certa discrezionalità, come nell’ipotesi dell’ << autotutela >> [13].
In genere emerge manifestazione di discrezionalità ogni volta in cui l’Autorità fiscale si esprime attraverso pure forme di esternazione del potere pubblicistico, alle quali fanno da contraltare vincoli di imparzialità, trasparenza e buon andamento; si annoverano, a titolo esemplificativo: – il << fermo amministrativo >> (art. 69, ultimo comma, R.D. 18 novembre 1923, n. 2440), misura cautelare con cui l’Amministrazione finanziaria (al pari di ogni altra pubblica amministrazione) sospende un rimborso di un credito, anche se certo, liquido ed esigibile, nel caso in cui il contribuente risulta debitore, ancorché per un debito contestato, nei riguardi della stessa Amministrazione o di altre; – i provvedimenti di sospensione in via cautelare dei rimborsi di crediti d’imposta, ex art. 23, D. Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472; – il diniego di sospensione in via cautelare del ruolo, di cui all’art. 39 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602; – l’iscrizione di ipoteca e di fermo di beni mobili registrati di cui all’art. 19, lettere e-bis), e-ter), D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546; – le decisioni volte alla sospensione della riscossione in pendenza di ricorso o di concedere rateazioni di maggiori tributi da pagare, allo scopo, in quest’ultimo caso, di non pregiudicare il normale svolgimento dell’attività imprenditoriale o di non incidere sul livello occupazionale[14]; – la decisione di organizzare in un modo, oppure in un altro, i vari uffici secondo parametri di efficienza; – la decisione di formulare o meno un rilievo comparativamente alla sua resistenza in un eventuale contenzioso, ecc.[15].
Va da sé che l’esercizio delle scelte discrezionale deve avvenire, così come nel diritto amministrativo, in ossequio alle regole di legittimità e di merito, identificandosi le prime, come noto, sia nelle norme che attribuiscono il potere discrezionale medesimo, sia in quelle che derivano dai parametri ai quali deve necessariamente informarsi la scelta amministrativa (interesse e causa pubblica, canoni di logicità ed imparzialità, principio di completa informazione, principio del minimo mezzo), mentre le regole di merito si sostanziano nella conformità delle scelte discrezionali alle regole non giuridiche di buona amministrazione ed esprimono l’opportunità e la convenienza del provvedimento amministrativo, allo scopo di assicurare l’efficienza e l’economicità dell’azione della pubblica amministrazione[16].
 
2. La fase dell’attività << vincolata >> dalla riserva di legge ex art. 23 della Costituzione. Solo e sempre diritti soggettivi?
 
La riserva di legge che scaturisce dall’art. 23 della Costituzione esprime la concezione del principio di legalità inteso nel significato di conformità sostanziale del provvedimento alla legge: l’azione amministrativa non solo deve rispettare i vincoli formali della legge ma deve sottostare, altresì, alle regole sostanziali dettate dalla stessa, la quale incide anche sulle modalità dell’esercizio dell’azione penetrando all’interno dell’esercizio del potere[17]; l’imposizione è attribuita all’organo più rappresentativo del volere dei cittadini ed a cui fa capo il compito di indirizzo politico, ossia il Parlamento, derivandone che << no taxation without representation >>[18].
La riserva è relativa in quanto il Legislatore, ponendo le basi della materia, non vieta al potere esecutivo di adottare alcune scelte idonee a completarla (si badi, << solo alcune scelte >>, nei termini che seguiranno); non è necessario che la materia sia interamente regolata dalla legge ma è sufficiente che questa ne indichi gli aspetti minimali al di sotto dei quali la delega debba ritenersi rispettata. Le decisioni di fondo, riguardanti la ripartizione del carico tributario, alla luce di criteri di meritevolezza politica, sociale ed economica, che danno vita all’esteso settore del diritto tributario << materiale >>[19], sotteso alla costruzione ed all’individuazione delle fattispecie sostanziali, fanno capo esclusivamente al Parlamento[20] il quale, del resto, è vincolato da una parte ai valori di politica sociale e di redistribuzione reddituale, insiti nello spirito costituzionale, dall’altra alla funzione istituzionale legata al vincolo democratico[21]; in questi termini è da interpretare la riserva de qua.
Anche quando la legge sostanziale è vaga, imprecisa, lacunosa, comunque non è data all’Autorità fiscale la potestà di inasprire o alleviare il prelievo: essa è priva di un potere di supplenza politica, nel senso di una valutazione dispositiva di meritevolezza degli interessi economico-sociali. E’ in questo divieto che sta la vincolatezza dell’imposta[22]. In altre parole il Fisco non può sostituirsi al Legislatore distratto, al quale è precluso di spogliarsi dei compiti che la Costituzione gli attribuisce in maniera esclusiva. In casi del genere l’Autorità fiscale può svolgere unicamente mansioni interpretative alla stessa stregua del giudice e, se la legge ha ad oggetto aspetti valutativi di rilevanza sociale, economica e politica, essa non può attribuire una scala di priorità degli interessi in gioco che << deve guardare attraverso il diaframma delle scelte legislative >>, essendole preclusa ogni sorta di comparazione degli stessi. L’infrazione di questo divieto sottopone a censure l’Amministrazione finanziaria per essersi arrogata il potere di direzione politica che non le compete([23]) ([24]).
Il Legislatore, inoltre, a cui è riservata la materia ex art. 23 Cost., nel determinare il presupposto del tributo è obbligato, costituzionalmente, al rispetto del principio della capacità contributiva[25], in cui è insito un limite massimo della misura del tributo stesso. Spetta alla sua discrezionalità stabilire gli aspetti essenziali, sia per quanto riguarda l’an, sia il quantum debeatur (aliquota e base imponibile), rispettando sempre i limiti della ragionevolezza ed in considerazione di tutti i tributi che gravano su una determinata manifestazione di ricchezza[26].
Il contribuente, dunque, ha il << diritto soggettivo a non essere obbligato a prestazioni patrimoniali all’infuori dei casi contemplati dalla legge >>[27], in cui, mancando il diaframma valutativo dell’Autorità fiscale, si pone nei riguardi di questa alla stessa stregua della posizione di qualsiasi altro soggetto destinatario di un atto della Pubblica amministrazione che non sia espressione di poteri discrezionali ma che, se non impugnato, ha l’attitudine a consolidarsi.
Al riguardo, l’orientamento in dottrina, peraltro dominante, che ravvede, giustappunto, un diritto soggettivo in capo al contribuente, fa capo alla cosiddetta << teoria dichiarativa >>, secondo la quale le norme tributarie sono norme materiali poiché fanno derivare direttamente dal presupposto gli effetti obbligatori che tipizzano il tributo. Gli effetti prodotti dall’avviso di accertamento, dunque, non costituiscono il rapporto di imposta ma sono meramente dichiarativi di una obbligazione già sorta in forza di legge. L’atto da impugnare, alla luce di tale teoria, non ha natura provvedimentale e rappresenta, secondo una visione riduttiva, unicamente lo strumento attraverso il quale la Pubblica amministrazione avanza le sue pretese: ogni qualvolta il contribuente non dovesse ritenerlo in linea con l’obbligazione sorta per legge, potrà agire in giudizio per l’ottenimento di una pronuncia di solo accertamento dell’an e del quantum del tributo, a fronte della lesione del suo diritto soggettivo ad ottenere una giusta imposizione[28].
Invero, la posizione che ravvede l’esistenza di un interesse legittimo del contribuente, cosiddetta << teoria costitutiva >>, reputa che l’atto impugnato rappresenti l’espressione di un potere pubblico che non si prefigge di accertare una preesistente situazione giuridica, ma di costituirla. Le norme tributarie, dunque, avrebbero una funzione strumentale all’esercizio di poteri (funzioni amministrative vincolate). In capo al contribuente corrisponderebbe una situazione giuridica soggettiva attiva di interesse legittimo, correlata alla giurisdizione di annullamento dell’atto di imposizione[29].
Altra dottrina ritiene che il contribuente non è titolare di alcuna situazione giuridica soggettiva attiva, né di diritto soggettivo, né di interesse legittimo, ma vi è solo una situazione soggettiva di potere attribuita all’Amministrazione finanziaria: a fronte di una predeterminazione normativa dell’an e del quantum del carico tributario, il diritto soggettivo alla giusta imposizione consiste solo nel diritto ad agire in giudizio allorquando, in sede di realizzazione dell’imposizione, venga superato il quantum impositivo predeterminato dallo standard legale. Alla stessa stregua, in termini di interesse legittimo: << c’è, prima dell’imposizione, l’interesse legittimo a che l’amministrazione osservi le norme, c’è, dopo, il potere di agire in giudizio, per ottenere la rimozione dell’atto di imposizione >>. Insomma, la situazione giuridica di interesse legittimo o di diritto soggettivo prima dell’imposizione sarebbe esclusivamente il modo di vedere le norme tributarie nell’ottica del contribuente[30].
 
3. La pretesa del contribuente alla legittimità dell’attività del Fisco. Casistica e qualche riflessione sulla responsabilità da risarcimento in diritto tributario
 
All’assenza di un’attività dispositiva degli interessi di matrice economico – sociale durante tutta la fase accertativa si contrappone, dunque, la fase delle indagini in cui la discrezionalità del Fisco assume ambiti estremamente significativi, alla luce degli ordinari parametri amministrativistici, cui si è fatto cenno, in specie dell’imparzialità e del buon andamento, sotto la cui egidia devono essere comparati i vari interessi in discussione. L’attività d’indagine, infatti, deve essere costantemente volta ad un’analisi << costi – benefici >> che, tra l’altro, deve orientare i controlli verso determinate tipologie di contribuenti, anziché altre e, inoltre, indurre i verificatori fiscali ad abbandonare l’attività istruttoria in caso di sua improduttività operativa[31].
Inoltre, la scelta dei poteri istruttori da utilizzare deve essere svolta tenendo in giusto conto il grado di incisività dell’attività ispettiva sulla sfera giuridica del contribuente, avuto riguardo agli interessi di quest’ultimo, tra cui quello all’ordinario svolgimento dell’attività di impresa che non deve essere inutilmente intralciato dalla presenza degli operatori del Fisco, oppure l’interesse alla riservatezza. Un’avventata attività di indagine, inoltre, potrebbe ledere il segreto professionale del soggetto controllato, oppure la privacy di terzi (è il caso di documenti medici custoditi nello studio medico ispezionato).
La ragione degli importanti poteri, per molti versi di estrazione inquisitoria, che la legislazione attribuisce al Fisco nella fase istruttoria, è finalizzata, probabilmente, a consentire agli investigatori di acquisire conoscenze su possibili fatti violativi della normativa tributaria perpetrati, naturalmente, a loro completa insaputa; sarebbe molto difficile per l’Amministrazione finanziaria poterne venire a conoscenza se non potesse esercitare penetranti attività di indagine volte a riequilibrare un rapporto che, in questa direzione, è di per sé impari.
L’esercizio di tali poteri incomoda, non raramente, diritti di carattere costituzionale, tra cui quelli legati all’inviolabilità del << domicilio >> e alla << libertà e segretezza della corrispondenza >>, ex artt. 14 e 15 Cost.. Ne deriva che il loro utilizzo da parte dell’Autorità fiscale deve essere specificamente disciplinato in sede normativa: un’introduzione in sede amministrativa, in assenza del filtro della legge, lederebbe gli importanti precetti costituzionali; probabilmente lo stesso principio ex art. 23 verrebbe intaccato nella parte in cui gli uffici Fiscali impongono comportamenti in capo al contribuenti, quali quello dell’obbligo di rispondere a questionari o di mettere a disposizione i propri documenti contabili, ecc., facendone conseguire, in caso di inosservanza, sanzioni amministrative o adempimenti coattivi[32].
In relazione ai diritto fondamentali << toccati >> dall’attività ispettiva del Fisco, parte della dottrina[33] ritiene che l’ispezione tributaria degrada tali diritti a meri interessi legittimi innanzi alla preminenza che la legge riconosce all’interesse conoscitivo di matrice pubblicistica, conseguendone che tali diritti non cessano di avere giuridica rilevanza in quanto naturalmente destinati a (ri)espandersi al termine dell’attività di ispezione fiscale. Il sacrificio del diritto intanto è legittimo in quanto l’Autorità fiscale operi nell’ambito dei canoni previsti dalla legge.
Il contribuente, quindi, di fronte ad un’attività di investigazione tributaria penetrante, in cui sono utilizzati rilevanti poteri istruttori, ha l’interesse – diverso da quello della corretta determinazione del carico tributario sotto il profilo dell’an e del quantum, per le ragioni suesposte – a che l’Autorità fiscale operi nel rispetto dei limiti di movimento che la norma gli consente, dunque che non debordi da questi, e che le consequenziali scelte discrezionali siano la risultanza di una corretta comparazione di tutti interessi in causa.
In tale direzione fondamentale importanza assume il rispetto del principio del contraddittorio: nonostante la L. n. 212/2000 – Statuto dei diritti del contribuente -, che compendia i principi generali dell’ordinamento tributario, non fa mai un espresso riferimento al contraddittorio, tuttavia il principio si coglie nell’art. 7 della L. n. 241/1990 (normativa alla quale fa sistematicamente un dinamico rinvio la L. n. 212/2000), dove al privato è consentito di partecipare al procedimento amministrativo e di prospettare i propri interessi e le eventuali soluzioni alternative, di modo da permettere all’amministrazione una ponderazione di tutti gli interessi; in questa direzione gli interessi pubblici, in genere, sono considerati in un contesto ordinamentale non più autoritario, ma in senso cooperativo, in cui i modelli di organizzazione o di azione amministrativa devono necessariamente basarsi su un approccio consensuale[34] allo scopo di consentire la migliore soluzione in sede amministrativa che, inoltre, deve essere motivata, in fatto ed in diritto, al fine di consentire al destinatario dell’azione pubblica di poter seguire le argomentazioni logico – giuridiche che sottendono la decisione presa (art. 3, L. n. 241/1990).
Prima ancora, dunque, dell’adozione dell’atto impositivo e quindi al di là di un’eventuale prospettiva processualistica, il contribuente vanta una posizione giuridica sostanziale di interesse legittimo al corretto svolgimento dell’azione amministrativa che deve essergli garantita attraverso strumenti partecipativi[35]. Inoltre, la << costituzionalizzazione dell’interesse legittimo >>, ex art. 24, primo comma Cost., implica la << costituzionalizzazione del principio del contraddittorio; e ciò in quanto alla luce dell’evoluzione della normativa tributaria, la situazione giuridica soggettiva qualificata come di interesse legittimo trova la sua genesi nel mancato rispetto del principio del contraddittorio da parte dell’Amministrazione finanziaria nella fase istruttoria >>[36] in ambito amministrativo, in genere, nel contesto tributario, in specie, è stato ritenuto assumere una funzione finalizzata a vari scopi, così sintetizzabili: – alla cura migliore dell’interesse pubblico, poiché chi partecipa arricchisce, attraverso il proprio apporto, la quantità e la qualità del materiale informativo a disposizione dell’Autorità, contribuendo decisamente all’adozione della decisione pubblica più corretta; – alla difesa dell’interesse e delle garanzie del privato nei riguardi di chi esercita il potere pubblico; – alla democratizzazione del processo decisionale, poiché chi è interessato alla decisione della Pubblica amministrazione concorre alla sua formazione[37]: ne deriva che non è possibile << ritenere privo di conseguenze il comportamento dell’Amministrazione lesivo di interessi procedimentali, a meno di privare di qualsiasi efficacia l’istituto della partecipazione e gli altri istituti procedimentali disciplinati dalla legge >>[38].. Il contraddittorio,
Si ritiene, ora, di approfondire alcuni contesti in cui, più di frequente, a fronte dell’agire del Fisco, possono emergere situazioni che rilevano ai fini della tematica in trattazione.
Si prenda in esame l’art. 12 della L. n. 212/2000, rubricato Diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, da cui emerge che l’Autorità fiscale è chiamata a dare il giusto peso anche agli interessi secondari, essendo tenuta a comparare l’interesse pubblico primario con questi ultimi, di modo che il fine primario sia realizzato con il minore sacrificio possibile degli interessi contrapposti. Il comma 1, prima parte, ad esempio, stabilisce che gli accessi, le ispezioni e le verifiche fiscali[39] possono essere condotti nei locali destinati ad attività commerciali, agricole, artistiche o professionali solo sulla base di esigenze effettive di indagini e controllo sul luogo. Se il Fisco può ottenere lo stesso esito tramite una tecnica di indagine meno invasiva per il contribuente, è quest’ultima che è tenuto ad adottare. In questa direzione viene altresì posto un freno alla permanenza, presso la sede del contribuente, degli operatori civili e militari che non può superare i trenta giorni lavorativi prorogabili, in determinati casi e previa motivazione, di ulteriori trenta giorni (comma 5, prima parte). Tanto nel contesto di cui al comma 1, prima parte, quanto in quello di cui al comma 5, prima parte, nasce in capo al contribuente l’interesse affinché il Fisco si attenga al disposto procedimentale della norma, conseguendone che un’attività di indagine tributaria che dovesse discostarsene, poiché irragionevolmente smisurata, determina un ingiustificato appesantimento dell’attività istruttoria. Il comportamento del Fisco, dunque, potrebbe assumere aspetti di censura, da una parte nella misura in cui danneggia il contribuente attraverso un ultroneo esercizio del potere investigativo, dall’altra a seguito di una immotivata permanenza dei verificatori nei locali deve si svolge l’attività economica che, per questo, potrebbe essere ostacolata e rallentata.
Si considerino le indagini bancarie e finanziarie[40]. La normativa prevede che i dati bancari e finanziari siano acquisibili da parte del Fisco unicamente a seguito della prevista autorizzazione del Direttore centrale – o regionale – dell’Agenzia delle Entrate o del Comandante regionale della Guardia di finanza. L’autorizzazione de qua ha natura amministrativa e rientra nella discrezionalità di dette autorità << concederla >> all’ufficio o al reparto operante, sulla base di valutazioni costantemente rivolte a criteri di efficienza ed economicità. Potrebbe verificarsi che a seguito dell’autorizzazione l’organo che esegue il controllo utilizzi le informazioni bancarie e finanziarie per inoltrare questionari ad operatori economici con i quali il soggetto verificato intrattiene rapporti d’affari. Non è da escludere che una potenziale operazione in procinto di definizione non vada a buon fine a causa della venuta a conoscenza, da parte dell’operatore economico, dell’indagine bancaria e finanziaria in corso.
Non tralasciando, naturalmente, la discrezionalità operativa degli investigatori affinchè utilizzino gli strumenti che più si addicono a snidare l’eventuale evasione fiscale, tuttavia ciò è legittimo a condizione che comunque vengano comparati gli interessi in causa, tra cui quello del contribuente a non subire << inutili >> interferenze nella conduzione dell’impresa. Ecco dunque che se il Fisco avesse potuto assumere la medesima informazione attraverso uno strumento di indagine, per così dire, più << discreto >>, la scelta del questionario potrebbe presentare margini di censura nella parte in cui danneggia il contribuente.
Un altro importante potere istruttorio è riferibile all’accesso eseguito in locali adibiti << esclusivamente >> ad abitazione del contribuente (l’accesso per fini fiscali, in genere, si concretizza nell’esercizio del potere di ingresso e di permanenza d’autorità in un determinato luogo, al fine dello svolgimento di attività di controllo, anche contro la volontà di chi, diversamente, avrebbe il potere di impedirlo).
A tal fini i verificatori fiscali necessitano sia dell’autorizzazione rilasciata dal capo dell’ufficio da cui dipendono (art. 52, primo comma, D.P.R. n. 633/1972), sia del Procuratore della Repubblica, il quale non può rilasciarla in base alla semplice esigenza di effettuare un controllo fiscale ma, esclusivamente, se sussistono gravi indizi di violazioni della normativa tributaria ed allo scopo di reperire elementi probatori a comprova di dette violazioni (art. 52, secondo comma). Qualora il Procuratore della Repubblica ritenga che gli indizi di violazione della normativa tributaria sussistenti, siano, tuttavia, non così gravi fino al punto di poter giustificare una compromissione della libertà domiciliare, deve rigettare la richieste di autorizzazione all’accesso attraverso un provvedimento motivato[41]. Egli svolge un’attenta comparazione degli interessi contrapposti di portata costituzionale: l’inviolabilità del domicilio, da un lato, la necessità che tutti concorrano alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva, dall’altro.
Molto sì è discusso sulla natura dell’autorizzazione che, se viziata, rileva sulla situazione giuridica di diritto soggettivo o di interesse legittimo eventualmente lesa: l’orientamento dominante la considera un provvedimento, in via sostanziale, amministrativo, che partecipa direttamente della natura amministrativa del procedimento accertativo, nel quale si inserisce, condizionandone perciò la legittimità[42]; un suo vizio, dunque, andrebbe a ledere una posizione di interesse legittimo. Ma non manca chi ritiene che il provvedimento del Procuratore della Repubblica rivesta natura amministrativa soltanto oggettiva e non anche soggettiva, poiché il magistrato non è un organo della Pubblica amministrazione, conseguendone che innanzi a tale autorizzazione il contribuente vanterebbe un diritto soggettivo[43].
Al riguardo, un valido strumento che potrebbe agevolare il compito dell’interprete in relazione alla natura della situazione giuridica del contribuente innanzi al potere amministrativo, allorquando questo verta su diritti soggettivi fondamentali, quali il diritto all’inviolabilità del domicilio, può essere ricondotto al criterio dominante attraverso il quale, attualmente, si è soliti distinguere il diritto soggettivo dall’interesse legittimo, ossia quello che attiene alla dicotomia << carenza – cattivo uso del potere >>[44], posto in relazione ad una importante pronuncia delle Sezioni Unite[45] in tema di diritto alla salute, che ha offerto lo spunto per ipotizzare un novero molto ampio di diritti soggettivi assolutamente inviolabili, sia perché riconosciuti di livello apicale dalla Carta costituzionale, sia perché riguardanti situazioni giuridiche personalissime. L’ovvia conseguenza porta all’impenetrabilità da parte dell’Autorità fiscale della posizione giuridica allorquando questa verta sull’esistenza di diritti soggettivi pieni ed incondizionati. Un’eventuale attività provvedimentale amministrativa non avrebbe, di per sé, la forza di penetrare tali diritti, per cui sarebbe inutiler data, anzi completamente nulla in quanto darebbe origine ad un comportamento radicalmente sine titulo[46]. L’Autorità fiscale, quindi, sia pur attraverso l’esercizio di un poter che si realizza attraverso atti illegittimi, non avrebbe l’attitudine, l’energia volta a degradare il diritto soggettivo in interesse legittimo. << Sul piano della dicotomia “carenza – cattivo uso del potere”, tutto ciò si tradurrebbe, pertanto, in un’ipotesi di difetto assoluto della potestà pubblicistica di provvedere >>[47] e, dunque, nessuna posizione di interesse legittimo sarebbe rilevabile.
Sotto un profilo processuale significativa è la sentenza n. 140/2007 della Corte costituzionale[48] attraverso la quale è stato superato il precedente orientamento che attribuiva al giudice ordinario la devoluzione di tutte le controversie aventi ad oggetto i diritti fondamentali degli individui. La Corte, infatti, su una questione attinente la materia urbanistica, ha precisato che il giudice amministrativo possa conoscere anche le controversie relativamente alle quali è lamentata la lesione dei diritti fondamentale a seguito del comportamento materiale della Pubblica amministrazone, espressione del potere amministrativo.
Altro spunto di riflessione scaturisce dall’esame del D. Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 22 – Ipoteca e sequestro conservativo -, secondo cui l’ufficio, o l’ente, in base all’atto di contestazione, al provvedimento di irrogazione della sanzione o al processo verbale di constatazione e dopo la loro notifica, quando sussiste il timore fondato di perdere la garanzia del proprio credito, può chiedere, con istanza motivata, al presidente della commissione tributaria provinciale l’iscrizione di ipoteca sui ben del trasgressore e dei soggetti obbligati in solido, e l’autorizzazione a procedere al sequestro conservativo dei loro beni, compresa l’azienda. In particolare il sequestro conservativo, quale misura cautelare, necessita di importanti valutazioni di ordine discrezionale in relazione al periculum in mora e al fumus boni iuris. Tale misura è prassi che venga proposta dall’organo investigativo – nonostante la legge non preveda espressamente tale proposta – all’Agenzia delle entrate, la quale rivolgerà un’istanza motivata al giudice tributario di primo grado. È intuitivo immaginare quanto sia ampia la discrezionalità di chi avanza la proposta là dove si pensi che il pericolo per la riscossione del credito erariale in relazione alla fondatezza dell’atto, si basa su di una valutazione estremamente soggettiva.
Si è dell’opinione che nonostante il vaglio del giudice tributario, comunque la misura è da ritenersi una misura di matrice amministrativistica poiché il Presidente della Commissione tributaria, ancorchè non sia un organo della Pubblica amministrazione, partecipa al procedimento amministrativo finalizzato all’adozione della misura cautelare de qua.
Ecco che di fronte ad un sequestro conservativo il contribuente si trova innanzi ad una situazione giuridica di interesse legittimo, alla luce della quale vanta la pretesa a che il potere discrezionale sia bene esercitato. L’eventuale cattivo esercizio del potere, che potrebbe danneggiarlo significativamente nello svolgimento dell’attività, data l’invadenza della misura, lo legittima ad utilizzare gli ordinari strumenti giurisdizionali avverso, giustappunto, il cattivo esercizio del potere amministrativo.
Analoga considerazione emerge dall’applicazione, da parte dell’Amministrazione finanziaria, della disposizione generale sul fermo amministrativo che consente al Fisco di bloccare i rimborsi, in specie in ambito IVA, attraverso valutazioni discrezionali che considerino, anche, il fumus boni iuris delle ragioni del credito erariale[49]
Si è fatto in precedenza cenno alla procedura che porta all’emissione dell’<< avviso di accertamento con adesione >>, in cui l’iniziativa è demandata, di norma, all’ufficio e, in alcune circostanze, anche al contribuente. L’avviso emesso attraverso tale procedura implica, ai sensi dell’art. 2, comma 5 del D. Lgs. n. 218/07, che le sanzioni irrogabili al contribuente << (…) si applicano nella misura di un quarto del minimo previsto dalla legge (…) >>.
Un’altra modalità di determinazione concordata della controversi riguarda l’<< acquiescenza >>, di cui all’art. 15 – Sanzioni applicabili in caso di omessa impugnazione – del D. Lgs. n. 218/97, che consente al contribuente, << se rinuncia ad impugnare l’avviso di accertamento o di liquidazione e a formulare istanza di accertamento con adesione >>, di pagare le somme complessivamente dovute, entro il termine per la proposizione del ricorso, usufruendo di particolari benefici, tra cui la riduzione delle sanzioni ad un quarto dell’importo irrogato, sia pur entro determinati limiti.
Tali istituti offrono al contribuente delle importanti opportunità, tra cui la significativa riduzione della sanzione; ora, se l’Autorità fiscale effettua delle proposte del tutto irrealistiche, pretestuose e contraddittorie, completamente errate ed infondate, appositamente tali allo scopo di indurre il contribuente a non considerare a priori di aderire ad alcuna determinazione concordata della controversia, attraverso i citati istituti, va da sé che quest’ultimo, probabilmente, a seguito di un ricorso riuscirà a smussare i rilievi formalizzati nell’avviso di accertamento, nella parte in cui essi risultano censurabili. Tuttavia, i presupposti capziosamente errati, in fatto ed in diritto, precludono al contribuente di poter sfruttare la possibilità che la legge stessa, attraverso detti istituti, gli offre, ossia la riduzione delle sanzioni nei termini sopra specificati. Il contribuente, dunque, vanta l’interesse legittimo ad una giusta determinazione concordata della controversia, laddove, invece, ciò gli viene negato da un comportamento del tutto irragionevole, imperniato su di un cattivo, anzi cattivissimo uso del pubblico potere che, vessandolo, viola il principio di imparzialità, denotando uno sviamento di potere. In questo modo il Fisco abuserebbe del potere conferitogli dalla norma poichè deciderebbe esso stesso, attraverso tali dietrologie, chi, di fatto, ammettere alla procedura e chi, inevitabilmente, respingere. Ma la legge non lo permette[50].
Per alcuni versi analoghe considerazioni potrebbero muoversi in relazione all’istituto dell’<< autotutela >> in ambito tributario, a cui si è fatto in precedenza cenno, che implica un intervento autonomo del Fisco oppure su istanza di parte, quando ne ricorrano i presupposti.
Non sussiste in dottrina ed in giurisprudenza concordanza in ordine alla doverosità che il Fisco ricorra a tale strumento. Si propende, al riguardo, per l’orientamento secondo cui in capo al contribuente sussiste una situazione giuridica attiva di interesse legittimo[51], poiché l’Autorità fiscale è tenuta ad effettuare la comparazione di diversi interessi, tra cui: – la portata del vizio dell’atto a mente del quale, eventualmente, essa ritenga di ritornare sui propri passi; – l’interesse alla stabilità dei rapporti giuridici; – il comportamento del contribuente; – il tempo trascorso dall’emissione dell’atto viziato; – in generale, l’interesse del contribuente a non essere illegittimamente penalizzato a seguito di un errore commesso dall’Autorità tributaria.
Una particolare insensibilità dell’Autorità fiscale, che non la porti ad esercitare il potere dovere di caducare il provvedimento errato, anche nei contesti in cui è lampante l’infondatezza dei presupposti, in fatto ed in diritto, sui quali si incardina il provvedimento stesso, pone in essere un censurabile esercizio del potere discrezionale ed una lesione della posizione di interesse legittimo del contribuente[52].
Dagli esempi riassunti emerge che l’attività del Fisco può danneggiare il contribuente indipendentemente dall’emissione del provvedimento impositivo terminale. In specie, questi vanta un interesse pretensivo ogni qualvolta possa aspirare ad ottenere un provvedimento dell’Autorità fiscale ampliativo della propria sfera giudica (è il caso, ad esempio, dell’istanza volta all’autotutela oppure all’accertamento con adesione), oppure un interesse oppositivo se destinatario di un provvedimento che sacrifica la sua sfera giuridica (con ciò si allude, in genere, a tutte le ipotesi affrontate in questa sede e riconducibili al cattivo esercizio del potere fiscale nella fase delle indagini).
Con specifico riferimento alla fase dell’istruttoria tributaria, l’eventuale illegittimità dell’attività, che potrebbe coinvolgere anche situazioni giuridiche soggettive di rango costituzionale, si sostanzia in un comportamento antigiuridico attivo in violazione di un obbligo di astensione. Ne consegue, in tal caso, che innanzi ad un potere ispettivo ritenuto << malamente esercitato >>, il contribuente dovrebbe poter esercitare l’azione inibitoria, attraverso la quale conseguire una tutela immediata, adendo il giudice amministrativo a seguito della lesione di una situazioni giuridiche soggettive attiva riconducibile ad un interesse legittimo[53]. Tale tutela è finalizzata alla sospensione dell’attività lesiva con obbligo di restituzione del materiale probatorio irritualmente acquisito e concomitante diffida ad un suo utilizzo per fini accertativi[54].
Nel contesto pratico, tuttavia, è molto raro che il contribuente ricorra alla tutela de qua in ragione del brevissimo arco di tempo in cui le attività ispettive, di per sé, per loro natura, normalmente sono compiute. La circoscritta durata di alcune di tali attività, oltre tutto, è stata relativamente di recente accuratamente disciplinata dalla L. n. 212/2000, nella parte in cui questa regolamenta l’agire dell’Amministrazione finanziaria a garanzia del contribuente (si veda, ad esempio, l’art. 12, comma 5, prima parte, a mente del quale la permanenza degli operatori civili e militari dell’Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente non può superare i tenta giorni lavorativi, prorogabili per ulteriori trenta giorni nei casi di particolare complessità dell’indagine, individuati e motivati dal dirigente dell’ufficio). È evidente che il rimedio legato all’esercizio dell’azione inibitoria sortirebbe gli effetti ad attività lesiva ormai, probabilmente, inesorabilmente conclusa[55].
Alla tutela inibitoria si accosta la tutela risarcitoria che può interessare ogni fase dell’attività dell’Autorità fiscale.
È nota l’epocale sentenza n. 500/1999 della Suprema Corte di Cassazione[56], attraverso la quale è stato abbattuto il dogma dell’irrisarcibilità dell’interesse legittimo, risarcibilità negata per anni dai Supremi giudici sul presupposto che il danno ingiusto, ex art. 2043 cod. civ., si riferisse a fatti riguardanti una situazione giuridica riconosciuta dall’ordinamento nell’esclusiva forma di diritto soggettivo perfetto[57] (è risaputo che il principio della risarcibilità dell’interesse legittimo, ad un anno dalla pronuncia de qua, è stato recepito dal Legislatore che lo ha inserito nell’ambito della riforma del processo amministrativo, attuata con la L. 21 luglio 2000, n. 205 ed iniziata con il disegno riconducibile al D. Lgs. n. 80/1998).
Antecedentemente alla pronuncia n. 500/1999 e alla L. n. 205/2000, grandi erano i vuoti di tutela che ne conseguivano a causa della posizione che negava la giurisdizione del giudice amministrativo, competente solo per l’annullamento del provvedimento, e del giudice ordinario che non avrebbe potuto pronunciarsi in relazione ad una situazione giuridica lesa di interesse legittimo.
La storica sentenza, tuttavia, come ribadito dagli stessi giudici, solo in apparenza rappresenta una brusca rottura dell’orientamento giurisprudenziale fino a quel momento consolidato, poiché << il principio della irrisarcibilità degli interessi legittimi, malgrado sia tenacemente ribadito, risulta meno granitico di quanto comunemente si ritiene. Una nuova lettura della giurisprudenza di questa Suprema Corte, più attenta a coglierne la progressiva evoluzione, consente quindi di ritenere che il principio risulta ormai vacillante, e che sono maturi i tempi per una radicale revisione, cogliendo l’intimo significato di una linea di tendenza già presente in singole pronunce di questa Suprema Corte >>.
La concezione della pari dignità costituzionale tra diritto ed interesse legittimo trova una concreta conferma nella pronuncia de qua, confortata, anche, dall’inesistenza di una distinzione del genere nell’ambito dell’ordinamento comunitario.
Ciò che diviene rilevante ai fini del risarcimento è l’ingiustizia del danno e non la posizione giuridica, di diritto soggettivo o di interesse legittimo, del soggetto leso.
L’interesse legittimo, nella sua duplice veste oppositiva e pretensiva, fa nascere l’ambizione del soggetto, nei cui confronti è esercitato il pubblico potere, affinché questi possa ottenere la posizione di vantaggio che lo lega al bene alla vita.
Da qui le massime della sentenza n. 500/1999 (che vale la pena riportare per la centrale importanza che assumono), secondo cui << La normativa sulla responsabilità aquiliana di cui all’art. 2043 del codice civile ha la funzione di consentire il risarcimento del danno ingiusto, intendendosi come tale il danno inferto in assenza di una causa giustificativa, che si risolve nella lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento, a prescindere dalla sua qualificazione formale, ed, in particolare, senza che assuma rilievo la qualificazione dello stesso in termini di diritto soggettivo. Ne consegue che anche la lesione di un interesse legittimo, al pari di quella di un diritto soggettivo o di un altro interesse giuridicamente rilevante, può essere fonte di responsabilità aquiliana e, quindi, dar luogo a risarcimento del danno ingiusto, a condizione che risulti danneggiato, per effetto dell’attività illegittima della Pubblica Amministrazione, l’“interesse al bene della vita” al quale il primo si correla, e che detto interesse risulti meritevole di tutela alla stregua del diritto positivo >>.
La Suprema Corte chiarisce che i passaggi attraverso i quali il giudice dovrà decidere sulla risarcibilità ex art. 2043 della domanda a lui rivolta, sono così riassumibili: – accertamento della sussistenza di un evento dannoso; – valutazione se il danno sia qualificabile come ingiusto; – accertamento se l’evento dannoso sia riferibile ad una condotta della Pubblica Amministrazione; – valutazione se detto evento dannoso sia imputabile a responsabilità della Pubblica Amministrazione; – l’eventuale imputazione, inoltre, non può avvenire sulla base del solo dato obiettivo della illegittimità del provvedimento amministrativo richiedendo, invece, una più penetrante indagine in ordine alla valutazione della colpa, che, unitamente al dolo, costituisce requisito essenziale della responsabilità aquiliana[58].
Ne emerge, in sintesi: – che la tutela risarcitoria è legata non solo alla lesione dell’interesse legittimo ma anche alla lesione dell’interesse al bene della vita, che deve essere tutelato da norme di diritto positivo, al quale l’interesse legittimo si collega: non sussiste, cioè, un automatismo che leghi l’illegittimità del provvedimento all’l’illiceità del comportamento della Pubblica amministrazione ex art 2043 cod. civ.[59]; – che è ingiusto il danno che l’ordinamento non può tollerare che rimanga a carico della vittima, ma che va trasferito sull’autore del fatto, in quanto lesivo di interessi giuridicamente rilevanti, quale che sia la loro qualificazione formale; – che in relazione agli interesse pretensivi, è necessario che il giudice vagli la consistenza della protezione che l’ordinamento riserva alle istanze di ampliamento della sfera giuridica del pretendente; il tutto deve avvenire attraverso un giudizio prognostico, da condurre in riferimento alla normativa di settore e che si riferisca alla fondatezza o meno dell’istanza volta all’ampliamento della sfera giuridica del pretendente[60]; – in ordine al rapporto tra la Pubblica amministrazione ed il cittadino, affinchè il comportamento della prima sia ritenuto illegittimo, esso deve essere diretto a violare i principi che tipizzano la funzione pubblica, ossia quelli di imparzialità, correttezza, legalità; – l’atipicità degli interessi meritevoli di tutela, per cui è compito del giudice, attraverso una comparazione e selezione degli interessi giuridicamente rilevanti, valutare quali siano quelli la cui lesione genera un danno ingiusto meritevole di essere risarcito o quelli che, al contrario, non possono non essere sacrificati in considerazione della ritenuta prevalenza del contrapposto interesse dell’autore della condotta; – che il giudice deve provedere a stabilire se l’evento dannoso sia imputabile a titolo di dolo o di colpa della Pubblica amministrazione; inoltre, non è invocabile il principio secondo il quale la colpa della struttura pubblica sarebbe in re ipsa, quindi sulla base del mero dato obiettivo della illegittimità dell’azione amministrativa, ma il giudice deve svolgere un’indagine, non limitata al solo accertamento dell’illegittimità del provvedimento in relazione alla normativa ad esso applicabile, ma estesa anche alla valutazione della colpa, non del funzionario agente, secondo i parametri della negligenza o imperizia, ma della P.A. intesa come apparato, in ragione dell’adozione e dell’esecuzione dell’atto illegittimo avvenuta in violazione delle regole amministrativistiche che vincolano l’agire dell’Amministrazione; – che l’azione risarcitoria è autonomamente esperibile, senza l’attesa dell’annullamento dell’atto lesivo[61] (procedura, invece, considerata necessaria dalla precedente giurisprudenza).
Il risarcimento degli interessi legittimi lesi, tuttavia, di fatto non ha mai trovato una significativa applicazione nel diritto tributario, per diverse ragioni, tutte legate alla grande incertezza che il vigente panorama normativo pone in capo a chi cerchi una strada risarcitoria allo scopo di ottenere un ristoro per il << particolare >> danno subito.
Tra i motivi che hanno portato alla scarsa adozione della tutela de qua, infatti,si annovera: – la specificità che tipizza questo particolare settore del diritto; – l’orientamento giurisprudenziale che avvalora la progressiva dilatazione della giurisdizione delle Commissioni tributarie, ritenuta meritevole di ricomprendere, tra gli atti impugnabili, anche le valutazioni sull’illegittimità dei provvedimenti discrezionali del Fisco, sulla scia, altresì, dell’art. 12 della L. 28 dicembre 2001, n. 448 che attribuisce al giudice tributario tutte le controversie in materia di tributi provenienti dell’Amministrazione finanziaria[62]; tutto questo senza che mai, a tale dilatazione di giurisdizione, abbia fatto seguito una chiara disposizione normativa volta a far rientrare nella competenza del giudice tributario le doglianze attinenti le richieste di risarcimento in argomento; – chi, in dottrina, fa riflettere sulla considerazione secondo cui la coerente evoluzione del percorso, riassunto nei punti precedenti, potrebbe portare alla proposta di una profonda e radicale riforma di tutto il contenzioso tributario, attraverso la quale << il sindacato della legittimità di atti amministrativi, espressione non solo di poteri vincolati ma anche di poteri discrezionali >>, involgendo problematiche molto complesse che solo una giurisdizione altamente specializzata, quale quella tributaria è in grado di risolvere, potrebbe essere un giorno accorpato in capo al giudice tributario attraverso una esplicita previsione normativa; ciò è confortato dalla costante giurisprudenza costituzionale, secondo cui non esisterebbe una riserva assoluta di giurisdizione sugli interessi legittimi a favore del giudice amministrativo, potendo il Legislatore attribuire la relativa tutela ad altri giudici[63]; – la considerazione secondo cui le controversie tributarie, che involgono spesso problematiche tecnico – contabili, sono di norma affidate a professionisti, quali i commercialisti, che per naturale propensione e formazione professionale, non colgono particolari risvolti tecnico – giuridici, tra i quali, ad esempio, quelli sui quali si incardina la tematica affrontata in questa sede, più naturalmente percepibili dagli avvocati; – la constatazione a mente della quale è molto raro che in fase di attività di indagine del Fisco il tutto si risolva in un attrito tra i verificatori ed il contribuente, essendo quest’ultimo portato, di solito, ad evitare contrasti << procedimentale >> con << i suoi controllori >>, i quali contrasti potrebbero, a suo pensare, indurre i verificatori ad appesantire e prolungare l’attività di controllo a svantaggio della conduzione della sua stessa attività economica.
Nonostante tutto, alla luce del vigente assetto normativo e avvalorata l’origine amministrativistica dei poteri che la legge attribuisce all’Autorità fiscale, si ritiene che la disciplina relativa alla risarcibilità degli interessi legittimi dovrebbe trovare nel diritto tributario un’applicazione che, attualmente riconducibile all’evoluzione degli importanti principi di cui alla sentenza n. 500/1999, sia analoga a quella valevole per ogni altro settore della Pubblica amministrazione, tenuto conto, naturalmente, dei più ristretti margini di operatività dell’Autorità fiscale, giusto quanto cristallizzato nell’art. 23 della Costituzione.
 
 
Giangaspare Donato Toma*
 


*Le opinioni espresse dall’autore sono frutto di uno studio personale e non implicano alcuna presa di posizione del Corpo di appartenenza.
[1] Ai soli fini della tematica trattata in questo scritto, con il termini Autorità fiscale, rectius, Fisco, si intende riferirsi genericamente tanto agli uffici dell’Amministrazione finanziaria, in senso stretto, quanto al Corpo della Guardia di finanza. Il Corpo di polizia, in particolare, coopera con gli uffici (per così dire, civili) del Fisco per l’acquisizione ed il reperimento degli elementi utili ai fini dell’accertamento dell’Imposta sul valore aggiunto e dei redditi e per la repressione delle violazioni delle leggi sulle imposte dirette e della normativa IVA, potendo procedere di propria iniziativa, o su richiesta degli uffici, secondo le medesime facoltà che la legge conferisce a questi ultimi (art. 63, primo comma, primo capoverso, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 – Istituzione e disciplina dell’Imposta sul valore aggiunto – e art. 33, terzo comma, primo capoverso, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 – Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi -).
[2] Le situazioni giuridiche soggettive attive di cui gli enti e le persone fisiche sono titolari nei confronti della Pubblica amministrazione dipendono dalla bipartizione << diritto soggettivo – interesse legittimo >> che trova il suo fondamento negli artt. 24, 103 e 113 della Costituzione. Tale dicotomia ha centrale rilievo in ordine al riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice ordinario, ad esclusione, naturalmente, delle questioni riguardanti le materie a giurisdizione esclusiva e, giusto il dettame dell’art. 103 della Costituzione, delle ipotesi in cui il Legislatore affidi al giudice ordinario o amministrativo il complessivo contenzioso riguardante una determinata materia, indipendentemente, dunque, dalla posizione soggettiva assunta dall’interessato.
È noto che una situazione giuridica attiva si configura come diritto soggettivo allorquando il soggetto che ne è portatore, in virtù dell’attribuzione diretta di una norma di relazione – ossia una norma caratterizzata dal fatto di risolvere conflitti intersoggettivi di interessi, dunque finalizzata a disciplinare un rapporto paritetico tra cittadino e Pubblica amministrazione -, non necessita dell’intermediazione della Pubblica amministrazione ma si vede direttamente garantita, in modo pieno ed immediato, la soddisfazione dell’interesse giuridico ed il conseguimento del connesso risultato. Di contro, viene in rilievo una posizione d’interesse ogni volta in cui il risultato (ossia il bene), al quale il titolare tende, non è garantito dalla legge in modo diretto, ma necessita del medio del potere amministrativo guidato da norme di azione – che disciplinano l’esercizio del potere pubblico – tese al perseguimento dell’interesse pubblico (Caringella, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2007, pag. 9). L’interesse legittimo, dunque, quale pretesa alla legittimità dell’azione amministrativa, è << (…) la situazione soggettiva di vantaggio, costituita dalla protezione giuridica di interessi finali che si attua non direttamente ed autonomamente, ma attraverso la protezione indissolubile ed immediata di un altro interesse del soggetto meramente strumentale alla legittimità dell’ atto amministrativo e soltanto nei limiti della realizzazione di tale interesse strumentale >>, Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2005, pag. 288.
La dottrina, nel corso degli anni, considerata la basilare funzione del riparto tra diritti soggettivi ed interessi legittimi ai fini dell’individuazione della giurisdizione, ha elaborato varie teorie volte ad illustrarne i criteri di differenziazione. Allo scopo è stata avvertita l’importanza dell’individuazione della natura della consistenza delle varie posizioni giuridiche soggettive, alla luce della quale nascono tali teorie, le quali riguardano: – l’attività di imperio e di gestione; – le norme di azione e le norme di relazione; – l’attività vincolata e l’attività discrezionale; – la dicotomia << carenza – cattivo uso del potere >> (Caringella, Manuale di diritto amministrativo, cit., pagg. 55, ss.).
[3] Nonostante il criterio di riparto predominante sia, oggi, quasi unanimemente riferibile alla combinazione << carenza – cattivo uso del potere >>, dunque alla relativa teoria (secondo cui alla carenza di potere dell’Amministrazione, sotto il profilo dello straripamento e dell’incompetenza assoluta, fa da contraltare un diritto soggettivo, mentre alla contestazione attinente il cattivo esercizio di potere, che però c’è, fa riscontro un interesse legittimo), tuttavia, nell’argomentare della dicotomia << diritto soggettivo – interesse legittimo >> in ambito tributario, si ritiene che non possa essere del tutto trascurata la teoria riconducibile allo schema che si incardina sulla distinzione tra << attività vincolata >>, da una parte, e << attività discrezionale >>, dall’altra, in cui, in applicazione dell’assunto dell’affievolimento, l’esercizio del potere disposto dalla norma è idoneo a degradare il diritto soggettivo in interesse legittimo.
La necessità del ricorso alle due concezioni dottrinali è insita nelle peculiarità che tipizza lo stesso potere dell’Autorità fiscale, avuto riguardo alle particolari competenze che il Legislatore attribuisce a tale autorità per l’effettuazione di valutazioni nell’interesse pubblico, il cui margine di libertà è limitato a tassativi contesti << residuali >> se rapportati al contenuto dell’art. 23 della Costituzione, nella parte in cui tale articolo, come si avrà modo di approfondire infra, prevede che l’Amministrazione finanziaria è priva del potere di svolgere un’attività dispositiva di interessi economico – sostanziali incidenti sul rapporto giuridico di imposta e dove l’Amministrazione finanziaria è vista in un’accezione di mera esecutrice di comportamenti, i cui profili sostanziali risultano prestabiliti dalla norma attributiva del potere.
Tra l’altro, la singolarità della materia, che caratterizza il rapporto tra Autorità fiscale e contribuente, ha portato la dottrina tributarista dominante, al pari della giurisprudenza, a disquisire sul potere del Fisco prevalentemente, anche se non esclusivamente, in termini di potere finalizzato all’adozione << discrezionale >> di decisioni dispositive di interessi, ad eccezione di quelle attinenti agli aspetti di natura economico – sociale riservati alla competenza politica. Nel prosieguo dello scritto, pertanto, si avrà la necessità di far riferimento a volte alla teoria che scaturisce dalla combinazione << carenza – cattivo uso del potere >>, altre volte a quella incardinata sulla bipartizione << attività vincolata – attività discrezionale >>.
[4] Si propende per condividere la posizione dottrinale secondo cui nell’avviso di accertamento sia insito il carattere provvedimentale, alla stessa stregua degli altri provvedimenti amministrativi, limitatamente, però, alla sua attitudine a divenire definitivo, dunque ad imporsi unilateralmente sul destinatario, se non impugnato (<< autoritatività >> che è tradizionale caratteristica dell’azione dei pubblici poteri, in genere).
L’<< autoritatività >>, quindi, prescinde dall’avocazione in capo al Legislatore delle valutazione riguardanti gli aspetti sostanziali dell’obbligazione tributaria – precluse al Fisco -, dunque dalle determinazioni di meritevolezza economico – sociale inerenti il prelievo tributario (ragione per cui si ritiene che gli atti impositivi dell’Amministrazione finanziaria non siano impugnabili per abuso di potere, ma per violazione di legge). L’Autorità fiscale, tuttavia, comunque effettua valutazioni di matrice interpretativa della normativa e dei fatti, sia pur non riguardanti interessi di ordine socio – economico e politico, che impone e formalizza attraverso la forza di un atto amministrativo, idoneo a consolidarsi se non impugnato (Lupi, Manuale giuridico di diritto tributario, Roma, 2001, pagg. 85, ss.; l’autore ritiene riduttiva la giustificazione processualistica dell’attitudine del provvedimento a diventare definitivo se non impugnato avanzata da De Mita, in Principi di diritto tributario, Milano, 1999, pagg. 15, ss., secondo cui tale idoneità dipenderebbe << da un potere in capo all’emittente, e non è un dettaglio legislativo accidentale introdotto dalla norma processuale per rispondere alle esigenze pratiche di non lasciare il rapporto per troppo tempo nell’incertezza >>).
Dalla predeterminazione in sede normativa degli aspetti sostanziali dell’imposizione tributaria, c’è chi ne ha fatto discendere la considerazione per cui il potere impositivo dell’Autorità fiscale ha mera natura accertativa e chi, addirittura, ha ritenuto l’inesistenza di un potere amministrativo in senso proprio, derivandone che l’atto di imposizione è, appunto, solo un atto, carente di ogni caratteristica provvedimentale (Capaccioli, L’accertamento tributario, in Riv. dir. fin., 1966, I, pagg. 3, ss.). Alcuna dottrina, inoltre, pur riconoscendo la natura provvedimentale dell’avviso di accertamento, predilige parlare non di vero atto di accertamento, ma di funzione e di attività impositiva (con il termine funzione in dottrina si è soliti riferirsi esclusivamente all’attività della Pubblica amministrazione svolta in modo autoritativo; sul punto si veda Pubusa, L’attività amministrativa in trasformazione, Torino, 1993, pag. 97; Orlando, Principi di diritto amministrativo, Firenze, 1892, pag. 229).
[5] Parte della dottrina non concorda con il ritenere che il contribuente, in questa fase, sia titolare di un diritto soggettivo, pur non negando che l’Amministrazione finanziaria sia priva di un potere discrezionale nella determinazione degli aspetti sostanziali dell’imposta, legati al quantum e all’an, predeterminati in sede normativa (si veda Glendi, L’oggetto del processo tributario, Padova, 1984; Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Torino, 2000, pagg. 138, ss.). Al riguardo si ritornerà infra.
[6] In merito alla distinzione tra attività conoscitive tributarie ed attività di accertamento in senso stretto e sui relativi nessi, si veda La Rosa, L’amministrazione Finanziaria, Torino, 1995, pag. 47; del medesimo autore, Scienza, politica del diritto e dato normativo nella disciplina dell’accertamento dei redditi, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1981, I, pagg. 581, ss.; Salvini, La partecipazione del privato all’accertamento, Padova, 1990, pag. 324.
[7] In argomento si veda Stufano, La tutela del contribuente nelle indagini tributarie, Milano, 2006, pagg. 9, ss.; Gallo, Discrezionalità nell’accertamento tributario e sindacabilità delle scelte dell’ufficio, in Riv. dir. fin., n. 4/1992, I, pag. 655; La Rosa, Accertamento tributario, in Boll. trib., n. 20/1986, pag. 1544.
[8] Anche in relazione all’interpretazione l’Autorità fiscale, al pari dell’Autorità giudiziaria, ha una particolare posizione di potere; l’esercizio di tale potere, pur non essendo volto a disporre degli interessi primari in conflitto, stabilisce la volontà dell’ordinamento nel caso singolo, formulando comandi concreti (Lupi, Manuale giuridico di diritto tributario, cit., pagg. 25 e 177, ss.).
[9] L’istituto dell’ << avviso di accertamento con adesione >> è disciplinato dal D. Lgs. 19 giugno 1997, n. 218 – Disposizioni in materia di accertamento con adesione e di conciliazione giudiziale -, artt. 1 – 13.
[10] Corte dei conti per la regione Lazio, n. 5/2007 che, riferendosi all’<< accertamento con adesione >>, ha ritenuto che tale istituto non presuppone un’attività discrezionale in capo all’Autorità fiscale, dovendo l’Ufficio tributario operare unicamente quando sussistono tutti i presupposti legali per addivenire alla riduzione della pretesa tributaria. Pertanto, i rilievi che emergono dal processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di finanza non legittimano gli uffici a chiudere il relativo procedimento poiché essi << non hanno la piena disponibilità della pretesa tributaria, ma devono operare tenendo conto degli eventi fattuali e contabili concreti che emergono dalle singole situazioni e conformi alle norme e disposizioni di servizio >>. Si confronti, altresì, Corte dei conti, sez. Sicilia, 16 marzo 2005 n. 512, in cui i giudici contabili hanno avuto modo di pronunciarsi su un << accertamento con adesione >> condotto dalla competente Agenzia delle entrate, tramite il quale venivano immotivatamente disattesi gli esiti della verifica fiscale condotta dall’organo di investigazione e riassunti in processi verbali di constatazione. Il comportamento dei funzionari dell’Agenzia è stato ritenuto affetto da colpa grave << (…) in quanto, trascurando del tutto le risultanze dei processi verbali di constatazione della G.d.F. ed aderendo supinamente al una proposta formulata dallo stesso contribuente – assai vantaggiosa per quest’ultimo (quando la normativa prevedeva che fosse l’Ufficio a formularne una al contribuente) -, con un atto del tutto privo di analitica motivazione, come richiesto dall’art. 7 del citato Decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218 (…) >>, detti funzionari hanno consentito al contribuente di lucrare un vantaggiosissimo risparmio di imposta a danno dell’Amministrazione finanziaria e, in definitiva, dell’intera collettività.
[11] Cass., SS.UU., n. 7388, 27 marzo 2007, in banca dati il fiscovideo.
[12] Cass., SS.UU., n. 16778/2005.
[13] In ambito tributario l’istituto dell’<< autotutela >> è disciplinato dal D.M. 11 febbraio 1997, n. 37 – Regolamento recante norme relative all’esercizio del potere di autotutela – e dal D.L. 30 settembre 1994, n. 564, convertito, con modificazioni, nella L. 30 novembre 1994, n. 656. L’autotutela consiste nel potere in capo all’Amministrazione finanziaria di intervenire autonomamente o su istanza del contribuente quando verifica di aver commesso un errore che danneggi illegittimamente quest’ultimo. L’Autorità fiscale, pertanto, con il suo intervento può correggere l’errore, senza il ricorso al giudice, emettendo il provvedimento di autotutela, appunto, con cui è revocato un precedente atto di imposizione, ancorché definitivo. Così, a seguito dell’emissione di un avviso di accertamento, l’ufficio potrebbe successivamente ritornare sui propri passi, ritenendo non più opportuno il provvedimento impositivo, alla luce di successivi chiarimenti esternati dal contribuente e fatti propri attraverso una nuova valutazione discrezionale comparativa degli interessi coinvolti.
[14] In tale contesto, in realtà, possono emergere aspetti tali da far ritenere l’esistenza di valutazioni di interessi economico – sostanziali, sia pur estranei alla determinazione dell’imposta ed attinenti unicamente la sua riscossione: il giudizio dispositivo – discrezionale sarà diretto a trovare un equilibrio tra gli interessi in gioco (Lupi, Manuale giuridico di diritto tributario, cit., pag. 31).
[15] In ragione della significativa portata assunta, un cenno merita il << diniego di disapplicazione delle disposizioni antielusive >>, di cui al comma 8, art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 che, invece, è stato ritenuto un atto autorizzatorio frutto di poteri vincolati, in quanto provvedimento destinato a rimuovere, con riguardo alla specifica posizione di fatto del contribuente, la piena efficacia di una norma di legge che, fissando una presunzione assoluta, limiterebbe irragionevolmente un diritto soggettivo del medesimo (Monti, Atti del Convegno di studi, Verso il giusto processo tributario, Roma, 20 novembre 2007, in fiscalitax, n. 6/2008, pagg. 878, ss.).
[16] Caringella, Manuale di diritto amministrativo, cit., pagg. 902, 903.
[17] Casetta, Manuale di diritto amministrativo, cit., pagg. 37, ss..
[18] Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, cit., pag. 15.
[19] Il diritto tributario materiale, in questo, si differenzia dal diritto tributario formale che concerne le cosiddette norme procedimentali, riguardanti, in genere, l’accertamento e la riscossione. Ne consegue che la riserva ex art. 23 Cost. non coinvolge queste ultime che, tuttavia, possono essere delimitate da riserva legislativa insita in altre disposizioni costituzionali.
[20] Si veda Nigro, Studi sulla funzione organizzativa della pubblica amministrazione, Milano, 1966, pagg. 160, ss..
[21] Si confronti Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, cit., pag. 16.
[22] Lupi, Manuale giuridico di diritto tributario, cit., pagg. 19, ss..
[23] In argomento si veda Lupi, Manuale giuridico di diritto tributario, cit., pagg. 27, ss..
[24] Una delle ragioni storiche per cui, probabilmente, l’Amministrazione finanziaria si poneva su un piano del tutto particolare rispetto alle altre amministrazioni pubbliche, riguardava la sua stessa funzione: essa, di massima, aveva lo scopo principale di << incassare >> (agiva strumentalmente a tale fine) per consentire che lo Stato avesse i mezzi sufficienti per funzionare; nessuna scelta di fondo avrebbe dovuto effettuare per tale scopo. Si riteneva, dunque, che tale finalità dell’agire dell’Autorità fiscale sarebbe stata compatibile con una predeterminazione in sede normativa dell’aliquota e della base imponibile del tributo.
Diversamente si pensava per le altre amministrazioni, le quali, a fronte di pubbliche risorse scarse da impiegare, dovevano concretamente dare o agire (è il caso della sanità, della giustizia, della difesa, ecc.). Sin da subito si comprese che l’agire di tali amministrazioni, obbligate ad operare secondo schemi che non si discostano, nella sostanza, dagli attuali criteri di economicità ed efficienza, non poteva essere vincolato dalla legge (sul punto si veda Lupi, Manuale giuridico di diritto tributario, cit., pagg. 9, ss.).
[25] Per un approfondimento del principio della capacità contributiva si veda De Mita, Capacità contributiva, in Digesto comm., vol. II, Torino, 1987, pagg. 454, ss; Giardina, Le basi teoriche del principio di capacità contributiva, Milano, 1961; Moschetti, Capacità contributiva, in Enc. Giur. Treccani, vol. V, Roma, 1988 e, dello stesso autore, Il principio della capacità contributiva, Padova, 1973; Gaffuri, L’attitudine alla contribuzione, Milano, 1969 e, del stesso autore, Lezioni di diritto tributario, Padova, 1999, pagg. 39, ss.; Manzoni, Il principio di capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano, Torino, 1965; Antonini, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, Milano, 1996; Maffezzoni, Il principio di capacità contributiva nel diritto finanziario, Torino, 1970; Marongiu, I fondamenti costituzionali dell’imposizione tributaria, Torino, 1991; De Mita, Fisco e Costituzione, Milano, 1984 e 1993 (in cui sono raccolte pronunce della Corte costituzionale); Marongiu, Il principio della capacità contributiva nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Dir. prat. trib., 1985, I, pagg. 6, ss. e, dello stesso autore, Il dovere contributivo: realizzazioni e prospettive, in Dir. prat. trib., 1989, I, pagg. 1457, ss.; Schiavolin, Il “New deal” della Corte costituzionale, in Rass. trib., 1988, II, pagg. 504, ss.; Manzoni, Imposizione fiscale, diritti di libertà e garanzie costituzionali, in Giur. cost., 1987, I, pagg. 2310, ss..
[26] Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, cit., pagg. 62, 63.
[27] Cass., SS.UU., 23 settembre 1998, n. 9493, in banca dati il fiscovideo e, nella stessa direzione, Id., 8 febbraio 1955, n. 1443, ivi; Id., 4 novembre 1994, n. 9126, ivi; Id., 8 agosto 1995, n. 8676, ivi.
[28] Sulla << teoria dichiarativa >> si veda Giannini, Il rapporto giuridico d’imposta, Milano, 1937, pagg. 232, ss.; Russo, Diritto e processo nella teoria dell’obbligazione tributaria, Milano, 1969 e, dello stesso autore, Lezioni di diritto tributario, Parte generale, Milano, 1992, pag. 123; Basciu, Contributo allo studio dell’obbligazione tributaria, Napoli, 1964; Capaccioli, L’accertamento tributario, cit., pagg. 3, ss.; Capaccioli, Esclusività e pienezza della competenza delle commissioni tributarie, in Diritto e processo, Padova, 1978, pagg. 774, ss..
[29] Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, cit., pag. 141. Sulla << teoria costitutiva >> si veda Allorio, Diritto processuale tributario, Milano, 1962, pagg. 65, ss.; Tesauro, Il rimborso d’imposta, Torino, 1975, pagg. 103, ss.; Berliri, Appunti sul rapporto giuridico d’imposta e sull’obbligazione tributaria, in Giurisprudenza delle imposte dirette, anno XXVII, n. 3/1954, pagg. 509, ss..
[30] Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, cit., pagg. 145 – 147.
[31] Si veda il D.M. 26 aprile 1995 – Modificazioni ed integrazioni al decreto ministeriale 23 dicembre 1994 relativo ai programmi ed ai criteri di controlli in materia di imposte sui redditi, di imposta sul valore aggiunto ed altre imposte indirette, nonché ai criteri per l’effettuazione dei controlli globali nei confronti dei soggetti scelti mediante sorteggio, per l’anno 1995 -, in banca dati il fiscovideo e la consequenziale Circ. n. 283/E/I/2/1779 del 27 ottobre 1995 – Dir. acc. e progr. (…) -, ivi.
[32] Al riguardo si veda Lupi, Manuale giuridico di diritto tributario, cit., pag. 413, ss..
[33] Santamaria, Le ispezioni tributarie, Milano, 1993, pag. 100, ss..
[34] Sul punto, Mercurio, L’applicazione del principio di correttezza nel procedimento tributario, in Il fiscovideo. Cfr., inoltre, Moschetti, Avviso di accertamento tributario e garanzie del cittadino, in Dir. prat. trib., 1983, I, pagg. 1911, ss.; Gallo, Accertamento e garanzie del contribuente: prospettive di riforma, ivi, 1989, I, pagg. 50, ss..
[35] Al riguardo si veda Allorio, Diritto processuale tributario, Torino, 1969, pag. 596; C. Glendi, L’oggetto del processo tributario, Padova, 1984, pagg. 163, ss., secondo cui << l’interesse legittimo, anziché originarsi in concomitanza al provvedimento, lo precede e può in esso trovare attuazione o da questo essere leso >>.
[36] Ferlazzo Natoli, La tutela dell’interesse legittimo nella fase procedimentale dell’accertamento tributario, in Riv. dir. trib., Fasc. 9 – 1999. Si veda, altresì, Ferlazzo Natoli – Martines, La L. n. 15/2005 nega l’accesso agli atti del procedimento tributario. In claris non fit interpretatio?, in Rass. trib., n. 5, 2005, pagg. 1490, ss.; gli autori, dopo aver posto in giusta luce la centralità del contraddittorio a tutela dell’interesse legittimo del contribuente in fase pre – accertativa, criticano, motivatamente, l’art. art. 24 della L. n. 241/1990, nella parte in cui esclude il diritto di accesso << nei procedimenti tributari >>, poichè appare foriero di notevoli dubbi di costituzionalità in ragione del contenuto dell’art. 24 Cost., ma anche del principio di uguaglianza solennizzato nell’art. 3 Cost. in quanto << (…) non v’è ragione (…) per escludere il diritto di accesso in materia tributaria a fronte di una sempre maggiore apertura in tal senso negli altri settori dell’azione amministrativa >>.
[37] Sul punto si confronti Zito, Considerazioni sui profili funzionali del procedimento alla luce della Legge n. 241 del 1990, in La disciplina generale dell’azione amministrativa, Novene Editore.
[38] Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 1999, pag. 405. Al riguardo si confronti Serra, Contributo ad uno studio sulla istruttoria del procedimento amministrativo, Milano 1991, pagg. 212, ss..
[39] Gli << accessi, le ispezioni e le verifiche fiscali >> sono previsti dall’art. 52 del D.P.R. n. 633/1972, ai fini IVA, alle cui disposizioni fa rinvio l’art. 33 del D.P.R. n. 600/1973, i fini imposte dirette.
[40] L’importante potere istruttorio delle indagini bancarie e finanziarie è disciplinato dall’art. 32, primo comma, punti nn. 2), 5), 6-bis) e 7) del D.P.R. n. 600/1973 e dall’art. 51, secondo comma, punti nn. 2), 5), 6-bis) e 7) del D.P.R. n. 633/1972.
[41] Per la natura discrezionale dell’autorizzazione, si veda Cass., 1 ottobre 2004, n. 19689, I Quattro codici della Riforma Tributaria big, Cd-rom, IPSOA. Contrari a tale approccio, Lupi Diritto tributario, Milano, 2000, pag. 137; Salvini, La partecipazione del privato all’accertamento (nelle imposte sui redditi e sull’IVA), cit., pag. 354; Schiavolin, voce Poteri istruttori dell’Amministrazione finanziaria, in Dig. Disc. Priv. Sez. comm., XI, 1995, 936 e 937, per i quali la valutazione del magistrato non sarebbe discrezionale, nel significato che sarebbe limitata ad un mero riscontro circa l’esistenza delle violazioni, ma non anche alla quantificazione della loro gravità.
[43] Stufano, La tutela del contribuente nelle indagini tributarie, cit., pag. 269.
[44] Cui si è fatto cenno in nota << 3 >>.
[45] Cass., SS.UU., n. 1436/1979.
[46] Sostanzialmente, in questo senso, Caringella, Manuale di diritto amministrativo, cit., pag. 64.
[47] Caringella, Manuale di diritto amministrativo, cit., pag. 64.
[48] In www.cortecostituzionale.it.
[49] Si confronti Lupi, Manuale giuridico di diritto tributario, cit., pagg. 455, ss..
[50] Sostanzialmente, in questo senso, si confronti Lupi, Manuale giuridico di diritto tributario, cit., pagg. 455, ss..
[51] Capolupo, Autotutela: diritto del contribuente o facoltà dell’ufficio?, in il fisco n. 20/2002, fascicolo n. 1, pag. 3043; R. Lupi, Manuale professionale di diritto tributario, Giuffrè, 1998, pag. 179.
[52] Diversa è la posizione della prassi, secondo cui << L’esercizio del potere di autotutela, essendo uno strumento posto ad esclusivo interesse dell’Amministrazione, non necessita di richieste specifiche o iniziative da parte del destinatario dell’atto illegittimo (…) >>, derivandone che in capo al contribuente non sussisterebbe alcun interesse pretensivo (Circ. n. 3/22993 del 16 novembre 1999, Dir. Reg. Entrate Lombardia, in banca dati il fiscovideo).
[53] Si confronti Cass., SS.UU., 5 agosto 1975, n. 2979, in banca dati il fiscovideo.
[54] Sostanzialmente, in questa direzione, si veda Stufano, La tutela del contribuente nelle indagini tributarie, cit., pag. 54, il quale fa notare che indipendentemente dalla fonte costituzionale a cui è ricollegabile la tutela inibitoria, nel caso si verta di diritti fondamentali della persona, emerge, altresì, un esplicito riferimento ad essa nell’art. 13 della Legge 4 agosto 1995, n. 848, di ratifica della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e relativo Protocollo addizionale, firmato a Parigi il 20 marzo 1952. Si confronti Accarino, L’impugnabilità degli atti istruttori lesivi, in Il nuovo accertamento tributario tra teoria e processo, AA.VV., Roma – Milano, 1996, pag. 332.
[55] Sulla tutela immediata a favore del contribuente non sempre sono emerse concordanze di veduta in dottrina ed in giurisprudenza. In dottrina, tendenzialmente più garantista nei riguardi del contribuente, dunque per una ammissibilità della tutela immediata, si veda Schiavolin, Indagini fiscali e tutela giurisdizionale anteriore al processo tributario, in Riv. dir. fin., 1991, II, pagg. 34, ss..
In giurisprudenza si confronti Cons. St., 28 gennaio 1991, n. 43, Id., 5 dicembre 1995, n. 982, in banca dati il fiscovideo; Cass., SS.UU., 24 febbraio 1987, n. 1948, ivi.
La giurisprudenza, nonostante l’ingresso nel panorama tributario nazionale del principio secondo cui << la natura tributaria dell’atto non preclude il ricorso agli organi di giustizia amministrativa, quando ne ricorrono i presupposti >> (art. 7, comma 4, L. n. 212/2000), è tendenzialmente orientata, con varie motivazioni, ad escludere un’immediata tutela del contribuente a seguito dell’illegittimo esercizio del potere istruttorio, procastinando il rimedio giurisdizionale all’emissione dell’atto definitivo del procedimento, ossia dell’avviso di accertamento (al riguardo si veda T.A.R. Campania, sede di Napoli, 9 marzo 2004, n. 2806, in banca dati il fiscovideo). La posizione, che si incardina sulla cosiddetta << tutela differita >>, è volta a garantire il rimedio giurisdizionale dell’impugnazione del provvedimento impositivo viziato innanzi alla commissione tributaria provinciale (il giudice naturale dei tributi) e consente al contribuente di far valere in tale sede i vizi degli atti endoprocedimentale compiuti in fase istruttoria.
È intuitivo, tuttavia, che tale rimedio, per quanto possa rendere soddisfazione in relazione ad aspetti patrimoniali di matrice sostanziale attinenti il rapporto giuridico di imposta, presenta il grande limite di non poter garantire alcuna tutela alle situazioni giuridiche soggettive attive, di natura non patrimoniale, lese a seguito dell’adozione di atti istruttori illegittimi, che rimangono compromesse e che non possono essere conosciute dal giudice dei tributi. In tal caso la tutela non può non essere necessariamente ricondotta all’autonoma ed immediata impugnazione dell’atto lesivo.
[56] Cass., 22 luglio 1999, n. 500, in banca dati il fiscovideo.
[57] Si veda Cass., 14, dicembre 1981, n. 6595; Cass., SS.UU., 14 gennaio 1992, n. 364; Id., 16 dicembre 1994, n. 10800.
[58]Al riguardo, l’art. 7 della L. n. 1034/1971, istituivo dei Tribunali amministrativi regionali, è stato novellato dalla L. 21 luglio 2000, n. 205, conseguendone l’estensione al giudice amministrativo dei poteri conoscitivi e decisori in tema di risarcimento del danno e di diritti patrimoniali che, << ora >>, non riguardano esclusivamente le controversie devolute alla sua competenza esclusiva, di cui agli artt. 33 e 34 del D.Lgs. n. 80/1998, ma anche tutte le controversie rientranti nell’ambito della sua giurisdizione << tout court >, purché derivanti dall’annullamento di atti amministrativi, senza operare distinzioni tra quella generale di legittimità e quella esclusiva. La dicotomia << diritto soggettivo – interesse legittimo >> viene in questo modo superata sia a livello di criterio di identificazione del giudice competente sia in termini di rilevanza della distinzione, particolarmente affievolita. In questo modo al privato è offerta la facoltà di conseguire, nel caso di un unico giudizio, la piena tutela di diritti ed interessi nei confronti della Pubblica Amministrazione senza dover sottostare alla macchinosità del precedente sistema della doppia tutela (sostanzialmente, in questi termini, L. Bellini – M. Bellini, La risarcibilità degli interessi legittimi nei confronti dell’Amministrazione fiscale, (ovvero, come difendersi dalle cosiddette "cartelle pazze", nota a sentenza del Giudice di pace di Mestre del 18 settembre 2000), in banca dati il fiscovideo.
[59] Il principio, secondo cui il risarcimento del danno da lesione da interesse legittimo non scaturisce dalla mera illegittimità dell’atto, necessitando che a tale illegittimità si aggiunga l’accertamento della spettanza del bene alla vita, non è stato in seguito alla pronuncia accettato da tutta la dottrina né da parte della giurisprudenza minoritaria.
[60] I giudici distinguono tra interesse oppositivi ed interessi pretensivi, poiché, in relazione ai primi, considerato che il bene alla vita era già in esistenza prima che intervenisse il provvedimento illegittimo, la lesione dell’interesse legittimo implica di per sé la lesione del bene alla vita, per cui l’avvenuto accertamento dell’illegittimità dell’atto denota, esso solo, la consolidazione del danno ingiusto.
[61] Principio ribadito dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 191/2006 (in www.cortecostituzionale.it) e dalle ordinanze nn. 13659 e 13660 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

[62] Cass., SS.UU., 27 marzo 2007, n. 7388, cit..

[63] Monti, Atti del Convegno di studi, Verso il giusto processo tributario, Roma, 20 novembre 2007, cit., pag. 27.

Toma Giangaspare Donato

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