Consulta: art. 85-bis DPR 309/1990 legittimo su confisca allargata

La Consulta ritiene non illegittimo costituzionalmente l’art. 85-bis del d.P.R. n. 309 del 1990 (confisca allargata per il piccolo spaccio)

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La Consulta ritiene non illegittimo costituzionalmente l’art. 85-bis del d.P.R. n. 309 del 1990 (confisca allargata per il piccolo spaccio): vediamo il perché. Per approfondire ulteriormente il tema della legislazione in materia di stupefacenti, consigliamo il volume Stupefacenti – Manuale pratico operativo, disponibile sullo Shop Maggioli e su Amazon.

Corte costituzionale -sentenza n.166 del 22-10-2025

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Indice

1. Prima ordinanza di rimessione: censure all’art. 85-bis DPR 309/1990 (artt. 3 e 42 Cost.)


Il Tribunale ordinario di Firenze, prima sezione penale, sollevava, in riferimento agli artt. 3 e 42 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 85-bis del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), come modificato dall’art. 4, comma 3-bis, del decreto-legge 15 settembre 2023, n. 123 (Misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile, nonché per la sicurezza dei minori in ambito digitale), convertito, con modificazioni, nella legge 13 novembre 2023, n. 159, anche in combinato disposto con l’art. 240-bis del codice penale.
In particolare, secondo il giudice fiorentino, il citato art. 85-bis t.u. stupefacenti il quale, com’è noto, prevede che «[n]ei casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per taluno dei delitti previsti dall’articolo 73, si applica l’articolo 240-bis del codice penale», era censurabile «nella parte in cui non esclude dal proprio ambito applicativo le ipotesi di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti per il reato di cui all’art. 73 co. 5 DPR 309/1990».
In via subordinata, la disposizione si reputava parimenti censurata «nella parte in cui, con riguardo al reato di cui all’art. 73 co. 5 DPR 309/1990, non limita il proprio ambito applicativo all’ipotesi di cui all’art. 73 co. 5, secondo periodo, DPR 309/1990 quando la condotta assume caratteri di non occasionalità».
In ulteriore subordine, il giudice rimettente dubitava altresì della legittimità costituzionale della medesima disposizione in combinato disposto con l’art. 240-bis cod. pen. «nella parte in cui, con riguardo all’ipotesi di condanna o di applicazione [della] pena per il delitto di cui all’art. 73 co. 5 DPR 309/1990, prevede che è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica, anziché prevedere che il giudice possa disporre la confisca in questione».
Ciò posto, venendo ad esaminare la vicenda giudiziaria da cui erano sorte siffatte questioni di legittimità costituzionale, il giudice a quo era chiamato a dovere accertare, con rito direttissimo, la responsabilità penale di una persona accusata di avere commesso il reato di cui all’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti, per essere stato trovato in possesso di una dose di cocaina del peso di 0,20 grammi e di sei pezzi di hashish del peso totale di circa 57 grammi, tenuto conto altresì del fatto e che, a seguito di perquisizione, sono stati sequestrati all’imputato denaro in contanti per 3.050 euro, un coltello a serramanico, rotoli di scotch e cellophane, nonché due bilancini di precisione.
Orbene, il rimettente stimava provata la responsabilità dell’imputato per il reato ascrittogli, risultando in particolare dimostrato che la detenzione delle sostanze stupefacenti fosse finalizzata (anche) allo spaccio.
Del resto, tenuto conto della loro modesta quantità, il giudice in questione condivideva per di più la qualificazione del fatto ai sensi del comma 5 dell’art. 73 t.u. stupefacenti, non essendo peraltro ravvisabile nella specie – né essendo stata contestata – la «circostanza aggravante», prevista dalla medesima disposizione, applicabile alle condotte non occasionali, dal momento che non sussisterebbero «elementi per ritenere provato che l’imputato abbia posto in essere analoghi episodi delittuosi».
Tuttavia, in ragione della modifica all’art. 85-bis t.u. stupefacenti operata dalla legge di conversione del d.l. n. 123 del 2023, con cui è estesa l’operatività dell’art. 240-bis cod. pen. al delitto di “piccolo spaccio” ex all’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti, avrebbe dovuta essere obbligatoriamente disposta la confisca cosiddetta “allargata” del denaro sequestrato visto che, da un lato, l’imputato non avrebbe fornito alcuna giustificazione circa la provenienza dei contanti di cui è stato trovato in possesso, dall’altro, la somma rinvenuta nel caso di specie sarebbe stata sproporzionata rispetto al suo reddito, risultando l’imputato «irregolare sul territorio italiano» e «privo di occupazione lavorativa o comunque di attività economiche».
Infine, sempre ad avviso del giudice a quo, oltre al fatto che non sarebbero stati dedotti elementi per ritenere che il denaro fosse stato da lui acquisito in un periodo «eccessivamente antecedente» rispetto alla data di commissione del reato, di talché sarebbe sussistito anche il «requisito c.d. della ragionevolezza temporale», si osservava oltre tutto che, sul punto, in base alla giurisprudenza della Corte di Cassazione, la modesta entità della somma da confiscare non costituirebbe di per sé motivo ostativo all’applicazione della misura ablatoria (si citava al riguardo: Cass. pen., Sez. IV, sentenza 22 marzo-13 maggio 2024, n. 18608), né sarebbero ricorse le ulteriori condizioni tratteggiate dalla Consulta con la sentenza n. 33 del 2018, in presenza delle quali il giudice conserverebbe la possibilità di non ordinare la confisca allargata dato che, nella fattispecie in esame, non sarebbero emersi «elementi che valgano a connotare la vicenda criminosa in esame come del tutto episodica e occasionale ed esulante dal modello che vale a fondare la presunzione di illecita accumulazione», essendo stati rinvenuti nella disponibilità dell’imputato bilancini di precisione e materiale per il confezionamento, sarebbe anzi plausibile che egli abbia già in precedenza posto in essere altri reati simili.
Ad ogni modo, laddove le questioni sollevate fossero accolte, invece, sempre per il remittente, la somma sequestrata non avrebbe potuto essere confiscata, non potendo trovare applicazione – in particolare – l’ordinaria disciplina della confisca del prodotto o profitto del reato di cui agli artt. 240 e 73, comma 7-bis, t.u. stupefacenti, dal momento che non vi sarebbe prova del «nesso di pertinenzialità, in termini di strumentalità o di derivazione […], della somma di denaro in questione rispetto alla specifica condotta illecita contestata».
Di qui, se ne faceva pertanto discendere la rilevanza delle questioni suesposte.
Ciò posto, per quanto riguarda invece la manifesta infondatezza delle questioni sollevate in via principale, il rimettente richiamava anzitutto ampi passi della sentenza della Corte costituzionale n. 33 del 2018, sottolineando come il legislatore ne abbia, a suo avviso, disatteso il monito finale, con cui si poneva l’accento sull’«esigenza che la rassegna dei reati presupposto [della confisca allargata] si fondi su tipologie e modalità di fatti in sé sintomatiche di un illecito arricchimento del loro autore, che trascenda la singola vicenda giudizialmente accertata, così da poter veramente annettere il patrimonio “sproporzionato” e “ingiustificato” di cui l’agente dispone ad una ulteriore attività criminosa rimasta “sommersa”».
Il giudice a quo ricordava, quindi, la sentenza n. 223 del 2022, con cui il Giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della presunzione di superamento della soglia reddituale massima fissata per l’ammissione al gratuito patrocinio da parte di chi fosse stato condannato per il delitto di cui all’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti, facendosene discendere da tale pronuncia che la condanna per il reato in parola «non legittima la presunzione (anche solo relativa) di un accumulo di ricchezza da parte del suo autore».
Nel caso ora all’esame, tra l’altro, se la censurata obbligatorietà della confisca allargata sarebbe fondata sul presupposto secondo cui il delitto previsto dall’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti «sarebbe idoneo a creare una accumulazione economica, tale da giustificare […] la presunzione (relativa) di origine delittuosa del denaro e dei beni sproporzionati al reddito di cui il prevenuto non abbia giustificato la provenienza», per il giudice fiorentino, un siffatto presupposto non sarebbe però corrispondente alla realtà, dal momento che – come sottolineato dalla citata sentenza n. 223 del 2022 – il delitto in questione non sarebbe connotato da particolare redditività, essendo viceversa «spesso […] commesso da “bassa manovalanza” priva di significativi mezzi economici».
In effetti, osservava il rimettente, «i soggetti che realizzano simili reati appartengono spesso a “fasce marginali” di non abbienti, che operano al di fuori dei canali abituali e comunque ufficiali, e quindi in modo non tracciabile, anche ove non commettano delitti».
Pertanto, alla luce di ciò, il giudice a quo ravvisava allora il rischio che, in casi come quello in esame – in cui l’imputato era irregolarmente residente sul territorio italiano, e dunque era «privo di iscrizione anagrafica, di attività lavorativa regolare, di conti correnti o altri strumenti finanziari, di accesso al credito bancario» –, si ritengano sempre sproporzionate le somme trovate in possesso del reo, e sempre insufficienti le possibili giustificazioni sulla loro legittima provenienza, che non potrebbero mai assurgere a «specifiche e verificate allegazioni», come richiesto dalla giurisprudenza di legittimità al fine di superare la presunzione legislativa (si citava nuovamente Cass., n. 18608 del 2024).
Precisato ciò, il rimettente si soffermava poi sui lavori preparatori concernenti la modifica dell’art. 85-bis t.u. stupefacenti, operata in sede di conversione del d.l. n. 123 del 2023: lavori dai quali non emergerebbe una esplicitazione dei motivi per i quali si è deciso di estendere la confisca allargata al delitto in questione, nel senso che la ragione dell’intervento dovrebbe essere verosimilmente rinvenuta – anche alla luce dell’inasprimento del trattamento sanzionatorio di tale delitto, contemporaneamente disposto – nella volontà del legislatore di «punire più severamente lo spaccio di stupefacenti, anche ove il singolo fatto risulti di lieve entità».
Tuttavia, per il giudice rimettente, l’impiego in funzione punitiva dell’istituto non sarebbe coerente con la sua natura e i suoi presupposti, trattandosi «di misura di sicurezza patrimoniale a carattere non sanzionatorio che presuppone l’idoneità dei delitti matrice a creare una accumulazione economica, a sua volta possibile strumento di ulteriori delitti».
Tutte queste considerazioni supporterebbero quindi, per il Tribunale di Firenze, le censure formulate con riferimento al principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., oltre che al diritto di proprietà di cui all’art. 42 Cost., fermo restando che l’art. 3 Cost. sarebbe violato anche con riguardo al principio di eguaglianza, sotto il profilo della irragionevole disparità di trattamento rispetto al delitto di cui all’art. 74, comma 6, t.u. stupefacenti, per il quale non sarebbe prevista la confisca allargata (si citavano all’uopo: Corte di Cassazione, sesta sezione penale, sentenza 11 gennaio-12 febbraio 2024, n. 6247, e sezione terza penale, sentenza 11 giugno 2015-6 luglio 2016, n. 27770).
Risulterebbe, in particolare, irragionevole la disparità di trattamento tra chi è condannato per il reato di associazione per delinquere finalizzata a commettere reati di “piccolo spaccio” e chi sia condannato per avere commesso questi stessi reati giacché «se il presupposto della confisca allargata è l’idoneità del delitto accertato a determinare un accumulo di ricchezza […] ciò vale sicuramente più per l’associazione (costituita per realizzare una serie indeterminata di reati e normalmente connotata da un riutilizzo dei proventi del reato per commettere nuove attività delittuose) che non per il singolo reato» di cui all’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti, e ciò tanto più «ove si consideri che non sono passibili di confisca allargata neppure i promotori/fondatori/organizzatori dell’associazione».
Ciò posto, in via subordinata, il rimettente chiedeva alla Consulta di limitare la confisca allargata all’ipotesi – configurata, a seguito delle modifiche apportate all’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti dall’art. 4, comma 3, dello stesso d.l. n. 123 del 2023, come convertito, quale circostanza aggravante – in cui la condotta presenti caratteri di non occasionalità.
Ove la Corte costituzionale fosse intervenuta in tal senso – osservava il rimettente – «per l’operatività della confisca allargata sarebbe necessario quanto meno l’accertamento (contestuale o nell’ambito di precedenti sentenze) della commissione di ulteriori reati analoghi» sicché, in tale ipotesi, «pur essendo minima la redditività del reato, a fronte di una pluralità di reati analoghi (ad una distanza temporale non elevata l’uno dall’altro) sarebbe meno irragionevole la presunzione di illecita accumulazione della ricchezza».
In via ulteriormente subordinata, il rimettente auspicava perlomeno una dichiarazione di illegittimità costituzionale che rendesse facoltativa, anziché obbligatoria, la confisca allargata con riguardo al delitto di cui all’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti, in modo da consentire al giudice di «verificare, alla luce di tutte le circostanze concrete (quantitativo e tipologia di sostanze, modalità della detenzione, eventuale profitto conseguito, stile di vita dell’imputato, eventuali precedenti, entità dei valori rinvenuti, ecc.), se la presunzione sottostante all’istituto sia giustificata nel singolo caso concreto».
Ad avviso del giudice a quo, in effetti, se l’obbligatorietà della confisca allargata si giustificherebbe di fronte a reati di criminalità organizzata, o comunque connotati da una elevata redditività, in quanto in tali casi la presunzione di illecita accumulazione di ricchezza da parte del condannato risponderebbe all’id quod plerumque accidit, per converso, rispetto a un reato normalmente caratterizzato da una redditività modesta (qual era quello contestato nel caso di specie) sarebbe agevole formulare ipotesi nelle quali la presunzione di legge non trova riscontro: il che renderebbe ragionevole affidare all’apprezzamento del giudice l’applicazione o meno della misura, sulla base delle circostanze del caso concreto. Per approfondire ulteriormente il tema della legislazione in materia di stupefacenti, consigliamo il volume Stupefacenti – Manuale pratico operativo, disponibile sullo Shop Maggioli e su Amazon.

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2. Seconda ordinanza di rimessione: art. 85-bis e retroattività (artt. 3, 42 e 117, co. 1, Cost.)


Sempre il medesimo giudice del Tribunale di Firenze sollevava ulteriori questioni di legittimità costituzionale dello stesso art. 85-bis t.u. stupefacenti, come modificato dall’art. 4, comma 3-bis, del d.l. n. 123 del 2023, come convertito.
In particolare, in via principale, il rimettente censurava la disposizione, in riferimento agli artt. 3 e 42 Cost., «nella parte in cui non esclude dal proprio ambito applicativo le ipotesi di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti per il reato di cui all’art. 73 co. 5 DPR 309/1990».
In via subordinata, il giudice a quo dubitava altresì – in riferimento agli artt. 42 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo – della legittimità costituzionale della disposizione, in combinato disposto con gli artt. 200, primo comma, 236, secondo comma, e 240-bis cod. pen., «nella parte in cui prevede che la misura di sicurezza della confisca dalla stessa disciplinata si applichi [ai] reati di cui all’art. 73 co. 5 DPR 309/1990 retroattivamente entro i limiti dettati dall’art. 200 co. 1 c.p., anziché prevedere che non si applichi ai reati di cui all’art. 73 co. 5 DPR 309/1990 precedenti la modifica dell’art. 85-bis DPR 309/1990».
In via nettamente gradata, il giudice rimettente sollevava questioni di legittimità costituzionale – in riferimento agli artt. 3 e 42 Cost. – «dell’art. 85-bis DPR 309/1990 in combinato disposto con l’art 240-bis c. p., nella parte in cui, con riguardo all’ipotesi di condanna o di applicazione della pena per il delitto [di cui] all’art. 73 co. 5 DPR 309/1990, prevede che è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica, anziché prevedere che il giudice possa disporre la confisca in questione».
Ciò posto, venendo a trattare la vicenda giudiziaria da cui erano scaturite le suddette questioni, il rimettente riferiva di dovere giudicare con rito abbreviato un imputato del delitto di cui all’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti per essere stato trovato in possesso nella propria abitazione di 30,18 grammi di hashish, 0,19 grammi di marijuana e 7,34 grammi di MDMA, considerato oltre tutto che, nel corso della perquisizione, erano stati sequestrati pure 750 euro in contanti.
Orbene, il giudice a quo, ritenuta provata la responsabilità dell’imputato per il reato ascrittogli, osservava che – ai sensi della disposizione censurata – si sarebbe dovuto procedere alla confisca della somma sequestrata dal momento che l’imputato non avrebbe fornito alcuna giustificazione della sua legittima provenienza, né «elementi per ritenere che detto denaro fosse stato [da lui] acquisito in un periodo eccessivamente antecedente» rispetto alla data di commissione del reato, fermo restando che, a nulla rileverebbe, d’altra parte, la circostanza che il fatto di reato fosse stato commesso anteriormente alla data di entrata in vigore della disposizione medesima, posto che, secondo un orientamento della giurisprudenza di legittimità qualificabile ormai come diritto vivente, la confisca allargata costituirebbe una misura di sicurezza patrimoniale avente natura non punitiva.
Tal che se ne faceva conseguire come avrebbe trovato applicazione nella fattispecie in esame l’art. 200, primo comma, cod. pen., richiamato dall’art. 236 cod. pen., a tenore del quale le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione, che coinciderebbe con il momento in cui viene pronunciata la sentenza di primo grado (erano citate, tra le altre, Corte di Cassazione, quarta sezione penale, sentenza 20 marzo-8 aprile 2024, n. 14095, e sesta sezione penale, sentenza 23 ottobre-5 novembre 2024, n. 40620) mentre nessuna ulteriore misura ablativa avrebbe invece potuta essere disposta qualora fossero accolte le questioni sollevate.
Dal che se ne faceva discendere la rilevanza delle questioni summenzionate.
Venendo invece a trattare la loro non manifesta infondatezza, il rimettente riproponeva, con riguardo alle questioni sollevate in via principale e a quelle sollevate in via di estremo subordine, le medesime argomentazioni già prospettate dallo stesso Tribunale nell’altra ordinanza già esaminata in precedenza.
Quanto invece alle questioni sollevate in via di primo subordine, relative all’efficacia intertemporale della disposizione censurata – che non trovavano riscontro nella precedente ordinanza –, il giudice a quo ricordava come il principio di irretroattività delle norme penali sfavorevoli, seppur esteso anche alle sanzioni amministrative aventi natura punitiva, è fissato dall’art. 25, secondo comma, Cost. unicamente con riferimento alle pene, tenuto conto altresì del fatto che, per le misure di sicurezza, l’art. 25, terzo comma, Cost. declina, invece, il principio di legalità in modo differenziato, non essendo prevista «la garanzia della loro irretroattività in peius» (si citava la sentenza n. 22 del 2022 di questa Corte).
Recenti pronunce della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo, notava il giudice a quo, avrebbero però sottolineato che le misure prive di natura punitiva devono in ogni caso rispettare le «garanzie proprie dei beni giuridici su cui incidono».
In particolare, il rimettente richiamava la sentenza n. 24 del 2019 della Consulta, in materia di presupposti applicativi delle misure personali e patrimoniali di prevenzione, ove si è osservato che la confisca di prevenzione, per la sua capacità di incidere in maniera significativa sui diritti di iniziativa economica e di proprietà, tutelati a livello costituzionale dagli artt. 41 e 42 Cost. e a livello convenzionale dall’art. 1 Prot. addiz. CEDU, deve comunque «soggiacere al combinato disposto delle garanzie cui la Costituzione e la stessa Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali subordinano la legittimità di qualsiasi restrizione ai diritti in questione». A tal fine, osservava sempre il giudice a quo, il Giudice delle leggi avrebbe specificamente richiamato l’esigenza che le misure in questione abbiano una base legale «di adeguata qualità» che consenta ai destinatari di poterne prevedere l’applicazione.
Ebbene, nel sottolineare le «analogie» tra la confisca di prevenzione e la confisca allargata poste in evidenza dalla stessa sentenza n. 24 del 2019, il rimettente riteneva dunque costituzionalmente necessario che – in caso di previsione di nuove misure ablative o di estensione di misure ablative preesistenti a casi prima non previsti – la nuova disciplina si applichi solo ai fatti posti in essere successivamente all’entrata in vigore delle modifiche legislative, essendo del resto in tal senso significativo che, in sede di conversione del decreto-legge 26 ottobre 2019, n. 124 (Disposizioni urgenti in materia fiscale e per esigenze indifferibili) – il cui art. 39 aveva esteso l’istituto della confisca allargata a taluni reati tributari – il legislatore abbia espressamente previsto, tramite l’aggiunta a tale articolo di un comma 1-bis, che la predetta disposizione si applichi alle sole condotte poste in essere successivamente all’entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge stesso (legge 19 dicembre 2019, n. 157).

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3. La decisione della Consulta: perché l’art. 85-bis è conforme


La Corte costituzionale – dopo avere illustrato le argomentazioni sostenute a fondamento di codeste questioni e reputate non condivisibili le eccezioni formulate dall’Avvocatura dello Stato – considerava le questioni suesposte infondate.
Nel dettaglio, i giudici di legittimità costituzionale stimavano, nel merito, non fondati i primi tre gruppi di questioni, con i quali il rimettente, come già visto in precedenza, in sostanza, lamentava – al metro degli artt. 3 e 42 Cost. – il carattere irragionevole della disciplina censurata e la sua eccessiva incidenza sul diritto di proprietà, nonché la disparità di trattamento da essa indotta rispetto alla fattispecie criminosa prevista dall’art. 74, comma 6, t.u. stupefacenti, pur riconoscendosi come non errasse il rimettente nel rammentare le plurime occasioni in cui la Consulta ha ritenuto costituzionalmente illegittima l’estensione di discipline di sfavore al delitto cosiddetto di “piccolo spaccio” di cui all’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti (in realtà comprendente l’intera gamma delle condotte descritte nell’art. 73, allorché connotate da lieve entità), denotandosi al contempo come il precedente più recente in questo senso sia rappresentato dalla sentenza n. 90 del 2025, in cui è stata ritenuta irragionevole la preclusione della sospensione del processo con messa alla prova nei confronti degli imputati del delitto in parola. In tale pronuncia si è sottolineata la «ridotta», e talvolta addirittura «minima» (come osservato dalla sentenza n. 40 del 2019), offensività per i beni giuridici tutelati (sentenza n. 90 del 2025, punto 5.5.1. del Considerato in diritto) fermo restando che, già in precedenza, sempre la Consulta aveva ritenuto irragionevole l’inclusione della ipotesi di condanna per questo reato tra quelle automaticamente ostative del rinnovo del permesso di soggiorno per lo straniero, tenendo in specifica considerazione – tra l’altro – il «minor grado di offensività» delle condotte in questione (sentenza n. 88 del 2023, punto 6.3. del Considerato in diritto), così come analogamente era stata dichiarata costituzionalmente illegittima la previsione del rigetto automatico della domanda di regolarizzazione del lavoratore straniero nei cui confronti sia stata pronunciata una condanna per il reato in parola, in ragione della insostenibilità di una presunzione assoluta di pericolosità che impedisca di valutare concretamente se, al momento della domanda, lo straniero autore di un reato di «limitata offensività» rappresenti ancora una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza (sentenza n. 43 del 2024, punto 7 del Considerato in diritto).
Ancora, la Corte costituzionale – con una decisione sulla quale si impernia una parte cospicua della motivazione del rimettente – ha dichiarato costituzionalmente illegittima l’automatica esclusione dal gratuito patrocinio di coloro che siano stati condannati per il reato in questione, argomentando in particolare che «il “piccolo spaccio” […] è privo dell’idoneità ex se a far presumere un livello di reddito superiore» alla soglia minima di reddito annuo ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) fissata ai fini dell’ammissione al gratuito patrocinio, pari – all’epoca – a circa mille euro al mese, in ragione dei proventi dell’attività criminosa. «È anzi vero il contrario», ha argomentato in quell’occasione questa Corte, trattandosi «spesso di manovalanza utilizzata dalla criminalità organizzata e proveniente dalle fasce marginali dei “non abbienti”» (sentenza n. 223 del 2022, punto 12 del Considerato in diritto).
Tuttavia, pur a fronte di codesta giurisprudenza, per il Giudice delle leggi, non poteva ritenersi manifestamente irragionevole, né sproporzionatamente limitativa del diritto di proprietà, la decisione del legislatore del 2023 di imporre al giudice in linea di principio – fatti salvi i correttivi di cui in seguito si dirà (infra, 5) – di confiscare i beni trovati nella disponibilità di chi sia stato condannato (o abbia concordato l’applicazione di una pena) per questo specifico reato, allorché tali beni risultino di valore sproporzionato ai suoi redditi ed egli non sia in grado di giustificarne la legittima provenienza.
In effetti, la sentenza n. 33 del 2018, ampiamente citata dal rimettente, ha puntualmente ricostruito la genesi storica nel nostro ordinamento della confisca allargata, oggi disciplinata dall’art. 240-bis cod. pen., e ha illustrato il quadro degli obblighi internazionali e unionali di riferimento sino al 2018, soffermandosi altresì sulla ratio assegnata alla misura (punti 6 e 7 del Considerato in diritto), fermo restando che, oltre alle argomentazioni ivi addotte (a cui si rinviava), si individuava oltre tutto la ratio essenziale della misura individuata in quella pronuncia nei seguenti termini: lo schema normativo della confisca allargata «poggia, nella sostanza, su una presunzione di provenienza criminosa dei beni posseduti dai soggetti condannati per taluni reati, per lo più (ma non sempre) connessi a forme di criminalità organizzata: in presenza di determinate condizioni, si presume, cioè, che il condannato abbia commesso non solo il delitto che ha dato luogo alla condanna, ma anche altri reati, non accertati giudizialmente, dai quali deriverebbero i beni di cui egli dispone».
Orbene, per la Corte, se una tale presunzione, come già rilevato nel 2003 in una pronuncia delle Sezioni unite citata dalla sentenza n. 33 del 2018 (Corte di Cassazione, sezioni unite penali, sentenza 17 dicembre 2003-19 gennaio 2004, n. 920), può ragionevolmente operare nei confronti di reati idonei a creare una «accumulazione economica, a sua volta possibile strumento di ulteriori delitti» dal momento che il legislatore intende per l’appunto contrastare tale accumulazione mediante una misura ablativa che non si fonda sulla prova della provenienza del bene da confiscare dal singolo delitto per il quale è pronunciata condanna, ma sulla ragionevole presunzione che – in presenza di una sproporzione tra il reddito dichiarato e il valore dei beni, e in mancanza di una giustificazione plausibile della loro provenienza lecita – essi siano stati acquisiti mediante attività criminose ulteriori rispetto a quella giudizialmente accertata, non è invece necessario che il reato per il quale è prevista la confisca allargata sia connesso alla criminalità organizzata, avendolo già rilevato la sentenza n. 33 del 2018 nella susseguente maniera: “sebbene originariamente, nel nostro ordinamento, «l’obiettivo della confisca “allargata” fosse stato esplicitamente individuato nel contrasto all’accumulazione dei patrimoni della criminalità organizzata, e mafiosa in specie, e alla loro infiltrazione massiccia nel circuito economico», dal 1994 a oggi il legislatore ha progressivamente aggiunto all’elenco dei “reati matrice”, o “reati spia”, una serie di figure criminose che non postulano necessariamente alcuna «organizzazione stabile e strutturata, diretta al conseguimento di profitti illeciti», ma «possono essere perpetrati in contesti del tutto avulsi da questa e che neppure implicano, in modo assoluto e indefettibile, la qualità di delinquente “seriale” del loro autore» (punto 10 del Considerato in diritto)”.
All’opposto, la caratteristica essenziale di tali “reati matrice” deve essere, per assicurare la ragionevolezza della scelta legislativa, la loro potenzialità “lucrogenetica”, ossia di produrre vantaggi economici in capo al loro autore. In difetto di tale potenzialità, la presunzione di provenienza dei beni del condannato da ulteriori condotte criminose, pur in presenza della condizione positiva della sproporzione rispetto al reddito e di quella negativa della mancata giustificazione della legittima provenienza, risulterebbe sprovvista di ogni fondamento razionale.
Ebbene, sulla base di tale considerazione, la sentenza n. 33 del 2018 ha considerato non censurabile, al metro del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., la scelta legislativa di estendere al delitto di ricettazione l’applicazione obbligatoria della confisca allargata, trattandosi di reato per sua natura «idoneo a determinare un’illecita accumulazione di ricchezza e suscettibile, secondo l’osservazione “sociologica”, di essere perpetrato in forma “professionale” o, comunque sia, continuativa» (punto 11 del Considerato in diritto).
Per il Giudice delle leggi, d’altronde, considerazioni analoghe possono essere spese, oggi, per le figure criminose abbracciate dall’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti: anch’esse caratterizzate dalla capacità di produrre profitti illeciti, e certamente idonee a essere commesse in forma continuativa dato che l’indubbia esiguità di contenuto offensivo di ciascuna condotta – e, correlativamente, la modestia dei profitti che derivano, ad esempio, dalle singole attività di cessione o di coltivazione di contenuti quantitativi di sostanze stupefacenti – non è incompatibile con il dato di esperienza per cui i loro autori spesso traggono abitualmente i propri redditi proprio da quelle attività, specie quando essi siano privi di occupazione stabile o, comunque, regolare, rendendo ciò non irragionevole la presunzione relativa, stabilita dal legislatore, di origine criminosa dei beni e del denaro di cui l’imputato sia trovato in possesso, e di cui egli non riesca a giustificare altrimenti la provenienza.
Questa conclusione, tra l’altro, sempre ad avviso dei giudici di legittimità costituzionale, non si pone in contraddizione con quanto ritenuto sempre in sede di giustizia costituzionale nella sentenza n. 223 del 2022 visto che un conto è ritenere irragionevole una presunzione che chi sia stato condannato, anche in una sola occasione, per il reato in parola possa disporre di redditi superiori alla soglia minima di reddito IRPEF fissata ai fini dell’ammissione al gratuito patrocinio, in ragione dei proventi dell’attività criminosa; altro è, invece, presumere – assicurando però all’interessato la possibilità di fornire prova contraria, e con le ulteriori precisazioni di cui si dirà a breve – che i beni o il denaro di cui egli sia in concreto trovato in possesso, in quantità sproporzionata rispetto ai redditi dichiarati, abbiano anch’essi la propria origine in attività criminose ulteriori rispetto a quelle delle quali egli sia stato già riconosciuto responsabile.
Una diversa conclusione, d’altra parte, per la Consulta, porrebbe il nostro ordinamento in una situazione di contrasto con gli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione europea, il che veniva “spiegato” dalla stessa Corte costituzionale nei seguenti termini: “La disciplina unionale della confisca allargata, o – nella terminologia del legislatore europeo – “estesa”, era originariamente contenuta nell’art. 3 della decisione quadro 2005/212/GAI del Consiglio, del 24 febbraio 2005, relativa alla confisca di beni, strumenti e proventi di reato. Tale disciplina è confluita poi nell’art. 5 – rubricato «Poteri di confisca» nella versione italiana, ma assai più eloquentemente intitolato «Extended confiscation» in quella inglese e «Confiscation élargie» in quella francese – della direttiva 2014/42/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 3 aprile 2014, relativa al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione europea. Il paragrafo 1 di tale art. 5 dispone: «[g]li Stati membri adottano le misure necessarie per poter procedere alla confisca, totale o parziale, dei beni che appartengono a una persona condannata per un reato suscettibile di produrre, direttamente o indirettamente, un vantaggio economico, laddove l’autorità giudiziaria, in base alle circostanze del caso, compresi i fatti specifici e gli elementi di prova disponibili, come il fatto che il valore dei beni è sproporzionato rispetto al reddito legittimo della persona condannata, sia convinta che i beni in questione derivino da condotte criminose». Il successivo paragrafo 2 elenca le fattispecie di reato cui tale forma di confisca deve poter essere applicata, rinviando – alla lettera e) – ai reati di cui all’art. 3 della direttiva. Nell’art. 3 si elencano, a loro volta, numerosi strumenti di diritto dell’Unione che prevedono obblighi di armonizzazione di fattispecie penali. In particolare, alla lettera g), si menziona la decisione quadro 2004/757/GAI del Consiglio, del 25 ottobre 2004, riguardante la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti. In proposito, l’art. 5, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2014/42/UE in materia di confisca precisa che, ove lo strumento di diritto dell’Unione richiamato non precisi una soglia di punibilità, l’obbligo di prevedere il potere di confisca allargata sussiste laddove i reati ivi previsti siano puniti, ai sensi del diritto nazionale, «con una pena detentiva pari, nel massimo, ad almeno quattro anni». Il che è, per l’appunto, ciò che si verifica in Italia rispetto al delitto di cui all’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti, che oggi prevede una pena massima di cinque anni di reclusione. Una recente sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea ha confermato, in risposta a vari quesiti pregiudiziali formulati da un tribunale bulgaro, che le disposizioni citate del diritto dell’Unione si applicano «anche quando tutti gli elementi inerenti alla commissione [del reato di detenzione di stupefacenti a fini di spaccio] si collocano all’interno di un unico Stato membro», purché naturalmente esso sia punito dal diritto interno con una pena detentiva massima pari o superiore a quattro anni. La Corte di giustizia ha aggiunto che l’obbligo di procedere alla confisca si estende a beni ulteriori rispetto a quelli costituenti il vantaggio economico derivante direttamente dal singolo reato, comprendendo altresì i beni che il giudice nazionale sia convinto derivino da altre condotte criminose (Corte di giustizia dell’Unione europea, terza sezione, sentenza 21 ottobre 2021, DR e TS, cause riunite C-845/19 e C-863/19, rispettivamente paragrafi 34 e 71). Il medesimo obbligo è infine riprodotto, con lievi modifiche testuali, nell’art. 14 (rubricato anche nella versione italiana «Confisca estesa») della nuova direttiva (UE) 2024/1260 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 aprile 2024, riguardante il recupero e la confisca dei beni, il cui termine di trasposizione scadrà il 23 novembre 2026. Tale disposizione conferma altresì – mediante un rinvio all’elenco contenuto nell’art. 2, paragrafo 1, lettera e), della direttiva stessa – che l’ambito di applicazione della confisca estesa comprende i reati in materia di stupefacenti disciplinati dalla decisione quadro 2004/757/GAI, sempre che tali reati siano punibili con una pena privativa della libertà di durata massima non inferiore a quattro anni. Nessuna di tali disposizioni unionali consente allo Stato membro di eccettuare, in via automatica, i fatti di reato di lieve, o comunque di minore, gravità riconducibili all’ambito applicativo della decisione quadro 2004/757/GAI”.
Infine, per la Consulta, l’applicabilità della confisca allargata in caso di condanna (o applicazione della pena su richiesta) per il reato di cui all’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti prevista dalla disposizione censurata non crea l’irragionevole disparità di trattamento lamentata dal giudice a quo rispetto all’ipotesi delittuosa prevista dall’art. 74, comma 6, dello stesso testo unico.
Difatti, se il rimettente evocava, in proposito, un orientamento della giurisprudenza di legittimità, che aveva escluso l’applicazione della confisca allargata all’ipotesi di associazione finalizzata alla commissione di reati di “piccolo spaccio” sanzionata, appunto, dall’art. 74, comma 6, t.u. stupefacenti (Corte di Cassazione, terza sezione penale, sentenza 11 giugno 2015-6 luglio 2016, n. 27770), traendo tra l’altro argomento dalla inapplicabilità della confisca allargata a quello specifico reato fine, sulla base della disciplina allora vigente, per la Corte costituzionale, tale orientamento, pur se recentemente ribadito (Cass., n. 6247 del 2024), potrebbe però essere rimeditato dalla giurisprudenza di legittimità alla luce proprio della modifica dell’art. 85-bis t.u. stupefacenti intervenuta medio tempore, che ha esteso anche al “piccolo spaccio” l’applicabilità della confisca allargata, e ciò anche sulla base della considerazione, svolta dall’Avvocatura generale dello Stato, che l’art. 240-bis cod. pen. prevede, con disposizione di carattere generale, l’obbligatoria applicazione della confisca allargata in relazione a tutti i reati elencati nell’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. considerato per giunta che tale ultima disposizione, a sua volta, richiama i delitti di cui all’art. 74 t.u. stupefacenti nella sua interezza, senza escludere l’ipotesi di cui al comma 6.
La mancanza, allo stato, di una giurisprudenza consolidata successiva alla recente modifica del contesto normativo impedisce, dunque, per la Corte, che dalla disposizione assunta a tertium comparationis possano trarsi decisivi argomenti nel senso dell’irragionevole disparità di trattamento lamentata dal rimettente.
Peraltro, i giudici di legittimità costituzionale reputavano per di più che le preoccupazioni del rimettente circa i rischi di un’applicazione eccessivamente lata – e come tale foriera di risultati irragionevoli, oltre che incidente in maniera sproporzionata sul diritto di proprietà degli interessati – della confisca allargata nei casi di condanna per i reati di cui all’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti potevano essere affrontate mediante la corretta applicazione di principi già da tempo affermati dalla giurisprudenza di legittimità, e ampiamente ripresi dalla più volte citata sentenza n. 33 del 2018 della Corte costituzionale, trovando altresì conferma nelle indicazioni fornite dal diritto dell’Unione tenuto conto che trattasi di principi che valgono, del resto, in ogni ipotesi in cui il giudice sia chiamato a fare applicazione della confisca allargata, e non solo con riferimento alla specifica figura delittuosa ora all’esame.
Dunque, riassumendo gli indirizzi della Corte di Cassazione già consolidati all’epoca, il Giudice delle leggi osservava come la sentenza n. 33 del 2018 abbia rammentato in primo luogo che «[l]a presunzione di origine illecita dei beni del condannato insorge […] non per effetto della mera condanna, ma unicamente ove si appuri – con onere probatorio a carico della pubblica accusa – la sproporzione tra detti beni e il reddito dichiarato o le attività economiche del condannato stesso: sproporzione che – secondo i correnti indirizzi giurisprudenziali – non consiste in una qualsiasi discrepanza tra guadagni e possidenze, ma in uno squilibrio incongruo e significativo, da verificare con riferimento al momento dell’acquisizione dei singoli beni» (punto 11 del Considerato in diritto, corsivo aggiunto, nel senso che «quanto più modeste siano le somme oggetto di sequestro, tanto più rigorosa deve essere la motivazione a sostegno del requisito della sproporzione tra le possidenze dell’imputato ed i suoi redditi», citandosi, a tal riguardo, anche Corte di Cassazione, sezione quarta penale, sentenza 22 marzo-13 maggio 2024, n. 18608).
In secondo luogo, si notava altresì come sempre la sentenza n. 33 del 2018 abbia anche osservato che la presunzione in parola «è solo relativa, rimanendo confutabile dal condannato tramite la giustificazione della provenienza dei cespiti; anzi, per giurisprudenza costante – almeno a partire dalla [Cass., sez, un., n. 920 del 2004] – non si tratta neppure di una vera e propria inversione dell’onere della prova, ma di un semplice onere di allegazione di elementi che rendano credibile la provenienza lecita dei beni» (ancora, punto 11 del Considerato in diritto, corsivo aggiunto, così come, nello stesso senso, Corte di Cassazione, sezioni unite penali, sentenza 26 giugno 2014-2 febbraio 2015, n. 4880, ove si precisa che «l’onus probandi a carico del soggetto inciso non è certamente calibrato sui canoni di uno statuto probatorio rigoroso e formale, modulato su quello vigente in materia petitoria, sì da assurgere, in determinati casi, al rango di probatio diabolica. Per il suo assolvimento è, infatti, sufficiente la mera allegazione di fatti, situazioni od eventi che, ragionevolmente e plausibilmente, siano atti ad indicare la lecita provenienza dei beni oggetto di richiesta di misura patrimoniale e siano, ovviamente, riscontrabili»).
Sul punto, si evidenziava per giunta come la successiva giurisprudenza di legittimità abbia insistito nel sottolineare come «la presunzione relativa non realizzi una reale inversione dell’onere della prova, ma si limiti a porre a carico del soggetto destinatario del provvedimento di confisca o di sequestro un onere di allegazione di fatti e circostanze di cui il giudice valuterà la specificità e la rilevanza e verificherà, in definitiva, la sussistenza» (Corte di Cassazione, sezioni unite penali, sentenza 26 ottobre 2023-23 febbraio 2024, n. 8052).
In terzo luogo, si osservava che, secondo il costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità (ampiamente reiterato anche in epoca successiva alla sentenza n. 33 del 2018: ad esempio, di recente, Corte di Cassazione, prima sezione penale, sentenza 23 gennaio-26 giugno 2024, n. 25239), la presunzione di illecita provenienza dei beni deve intendersi come circoscritta entro un ambito di “ragionevolezza temporale” rispetto al momento di commissione del reato per il quale il soggetto è stato condannato, sì da non privare di fondamento «la presunzione di derivazione del bene stesso da una attività illecita, sia pure diversa e complementare rispetto a quella per cui è intervenuta condanna» (ancora, sentenza n. 33 del 2018, punto 11 del Considerato in diritto), così come un analogo requisito è stato ripetutamente enunciato dalla parallela giurisprudenza in materia di confisca di prevenzione (sull’omogeneità strutturale tra le due tipologie di confisca, sentenza n. 24 del 2019, punto 10.3. del Considerato in diritto), in questo caso con riferimento all’epoca cui si riferisce la pericolosità sociale, e dunque – in sostanza – all’epoca cui risalgono gli indizi di commissione delle attività illecite che costituiscono il presupposto per l’applicazione della misura (Cass., n. 4880 del 2015), trattandosi di un requisito, quest’ultimo, da considerarsi quale imprescindibile anche alla luce degli standard convenzionali di tutela dei diritti dell’interessato, come si evince dalla recentissima pronuncia della Corte EDU Corte europea dei diritti dell’uomo, prima sezione, 25 settembre 2025, Isaia e altri contro Italia.
Il requisito della “ragionevolezza temporale” (o, forse più accuratamente, della “congruità temporale”), per la Corte, è in effetti necessario, come si è pure rilevato nella sentenza n. 33 del 2018, onde «evitare una abnorme dilatazione della sfera di operatività dell’istituto della confisca “allargata”, il quale legittimerebbe altrimenti – anche a fronte della condanna per un singolo reato compreso nella lista – un monitoraggio patrimoniale esteso all’intiera vita del condannato. Risultato che […] rischierebbe di rendere particolarmente problematico l’assolvimento dell’onere dell’interessato di giustificare la provenienza dei beni (ancorché inteso come di semplice allegazione), il quale tanto più si complica quanto più è retrodatato l’acquisto del bene da confiscare» (punto 11 del Considerato in diritto).
Un quarto requisito si riteneva invece implicito nella disciplina della confisca allargata la quale, per la Corte, meritando una speciale attenzione, induceva quindi questo stesso organo di rilevanza costituzionale a procedere ad una particolare disamina su tale tematica giuridica, il che veniva svolto nel seguente modo: “La sentenza n. 33 del 2018 ha offerto un’indicazione ermeneutica di particolare rilievo rispetto a reati come il “piccolo spaccio” disciplinato dall’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti. Quando si discuta di singoli fatti di reato che non risultino commessi in un ambito di criminalità organizzata, né in esecuzione di un programma criminoso dilatato nel tempo, al giudice deve necessariamente riconoscersi «la possibilità di verificare se, in relazione alle circostanze del caso concreto e alla personalità del suo autore – le quali valgano, in particolare, a connotare la vicenda criminosa come del tutto episodica ed occasionale e produttiva di modesto arricchimento – il fatto per cui è intervenuta condanna esuli in modo manifesto dal “modello” che vale a fondare la presunzione di illecita accumulazione di ricchezza da parte del condannato» (punto 11 del Considerato in diritto). In altre parole, l’indicazione contenuta nell’art. 240-bis cod. pen. per cui «è sempre disposta» la confisca allargata in caso di condanna o applicazione della pena su richiesta per i reati ivi elencati deve necessariamente leggersi – per evitare di pervenire a risultati irragionevoli e incidenti in misura sproporzionata sul diritto di proprietà dell’interessato, ma anche per assicurare una lettura della norma conforme alla logica e alle stesse intenzioni del legislatore – alla luce della ratio sottesa all’art. 240-bis cod. pen. Ratio che non è quella di infliggere una punizione supplementare al reo, ma quella di sottrargli beni e risorse che traggono la loro verosimile origine, secondo quanto osservato già dalla sentenza n. 33 del 2018, da una ulteriore attività criminosa rimasta “sommersa” (punto 12 del Considerato in diritto), e dunque dalla ragionevolmente presumibile commissione di precedenti condotte costituenti reato – non già di altre, generiche, attività illecite. Il che esclude che tale misura, normalmente di obbligatoria applicazione in presenza dei requisiti sin qui esaminati, debba essere disposta anche quando – alla luce di tutte le circostanze del caso concreto, filtrate attraverso il contraddittorio tra accusa e difesa – il fatto di reato appaia al giudice non già espressivo di un habitus criminale dal quale l’autore abbia verosimilmente tratto profitti illeciti, ma piuttosto risulti isolato o, comunque, occasionale. In tal caso, infatti, rimarrebbe falsificata la stessa presunzione legislativa di origine criminosa dei beni di cui l’imputato sia trovato in possesso, ancorché di valore sproporzionato rispetto ai suoi redditi dichiarati, e ancorché egli non sia in grado di giustificarne l’origine lecita ai sensi dell’art. 240-bis cod. pen. (ciò che potrebbe avvenire, ad esempio, allorché tali beni derivino da attività lavorativa irregolare). (…) Questa interpretazione restrittiva secondo la ratio della disposizione censurata, e dello stesso art. 240-bis cod. pen. nel suo complesso, è d’altra parte la lettura che più armonizza con il diritto dell’Unione, i cui obblighi innervano l’intera disciplina penale degli stupefacenti nell’ordinamento italiano. Se è infatti indubitabile, come si è poc’anzi osservato, che i vigenti strumenti in materia impongano agli Stati membri di prevedere il potere del giudice di disporre la confisca allargata in caso di condanna per i reati concernenti gli stupefacenti per i quali sia prevista, nell’ordinamento nazionale, una pena massima pari ad almeno quattro anni di reclusione, è altrettanto vero che – quanto meno a far data dalla direttiva 2014/42/UE – l’applicazione della misura non si fonda su alcun automatismo, ma presuppone che «l’autorità giudiziaria, in base alle circostanze del caso, compresi i fatti specifici e gli elementi di prova disponibili, come il fatto che il valore dei beni è sproporzionato rispetto al reddito legittimo della persona condannata, sia convinta che i beni in questione derivino da condotte criminose» (art. 5, paragrafo 1, corsivi aggiunti). Analoghe indicazioni, con qualche variazione terminologica, sono oggi riprodotte nell’art. 14, paragrafi 1 e 2, della nuova direttiva (UE) 2024/1260. La sproporzione dei beni rispetto al reddito legittimo costituisce dunque, in questo schema, soltanto uno tra gli indici che il giudice è chiamato a considerare, ai fini della formazione di un proprio “convincimento” sull’origine criminosa dei beni da confiscare. Inoltre, tanto il considerando n. 21 della direttiva 2014/42/UE, quanto il considerando n. 29 della nuova direttiva (UE) 2024/1260 chiariscono che lo Stato può fissare «un periodo di tempo entro il quale è possibile ritenere che i beni siano derivati da condotte criminose», in sintonia – dunque – con il segnalato orientamento giurisprudenziale relativo al necessario requisito di congruità temporale dell’acquisto dei beni confiscati rispetto al tempus commissi delicti. Né potrebbe obiettarsi che gli strumenti unionali in esame si limitino a fissare standard minimi nel contrasto ai reati in materia di stupefacenti, potendo gli Stati membri adottare soluzioni più rigorose. In effetti, l’esigenza di adottare, a livello unionale, soluzioni che assicurino livelli uniformi di tutela dei diritti delle persone interessate è imposta, quanto meno, da due concorrenti ragioni. Da un lato, il diritto dell’Unione ha un ovvio interesse a garantire il più ampio livello di mutuo riconoscimento delle decisioni in materia penale, compresi i provvedimenti di confisca, nell’intero spazio giuridico europeo, senza che ciò sia ostacolato dall’opposizione di limiti, a livello nazionale, derivanti dalla necessità di rispetto di standard domestici di tutela dei diritti costituzionali degli interessati. Dall’altro, la stessa Unione europea, laddove intervenga con misure di armonizzazione, ha il dovere di assicurare a tutti gli interessati gli standard minimi di tutela dei diritti loro riconosciuti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, tra cui – segnatamente – il diritto di proprietà di cui all’art. 17, nonché il diritto di difesa giurisdizionale in tutte le sue articolazioni sancite dagli artt. 47 e 48. Tutto ciò trova puntuale conferma nella già citata sentenza DR e TS del 21 ottobre 2021 della Corte di giustizia, ove si sottolinea che, «come risulta dal considerando 21 della direttiva 2014/42, il giudice deve, comunque, essere convinto, in base alle circostanze del caso, compresi i fatti specifici e gli elementi di prova disponibili, che i beni in questione derivano da condotte criminose. A questo proposito, il giudice del rinvio potrà segnatamente prendere in considerazione, come è previsto dall’articolo 5, paragrafo 1, della direttiva 2014/42, la sproporzione tra il valore dei beni in questione e i redditi legittimi della persona condannata. Ciò premesso, tale persona deve avere una reale possibilità di contestare le circostanze del caso di specie, ivi compresi gli elementi di fatto concreti e gli elementi di prova disponibili sulla base dei quali i beni in questione vengono considerati come beni derivanti da condotte criminose, secondo i termini dell’articolo 8, paragrafo 8, della direttiva 2014/42» (paragrafo 67, corsivi aggiunti). (…) Sul piano del diritto comparato, è poi significativo che a risultati interpretativi analoghi sia pervenuta anche la Corte costituzionale federale tedesca, in una sentenza del 2004 che aveva ad oggetto una disciplina della confisca allargata (Erweiterter Verfall), introdotta nel 1992 e sotto vari profili simile a quella prevista in Italia dall’art. 240-bis cod. pen. La Corte tedesca ha, in particolare, escluso il contrasto con i principi costituzionali allora invocati, tra cui il diritto di proprietà e la presunzione di innocenza, sottolineando però – sulla falsariga di quanto già affermato dalla giurisprudenza di legittimità, nel quadro di una interpretazione dichiaratamente «restrittiva» della norma – la necessità che il giudice si convinca della provenienza illecita dei beni, sulla base di tutte le circostanze del caso concreto (Tribunale costituzionale federale tedesco, sentenza 14 gennaio 2003, 2 BvR 564/95, paragrafi 93-97)”.
Orbene, conclusa tale disamina, per la Corte, proprio alla luce di siffatte argomentazioni, un’interpretazione della disposizione conforme a Costituzione e al diritto dell’Unione europea – che è al tempo stesso interpretazione restrittiva secondo la sua stessa ratio – consentiva di escluderne tutti i profili di frizione con gli artt. 3 e 42 Cost. paventati dal rimettente, tenuto conto che tale interpretazione assicura al giudice, senza necessità di alcuna dichiarazione di illegittimità costituzionale, i necessari margini di apprezzamento per escludere l’applicazione della confisca nelle ipotesi in cui, alla luce di tutte le circostanze del caso e delle allegazioni dell’imputato, non sia convinto che i beni – pur sproporzionati ai suoi redditi dichiarati, e dei quali egli non sia in grado di giustificare la provenienza lecita secondo i criteri indicati dall’art. 240-bis cod. pen. – costituiscano il provento, o siano stati acquistati con il provento, di attività delittuose ulteriori rispetto a quella per la quale è stata pronunciata condanna; ma abbia piuttosto motivo di ritenere che il fatto di reato sia occasionale, e pertanto non espressivo di quell’habitus criminoso che, solo, potrebbe supportare la presunzione legislativa in parola.
Ciò posto, per il Giudice delle leggi, da ultimo, non erano nemmeno fondate le questioni sollevate nella seconda ordinanza analizzata, con le quali, si rammenta, il rimettente lamentava che l’applicazione della confisca allargata alle condanne per reati di cui all’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti commessi prima dell’entrata in vigore della disposizione censurata contrastasse con gli artt. 42 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU.
Ebbene, per la Corte, pur stimandosi la premessa interpretativa da cui muoveva il giudice a quo corretta dato che la costante giurisprudenza della Corte di Cassazione ritiene che la confisca allargata non costituisca una pena, ma una misura di sicurezza patrimoniale, sia pure “atipica” (Cass., n. 920 del 2004; nello stesso senso, sezioni unite penali, sentenza 25 febbraio-15 luglio 2021, n. 27421 e, da ultimo, sez. un., n. 8052 del 2024), con conseguente applicabilità – in virtù del rinvio operato dall’art. 236, secondo comma, cod. pen. – del principio sancito dall’art. 200, primo comma, cod. pen., secondo cui «[l]e misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione», e cioè al momento della sentenza di condanna di primo grado (ex multis, di recente, Corte di Cassazione, seconda sezione penale, sentenze 12 gennaio-23 febbraio 2022, n. 6587 e 12 ottobre-14 dicembre 2018, n. 56374; prima sezione penale, sentenza 24 ottobre-15 novembre 2012, n. 44534), considerato oltre tutto come questa conclusione sia stata, di recente, ribadita anche con specifico riferimento al delitto di cui all’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti in seguito alla modifica dell’art. 85-bis dello stesso testo unico oggetto delle odierne censure (Corte di Cassazione, sezione sesta penale, sentenza 23 ottobre-5 novembre 2024, n. 40620; quarta sezione penale, sentenza 22 marzo-13 maggio 2024, n. 18608), pur tuttavia, se si reputava come un tale diritto vivente sia immune da censure dal punto di vista costituzionale e convenzionale dal momento che, allorché singole figure di confisca abbiano nella sostanza natura punitiva, non è dubbio ormai che debbano essere considerate quali autentiche “pene” ai fini dell’applicazione alla relativa disciplina delle garanzie che la Costituzione e la CEDU – nonché la stessa Carta, nell’ambito di applicazione del diritto unionale – stabiliscono per la materia penale, tra le quali in particolare il divieto di applicazione retroattiva a sfavore del reo (ad esempio, sentenza n. 196 del 2010, in relazione alla confisca dell’autoveicolo prevista dall’art. 186 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, recante «Nuovo codice della strada», in esplicita adesione agli orientamenti della Corte EDU sul punto), tuttavia, la giurisprudenza di legittimità è costante nel considerare tali principi non applicabili alla confisca allargata in ragione della sua natura di misura di sicurezza.
Invero, al di là di ogni possibile disputa teorica circa la condivisibilità della riconduzione di questa figura di confisca alla categoria delle misure di sicurezza, per la Corte, tale giurisprudenza coglie certamente nel segno allorché esclude ratio e natura stricto sensu punitiva della misura.
In effetti, la finalità di quest’ultima non è quella di inasprire il trattamento sanzionatorio già previsto per il reato per il quale l’interessato venga condannato, ma piuttosto quella di impedire che egli possa continuare a godere di beni da lui illecitamente acquisiti attraverso precedenti condotte criminose, sulla base della presunzione relativa che fa leva sui requisiti più innanzi distesamente esaminati.
Sotto questo profilo, come già osservato in sede di giustizia costituzionale, nella sentenza n. 24 del 2019, la confisca allargata condivide la medesima finalità della confisca di prevenzione visto che entrambe costituiscono «altrettante species di un unico genus», quello della «confisca dei beni di sospetta origine illecita» (punto 10.3. del Considerato in diritto; nello stesso senso, Cass., n. 8052 del 2024, e ivi ulteriori riferimenti), che è oggetto da tempo di puntuali obblighi internazionali e unionali, sorti sulla base della consapevolezza della insufficienza della confisca “tradizionale” a contrastare l’accumulazione di ricchezza attraverso la commissione di reati (sul punto, ancora, sentenza n. 33 del 2018, punto 6 del Considerato in diritto).
Rispetto a tali misure, del resto, la Consulta ha avuto modo di osservare che «nell’ottica del sistema, l’ablazione [di beni acquistati mediante la commissione di reati] costituisce non già una sanzione, ma piuttosto la naturale conseguenza della loro illecita acquisizione, la quale determina […] un vizio genetico nella costituzione dello stesso diritto di proprietà in capo a chi ne abbia acquisito la materiale disponibilità» poiché, in tal caso, la confisca del bene non ha «lo scopo di punire il soggetto per la propria condotta; bensì, più semplicemente, quello di far venir meno il rapporto di fatto del soggetto con il bene, dal momento che tale rapporto si è costituito in maniera non conforme all’ordinamento giuridico», e così di neutralizzare «quell’arricchimento di cui il soggetto, se non fosse stata compiuta l’attività criminosa presupposta, non potrebbe godere» sicché, «[i]n assenza di connotati afflittivi ulteriori, la finalità dell’ablazione patrimoniale ha, in tale ipotesi, carattere meramente ripristinatorio della situazione che si sarebbe data in assenza dell’illecita acquisizione del bene» (sentenza n. 24 del 2019, punto 10.4.1. del Considerato in diritto, corsivo aggiunto. Nello stesso senso, ora, l’estesa analisi compiuta dalla Corte EDU, sentenza 21 gennaio 2025, Garofalo contro Italia, paragrafi 99-140, e ivi puntuali riferimenti alla conforme giurisprudenza rilevante della stessa Corte EDU concernente misure analoghe alla confisca di prevenzione o alla confisca allargata previste da altri Paesi parti della Convenzione).
Con riferimento, dunque, a una misura ablatoria che ha connotati non punitivi ma ripristinatori, la Corte costituzionale riteneva di dovere escludere l’operatività del divieto di applicazione retroattiva della legge penale di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. e all’art. 7 CEDU (nonché, nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, all’art. 49, paragrafo 1, secondo periodo, CDFUE) fermo restando che non può ritenersi che le esigenze di tutela – costituzionali e convenzionali – del diritto di proprietà impediscano al legislatore e, per quanto qui rileva, alla giurisprudenza penale (sulla base della disposizione generale di cui all’art. 200, primo comma, cod. pen., ritenuta applicabile anche a una misura di sicurezza “atipica” come quella all’esame) di disporre la confisca allargata anche in sede di condanna o applicazione della pena su richiesta per fatti di reato commessi prima dell’entrata in vigore della legge che preveda la confisca allargata in tali ipotesi, ma già costituenti reato all’epoca.
In questo caso, infatti, il consociato non gode di alcun affidamento meritevole di tutela quanto al proprio diritto di proprietà sui beni oggetto di ablazione, trattandosi per l’appunto di beni che l’ordinamento ritiene – in presenza delle condizioni poc’anzi analizzate – essere stati acquistati mediante la commissione di fatti già previsti come reato dalla legge all’epoca in vigore: e dunque mediante modalità non conformi all’ordinamento giuridico, che determinavano «un vizio genetico nella costituzione dello stesso diritto di proprietà» in capo a chi ne ha acquisito la materiale disponibilità (sentenza n. 24 del 2019, punto 10.4.1. del Considerato in diritto), e che comunque – ove fosse intervenuta condanna per tali reati – comportavano, già all’epoca della loro commissione, la confiscabilità dei beni medesimi ai sensi, quanto meno, dell’art. 240 cod. pen. tenuto conto altresì del fatto che alle medesime conclusioni è, d’altra parte, pervenuta anche la giurisprudenza della Corte di Strasburgo in rifermento a confische strutturalmente simili a quella in questa sede all’esame, al metro dell’evocato parametro dell’art. 1 Prot. addiz. CEDU (Corte EDU, sentenza 12 maggio 2015, Gogitidze e altri contro Georgia, paragrafo 99, decisione 2 febbraio 2021, Ulemek contro Serbia, paragrafo 64).
I giudici di legittimità costituzionale, di conseguenza, alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, reputavano infondata pure codesta questione.

4. Conclusioni: questioni infondate e conferma della confisca allargata


Fermo restando che l’art. 85-bis del d.P.R. n. 309 del 1990, com’è noto, prevede che, nei “casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per taluno dei delitti previsti dall’articolo 73, si applica l’articolo 240-bis del codice penale”, con la sentenza qui in esame, la Consulta, come appena visto, con una motivazione assai articolata, giunge a ritenere tale disposizione legislativa immune da censure di illegittimità costituzionale (perlomeno nei termini enunciati nelle ordinanze di rimessione summenzionate).
Va da sé quindi che, per effetto di tale pronuncia, codesto precetto normativo continuerà ad essere applicabile così com’è previsto dalla disposizione legislativa appena citata.
Questa è dunque in sostanza la novità che connota la decisione qui in commento.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

Avvocato e giornalista pubblicista. Cultore della materia per l’insegnamento di procedura penale presso il Corso di studi in Giurisprudenza dell’Università telematica Pegaso, per il triennio, a decorrere dall’Anno accademico 2023-2024. Autore di diverse pubblicazioni redatte per…Continua a leggere

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