Una questione problematica in materia di utilizzabilità di documenti relativi al giudizio sulla personalità ex art. 236 C.P.P.

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L’art. 236 c.p.p. dispone che:”E’ consentita l’ acquisizione dei certificati del casellario giudiziale, della documentazione esistente presso gli uffici del servizio sociale degli enti pubblici e presso gli uffici di sorveglianza nonché delle sentenze irrevocabili di qualunque giudice italiano e delle sentenze straniere riconosciute, ai fini del giudizio sulla personalità dell’imputato o della persona offesa dal reato, se il fatto per il quale si procede deve esser valutato in relazione al comportamento o alle qualità morali di questa”; dispone inoltre il secondo comma che:”Le sentenze indicate nel comma 1 e i certificati del casellario giudiziale possono inoltre esser acquisiti al fine di valutare la credibilità di un testimone”.

L’ipotesi problematica che potrebbe verificarsi e che andremo di conseguenza ad analizzare, risulta così riassunta: Tizio, in virtù di una serie di condotte vessatorie e persecutorie nei confronti di Sempronia viene condannato in primo e in secondo grado, alla pena di anni X di reclusione; nel medio tempore però Tizio persiste nei suoi intenti criminosi, originando un altro e diverso procedimento penale che avrebbe visto tra l’altro lo stesso esser destinatario di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, posta in essere a norma dell’art. 292 c.p.p.

Dalla lettura della sentenza di secondo grado, si evince che le dichiarazioni della persona offesa sarebbero altresì confermate, o comunque considerate attendibili, in virtù di quell’ordinanza di custodia cautelare intervenuta in itinere, la quale in un certo senso confermerebbe la costanza delle condotte persecutorie dell’imputato nei confronti della medesima vittima.

Quid Juris:E’ possibile far confluire nel compendio probatorio utilizzato dal giudice di secondo grado, per affermare la penale responsabilità dell’imputato in ordine ai reati ascrittigli per il processo X, anche un’ordinanza di custodia cautelare in carcere che, seppur riferita al medesimo prevenuto, in ordine a comportamenti penalmente rilevanti posti in esser pur sempre nei confronti del medesimo soggetto passivo, si è formata in altro e diverso procedimento (che convenzionalmente denomineremo Y)?

Ebbene, la risposta al seguente quesito giuridico, premette un’attenta analisi del disposto di cui al 236 c.p.p., confortata da una corretta interpretazione sistematica e da quanto statuito soprattutto dalla giurisprudenza di legittimità.

Non si esclude a priori un’apparente violazione del disposto di cui all’art. 236, c.p.p., in quanto l’ordinanza di custodia cautelare non sarebbe ricompresa nel novero degli atti elencati dalla predetta norma, acquisibili da un altro e diverso procedimento al fine di procedere ad un giudizio complessivo sulla personalità dell’imputato in un altro processo.

Tuttavia si preferisce aderire a quella dottrina e giurisprudenza maggioritaria, che a contrario consentirebbero un’interpretazione estensiva e non tassativa del suddetto elenco.

Se da un lato nulla questio in ordine all’acquisizione in commento, trattandosi pur sempre di una mera prova documentale, giova ricordare a questo punto quali sono i limiti applicativi in merito.

Sul presente quesito interpretativo si sono espresse le Sezioni Unite, enunciando il seguente principio di diritto, in virtù del quale: “Le sentenze pronunciate in procedimenti penali diversi e non ancora divenute irrevocabili, legittimamente acquisite al fascicolo per il dibattimento nel contraddittorio fra le parti, possono esser utilizzate come prova limitatamente all’esistenza della decisione e alle vicende processuali in esse rappresentate, ma non ai fini della valutazione delle prove e della ricostruzione dei fatti oggetto di accertamento in quei procedimenti” (Cass. pen., S.U., sent. n. 33748/2005).

E ancora:”La norma di cui all’art. 236, c.p.p., non contiene un elenco tassativo di documenti acquisibili. Infatti ad esempio è consentita la acquisizione delle sentenze non definitive, quando esse debbano esser utilizzate non per recepirne valutazioni, ma per trarne informazioni, sulla base dei fatti obiettivi dalle stesse desumibili.”( Cass. pen., Sez. II, sent. n. 18189/2010 oltre che Cass. pen., Sez. V, ord. n. 3540/1999).

L’indirizzo maggioritario è dunque di matrice sostanzialistica, secondo cui non può escludersi che il giudice tragga anche da altri provvedimenti elementi di giudizio finalizzati all’accertamento della verità, in virtù di quello che è il principio del libero convincimento, purché si tenga conto dei suddetti limiti applicativi, altrimenti dovrebbe desumersi un’evidente violazione dell’art. 191 c.p.p.

A maggior ragione se trattasi di sentenze divenute irrevocabili, per le quali fermo restando il disposto di cui all’art. 238, bis, c.p.p., la giurisprudenza di legittimità avrebbe escluso la praticabilità di qualunque automatismo nel recepimento e nell’utilizzazione a fini decisori dei fatti in esse accertati, prevalendo  a contrario pur  sempre l’autonomia critica dell’organo accertatore. (ex plurimis, Cass. pen., Sez. I, 16.11.1998, Hass).

Come detto, la questione di diritto affrontata in giurisprudenza attiene più che altro all’utilizzabilità come prove in altri processi di sentenze definitive e non, che si siano a loro volta pronunciate in altri e diversi procedimenti, con conseguente prevalenza del principio del libero convincimento del giudice.

Ne consegue come nel caso di specie, trattasi non di una pronuncia giudiziale formatasi previo espletamento del contraddittorio tra le parti, bensì di un provvedimento penale posto in essere unilateralmente in sede di indagini preliminari, sulla base di quelle che sono le esigenze cautelari di cui all’art. 274, c.p.p., soddisfandosi così soltanto necessità indiziarie.

Nonostante ciò, come si accennava poc’anzi, la questione interpretativa in commento,non attiene alla utilizzabilità o meno dell’ordinanza custodiale nel procedimento X posteriore ad Y, bensì tale si fonda esclusivamente sul superamento dei predetti limiti applicativi.

Infatti se come sostengono le Sezioni Unite, le sentenze pronunciate in procedimenti penali diversi e non ancora divenute irrevocabili, legittimamente acquisite al fascicolo per il dibattimento nel contraddittorio fra le parti, possono esser utilizzate come prova limitatamente all’esistenza della decisione e alle vicende processuali in esse rappresentate, ma non ai fini della valutazione delle prove e della ricostruzione dei fatti oggetto di accertamento in quei procedimenti, è evidente il vizio motivazionale intrinseco alla pronuncia della Corte distrettuale.

Ne deriva che il provvedimento formatosi in sede di indagini preliminari, attinente ad un altro e diverso procedimento posto pur sempre a carico di x, oltre ad avere un fondamento prevalentemente indiziario su fatti antinomici rispetto a quelli per cui si procede, sarebbe stato impiegato sia ai fini della valutazione di una prova dichiarativa (ossia il vaglio di credibilità delle deposizioni della teste diretta), sia in relazione alla corretta ricostruzione dei fatti oggetto di accertamento nel processo X.

È evidente pertanto, non solo il discostamento del giudice di merito dalla ratio intrinseca al predetto principio di diritto, bensì anche l’illogicità della motivazione afferente la sentenza di secondo grado con riferimento a quel determinato segmento, in quanto ci si chiede come possa esser condotto un positivo vaglio di credibilità della vittima di tali reati, sulla base di fatti che si estrinsecano addirittura in un diverso arco temporale, posteriore rispetto a quello riferibile ai capi di imputazione.

A ciò si aggiunge altresì l’impossibilità di garantire una corretta ricostruzione dei fatti attinenti al procedimento X anteriore sulla base di altri, che non solo afferiscono ad altro e diverso processo, bensì addirittura sono posti in essere in una data posteriore.

Ferme restando le suddette illogicità manifeste, anche a voler ritener assolutamente privo di qualunque vizio l’iter argomentativo seguito da questo punto di vista dal giudice di seconda istanza, emergerebbe pur sempre il dubbio in ordine al giudizio valutativo delle dichiarazioni della persona offesa, il quale sarebbe stato condotto non sulla base di meri elementi probatori estrinseci, che ben potrebbero esser desumibili da un’eventuale pronuncia “parallela” definitiva o non, bensì su un complesso indiziario attinente ancora ad una fase meramente procedimentale e non processuale, che di certo non potrebbe esser considerato a priori indice di colpevolezza.

Per le suddette ragioni, a modesto parere dello scrivente, seppur come si diceva inizialmente si preferisce sposare un’interpretazione sostanzialistica del disposto di cui all’art. 236 c.p.p., tutti i provvedimenti posti in essere in sede di indagini preliminari, qualora non ricorrano le condizioni previste dalla giurisprudenza di legittimità, dovranno esser espunti dal novero del predetto elenco.

Non a caso infatti il legislatore non ne fa alcun cenno, mentre la diatriba giurisprudenziale si fonderebbe più che altro su provvedimenti giudiziali posti in essere al seguito di un’iter processuale specifico che tenga conto altresì delle esigenze della difesa.

Diverso però il caso in cui si tenga conto di un’ordinanza di custodia cautelare intervenuta nel corso di un altro procedimento, sulla base di fatti ascrivibili all’arco temporale cui si riferiscono i capi/o di imputazione purché, come vuole ormai consolidata giurisprudenza di legittimità, quel complesso indiziario sia utilizzato pur sempre come prova limitatamente all’esistenza della decisione e alle vicende processuali in esse rappresentate, ma non ai fini della valutazione delle prove e della ricostruzione dei fatti oggetto di accertamento in quei procedimenti.

Michele Gesualdi

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