Un percorso educativo per genitori e educatori attraverso la Carta sociale europea

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Nell’ambiente scolastico ed anche in quello extrascolastico si strutturano continuamente progetti per la formazione della persona trascurando la progettualità insita in uno degli atti europei più importanti del XX secolo: la Carta sociale europea, firmata a Torino il 18 ottobre 1961 e riveduta nel 1996, è un trattato del Consiglio d’Europa che enuclea le libertà e i diritti fondamentali della vita quotidiana. Carta ancor più rilevante oggi, perché è bene che ogni soggetto per vivere meglio le proprie relazioni – che sembrano essere sempre più fragili e minate – conosca e consolidi positivamente la sua essenza sociale (“socio” etimologicamente significa “colui che segue, accompagna”, quindi essere come gli altri, con gli altri).

A metà dei principi enunciati nella Parte I della Carta sociale europea, dopo l’esposizione dei diritti dei lavoratori e dopo il principio n. 15 in cui si parla della persona portatrice di handicap, segue il principio n. 16 relativo alla famiglia, quel gruppo cui sono diretti gli sforzi lavorativi dei singoli e che è il fulcro della vita soprattutto per le persone portatrici di handicap. L’enunciato del principio n. 16 risulta essere uno dei più attuali della Carta: “La famiglia, in quanto cellula fondamentale della società, ha diritto ad un’adeguata tutela sociale, giuridica ed economica per garantire il suo pieno sviluppo”. La famiglia, perché sia riconosciuta per quella che è, necessita di cultura della famiglia (a cominciare dalla riscoperta della sua etimologia) e di tutela della famiglia. Come afferma Franco Miano, docente di filosofia morale: “La sfida più grande è quella di ridire il senso e il significato dell’essere famiglia e raccontarne la bellezza. Poi è chiaro che per essere tale la famiglia ha bisogno di alcuni fattori costitutivi. Ad esempio, di ordine economico: se è vero che la famiglia è una risorsa per la società, è anche vero che questo accade dove alla famiglia è dato spazio. Le scelte economiche, organizzative, fiscali, legislative degli Stati incidono. Senza lavoro non c’è casa, e senza casa è difficile mettere su famiglia. Secondo punto: la questione educativa. Bisogna riconoscere alla famiglia e a ciascun componente il suo giusto ruolo, il compito che gli è proprio”. È imprescindibile riconoscere alla famiglia e a ciascun componente il suo giusto ruolo, il compito che gli è proprio, tra cui quello della nuora e quello della suocera, tra le quali intercorre una delle relazioni familiari più conflittuali. Nel lontano passato, in alcune realtà, la futura nuora era saggiata nelle sue capacità domestiche addirittura nel saper pettinare e intrecciare i capelli della futura suocera. Oggi, invece, in molte situazioni la suocera è a priori ignorata o osteggiata. Nel costituire una nuova famiglia non si deve mai dimenticare che essa è una “cellula” che nasce per “mitosi” (divisione cellulare) e si sviluppa per “meiosi” (differenziazione cellulare) e che è culla di ogni educazione, a cominciare da quella relazionale, a maggior ragione parentale, anche alla luce di un fenomeno che seppur limitato torna ad affacciarsi, quello della scuola parentale (o alleanza parentale o educazione parentale o homeschooling), ovvero la scelta di alcune famiglie di impartire l’istruzione entro le pareti di casa come si faceva in passato. A maggior ragione, è necessario, se non doveroso, collaborare tutti non solo nella famiglia nucleare, ma in quella parentale, ricordando in primis i nonni cui si deve ricorrere non solo per un servizio di babysitting.

Dopo il principio n. 16 dedicato alla famiglia, come corollario al n. 17 della Parte I della Carta si legge: “I bambini e gli adolescenti hanno diritto ad un’adeguata protezione sociale, giuridica ed economica”. Colpisce la distinzione tra “bambini” e “adolescenti”, la specificazione di “un’adeguata protezione” e la successione “sociale, giuridica ed economica”, visto che nella realtà si persegue la linea contraria preoccupandosi prima della protezione economica e poi degli altri aspetti. Con questa eloquenza terminologica la Carta sociale europea ha superato alcuni limiti letterali di altri atti internazionali ed anche della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. È un richiamo che vale anche per i genitori i quali non devono ricadere nella patologia delle cure, quali ipercura, discuria o invuria. L’educatore Michele Visentin sostiene: “Viene un tempo in cui si vuole sapere. Sapere la verità su di sé, le proprie origini, ma anche quello che accade dentro e fuori di noi. Viene un tempo in cui l’educazione si trasforma in esperienza conoscitiva autonoma, non senza strappi e rischi. Adolescenza è il nome che diamo al bisogno di verità che l’essere umano soddisfa guardando in faccia e facendo i conti con il suo sé infantile. Ma non accade tutto d’un tratto, all’improvviso. Qualche anno di transizione o solo pochi mesi devono passare perché il bambino curioso diventi l’adolescente impenetrabile e dialettico che conosciamo. Chiamiamola pure preadolescenza quest’età di transizione. Età che, negata in passato e riconosciuta oggi come tappa fondamentale della crescita, resta pur sempre uno dei momenti più critici per insegnanti, genitori, educatori. Soprattutto negli ultimi tempi. C’è un vissuto, infatti, che va rafforzandosi negli educatori: la sensazione che l’azione educativa con gli esploratori dell’adolescenza (quelli della scuola media per capirci) corrisponda solo in parte alle loro esigenze più profonde”.

Nell’art. 15 della Carta, rubricato “Diritto delle persone portatrici di handicap all’autonomia, all’integrazione ed alla partecipazione alla vita di comunità”, si stabilisce: “[…] garantire alle persone portatrici di handicap l’effettivo esercizio del diritto all’autonomia, all’integrazione sociale ed alla partecipazione alla vita della comunità, a prescindere dall’età e dalla natura ed origine della loro infermità”. Claudio Imprudente, giornalista “diversabile”, scrive: “[…] E così anche il nostro viola finisce per trasformarsi poco a poco in lilla. Ma che differenza c’è, secondo voi, tra viola e lilla? Apparentemente quasi nessuna! A prima vista, i due colori sono molto simili, in bilico tra il chiaro e lo scuro. È, per l’appunto, una questione di sfumature, capaci di mutare colori, percezioni e contesti”. Dal rosso e dal blu si possono formare vari colori ibridi, tra lo scuro e il chiaro: viola, violetto, indaco, lilla, magenta, glicine. Così è labile il confine tra la normalità e la disabilità: ognuno ha diritto alle proprie sfumature. In caso di disabilità, un altro aspetto di cui tener conto è quello dei “siblings”, fratelli e sorelle di persone con disabilità, ed il loro universo – sconosciuto fino a pochi anni fa – che negli ultimi tempi ha alimentato il dibattito grazie alla spinta, tra gli altri, del “Comitato Siblings Onlus”. Al n. 3 dell’art. 15 si legge: “[…] favorire la loro completa integrazione e partecipazione alla vita sociale mediante misure, compresi i presìdi tecnici, volte a sormontare gli ostacoli alla comunicazione ed alla mobilità ed a consentire loro di avere accesso ai trasporti, all’abitazione, alle attività culturali e del tempo libero”. Le istituzioni favorendo ciò consentono anche ai “siblings” di gestire meglio la loro vita altalenante tra senso di colpa, paura e responsabilità. Claudio Imprudente ancora scrive: “L’inclusività deve fondersi per poi diventare liquida (o perlomeno gassosa), così da insinuarsi in ogni frontiera che la nostra cultura pregna di stereotipi produce. La stessa classe «disabilità» può essere considerata vaga o quantomeno astratta se pensiamo a tutte le diversità che la compongono. Ognuno ha le proprie specificità, ognuno ha le proprie caratteristiche e i propri valori. Possiamo inventarci tutte le tabelle e le frontiere che vogliamo per catalogare persone, ma non troveremo mai una soluzione universale a tutti i problemi. Proprio perché l’integrazione è liquida, entra ed esce continuamente da questi schemi, quindi va fatta lavorando con le persone, non con tipologie di persone”.

L’art. 16 “Diritto della famiglia ad una tutela sociale giuridica ed economica” recita: “Per realizzare le condizioni di vita indispensabili al pieno sviluppo della famiglia, cellula fondamentale della società, le Parti s’impegnano a promuovere la tutela economica, giuridica e sociale della vita di famiglia, in particolare per mezzo di disposizioni fiscali e d’incentivazione alla costruzione di abitazioni adattate ai fabbisogni delle famiglie, di aiuto alle coppie di giovani sposi, o di ogni altra misura appropriata”. Prima ancora di interpellare le responsabilità delle Parti istituzionali, è responsabilità delle parti private “realizzare le condizioni di vita indispensabili al pieno sviluppo della famiglia”, che sono la coppia, la conoscenza e la comunicazione: condizioni su cui bisogna maturare la coscienza dei soggetti e la consapevolezza di entrambi. Perché oggi tutti sanno a cosa si va incontro in una vita di coppia e familiare, ma nessuno sembra prenderne coscienza e consapevolezza e la corrispondente responsabilità. Così si possono pure prevenire e gestire eventuali conflitti. Lo psicoterapeuta e sociologo Enrico Cheli propone: “Se vogliono vivere relazioni di coppia più appaganti e meno conflittuali, uomini e donne devono migliorare la reciproca conoscenza superando i pregiudizi e gli stereotipi culturali che la società e i media propongono loro, e parallelamente devono imparare a comunicare efficacemente e a gestire i conflitti esteriori e interiori e le connesse reazioni emozionali che la vita di coppia inevitabilmente produce”[1]. “Nella vita di coppia, infatti, abbiamo l’occasione di pensare a un altro, di chiederci cosa possiamo fare per aiutarlo, in un continuum quotidiano che va dalla preparazione dei pasti fino alle attenzioni e agli stati d’animo. La coppia rende possibile l’esperienza effettiva della cura verso l’altro, la pratica abituale della gentilezza. I componenti della coppia possono, quindi, provare la sensazione di essere buoni, se pure su piccola scala. Certo, si tratta di una bontà con dei limiti, ma quel che conta è che la cura dell’altro non è un ideale astratto, bensì una pratica vera, quasi una routine di bontà”: è quanto aggiunge la storica Lucetta Scaraffia, a commento del pensiero della saggista francese Claude Habib. Alla base di ogni famiglia ci deve essere una “vita di famiglia” e questa sgorga dalla “vita di coppia”, prima ancora di qualsiasi intervento o sostegno esterno. L’aiuto esterno è un supporto destinato a durare limitatamente, poi la coppia deve proseguire autonomamente. La coppia, (da “copula”, legame, congiunzione) se non si abbraccia materialmente e metaforicamente, che coppia è? “Il marito e la moglie si devono prendere cura l’uno dell’altro sia a livello materiale che morale, con l’assistenza e il conforto. È su tale solidarietà, del resto, che si fonda il matrimonio ed il suo venir meno è causa di imputazione dell’addebito” (dalla sentenza n. 17286/2015 del Tribunale di Roma, che ha stabilito il principio secondo cui “niente casa e mantenimento a chi si sposa senza amore”).

L’art. 17 “Diritto dei bambini e degli adolescenti ad una tutela sociale, giuridica ed economica” prevede: “[…] assicurare ai bambini ed agli adolescenti l’effettivo esercizio del diritto di crescere in un ambiente favorevole allo sviluppo della loro personalità e delle loro attitudini fisiche e mentali”. I primi a dover assicurare ai bambini ed agli adolescenti l’effettivo esercizio del diritto di crescere in un ambiente favorevole allo sviluppo della loro personalità e delle loro attitudini fisiche e mentali (e la famiglia dovrebbe essere il primo ambiente a rispondere a queste caratteristiche) sono i genitori che devono innanzitutto comprendere il significato e la rilevanza del crescere. Ogni giorno si deve coltivare fede e cultura: trasmettere la fede nella vita e la cultura della vita. “Anziano”, colui che va avanti, “giovane”, colui che è forte, che combatte: insieme costituiscono e costruiscono la vita. Occorre dare forza ai giovani e prendere forza dai giovani, ma da adulti e non da adultescenti. L’emergenza educativa di oggi è in gran parte determinata dalla latitanza o mancanza di adultità. Il legislatore italiano, per ridestare la responsabilità genitoriale, ha aggiunto il dovere di assistere moralmente i figli negli articoli 147 e 315 bis del codice civile.

Alla lettera b dell’art. 17 vi è scritto: “[…] proteggere i bambini e gli adolescenti dalla negligenza, dalla violenza o dallo sfruttamento”. Prima ancora di essere un impegno dello Stato, la protezione dei bambini e degli adolescenti è insita, anche etimologicamente, nella paternità. La paternità è una delle più belle possibilità, è la capacità di prendere appunti ogni giorno per una vita nuova. È un diritto dei figli e non degli adulti, né dell’uomo né della donna. Una paternità negata, contrastata o mal esercitata può essere una forma di negligenza, violenza o sfruttamento nei confronti dei figli. Occorre recuperare e corroborare la paternità e la conseguente autorità (dal verbo latino “augere”), intesa proprio come forza di fecondare, spingere avanti, accrescere. Paternità come promozione di vita per far fronte alla crisi di autorità e alla crisi di vivibilità (di cui parlava il filosofo Augusto Del Noce) per ritessere quelle relazioni fondamentali che fanno la persona e che fanno sì che ognuno sia persona.

 


[1] E. Cheli, “L’epoca delle relazioni in crisi (e come uscirne). Coppia, famiglia, scuola, sanità, lavoro”, FrancoAngeli, 2013

Dott.ssa Marzario Margherita

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