Tribunale di Perugia, Sezione Lavoro, ORDINANZA 24.05.2006

sentenza 22/06/06
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reclamo n. …, ****. …
TRIBUNALE DI PERUGIA
Sezione Lavoro
 
Il Tribunale, composto dai sigg.ri magistrati:
dott. ******************                                           Presidente rel.
dott. ssa ****************                                           Giudice
dott. ssa ************                                                   Giudice
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
Nel procedimento di reclamo n…., promosso da YY S.p.A. (assistita e difesa dall’Avv. **************) contro XX (assistito e difeso dagli ******************* e *************) ed avverso ordinanza resa il 20.02.2006 dal Tribunale di Perugia in persona del Giudice monocratico Dott. ssa *******************;
 
ritenuto che non vi sia bisogno di riepilogare qui tutti i passaggi del presente procedimento né di richiamare tutte le argomentazioni hinc et inde offerte dalle parti a sostegno delle rispettive richieste, sia perché si tratta di aspetti che le parti ben conoscono sia perché le ordinanze necessitano solo di una succinta motivazione (art. 134 c.p.c.). Ove necessario verranno fatti, nel prosieguo, gli opportuni richiami al contenuto della decisione del primo Giudice ed alle argomentazioni delle parti;
 
considerato che:
– il primo Giudice ha ritenuto che il comportamento dello XX – il quale si è collegato, ai fini personali, numerosissime volte ad internet, avvalendosi del PC messogli a disposizione dall’azienda – fosse scorretto, ma che di per sé non fosse di tale gravità da giustificare il licenziamento in tronco; dall’altra parte, la datrice di lavoro non aveva contestato al lavoratore cali di rendimento ovvero eventuali danni sofferti a causa di questa sua attività.
La reclamante sostiene però, che l’addebito mosso al lavoratore implicava necessariamente anche quello attinente la mancata esecuzione della prestazione di lavoro, e dunque anche un calo di rendimento, nonché il danno cagionato alla datrice per il costo dei collegamenti internet.
In ordine a questo motivo di reclamo occorre una, breve, premessa. Nell’ambito del procedimento disciplinare – per l’applicazione tanto del licenziamento quanto di una sanzione conservativa – il datore di lavoro ha l’onere di contestare al lavoratore il fatto che addebita a quest’ultimo (art. 7 legge 20.05.1970, n. 300), onere posto a garanzia del diritto di difesa dell’incolpato. E’poi evidente che, per consentire un effettivo esercizio della difesa, la contestazione deve essere effettuata in forma precisa, così come è chiaro che i diritti difensivi in questione non sarebbero rispettati ove il datore, dopo aver contestato al lavoratore il fatto x, applicasse nei suoi confronti una sanzione per il fatto y, sul quale ultimo – proprio in quanto non contestato – l’interessato non sarebbe stato posto in condizione di difendersi. Le due caratteristiche or ora evidenziate, alla cui ricorrenza è subordinato il legittimo esercizio del potere disciplinare, sono generalmente denominate di specificità e d’immutabilità della contestazione.
Con particolare riferimento all’indagine sulla sussistenza della specificità, occorre sottolineare che essa va condotta tenendo presente la funzione propria del requisito in discorso, ossia l’idoneità dell’addebito a consentire al lavoratore di comprendere esattamente che cosa gli viene rimproverato, condizione questa necessaria per una difesa efficace: la contestazione sarà dunque specifica allorquando individui il fatto in maniera tale da non lasciare incertezze sui confini fattuali dell’addebito.
Quanto all’immutabilità – che impedisce al datore di lavoro di applicare legittimamente una sanzione per un effetto diverso da quello contestato – essa non vieta (in sede di irrogazione della sanzione) marginali modificazioni del fatto, vale a dire modificazioni che non si configurino come elementi integrativi di una fattispecie di illecito disciplinare diversa e più grave di quella originariamente contestata, ma riguardino circostanze prive di valore identificativo.
Tutto ciò premesso, si osserva che nella fattispecie la contestazione originariamente formulata allo XX era, sostanzialmente, quella di aver fatto larghissimo uso del computer aziendale per scopi personali; non erano stati invece espressamente contestati al lavoratore né un suo calo di rendimento né l’aver procurato danni all’azienda (al di là del generico riferimento a “problematiche gestionali e sovraccarichi a tutta la rete informatica”). Tale essendo l’addebito, è solo di esso che si può discutere, mentre restano ovviamente fuori dalla materia del contendere i fatti non contestati. Quanto alle contestazioni implicite (fra le quali un’eventuale prestazione ridotta ed eventuali danni), la loro ammissibilità è da escludere, poiché le medesime – ponendosi in contrasto con il requisito di specificità – non assicurano al lavoratore la possibilità di esercitare efficacemente il diritto di difesa che la legge gli attribuisce.
Né può ritenersi consentito, ostandovi il principio di immutabilità, introdurre in sede giudiziale addebiti per fatti ulteriori e diversi rispetto a quelli oggetto della contestazione.
Concludendo sul punto: i fatti dei quali lo XX deve rispondere sono solo quelli a lui espressamente contestati nell’ambito del procedimento disciplinare.
– la reclamante ritiene, poi, che il Giudice della cautela avrebbe dovuto respingere comunque il ricorso del lavoratore, dal momento che – quand’anche non fossero stati ravvisabili gli elementi costitutivi della giusta causa – certamente il fatto avrebbe legittimato un licenziamento per giustificato motivo.
Anche questa doglianza va disattesa. Poiché infatti la condotta addebitata allo XX è solamente quella dell’uso (sia pure smodato) del PC per finalità personali, occorre evidenziare che una simile condotta – pur sicuramente illecita – non integra nemmeno giustificato motivo di licenziamento, dal momento che (art. 50 CCNL) “l’uso di strumenti aziendali per un lavoro (ipotesi senz’altro estendibile all’uso attuato per svago: n.d.e.) estraneo all’attività dell’azienda” costituisce illecito disciplinare che legittima unicamente la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione.
– reputa infine la datrice che l’ordinanza impugnata meriterebbe riforma laddove ha ritenuto la sussistenza del periculum in mora: il lavoratore, infatti, avrebbe già percepito il TFR, riceverebbe un’ulteriore somma a titolo di c.d. “ex fissa” ed avrebbe diritto, per un biennio, ad un’indennità di disoccupazione pari al 60% della retribuzione dell’ultimo anno di lavoro. Anche per questo profilo il reclamo non può essere accolto: la situazione alla quale ha fatto riferimento il primo Giudice (il lavoratore ha una moglie inferma ed un figlio che non ha ancora raggiunto l’indipendenza economica; la famiglia si trova in una situazione precaria, in quanto debitrice verso istituti bancari e sfrattata) è infatti tale da giustificare pienamente la conclusione per cui il reclamato, ove non reintegrato in via d’urgenza, subirebbe un pregiudizio grave ed irreparabile nel tempo necessario a far valere in via ordinaria il proprio diritto alla reintegrazione.
– in definitiva il reclamo va respinto. Sulle spese della fase deciderà il Giudice del merito.
P.Q.M.
Respinge il reclamo. Spese al definitivo.
Così deciso in Perugia, il 19.05.2006 – Depositato in cancelleria il 24.05.2006                
Il Presidente est. ************************

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