Trasferimento di lavoratore che assiste persona con handicap (Cons. Stato, n. 5604/2011)

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Massima

L’art. 33, comma 5, della legge n. 104/1992 prevede che il lavoratore che assiste la persona con handicap ha diritto di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferito ad altre sede senza il suo consenso.

 

 

1. Premessa

La presente pronuncia si occupa di una annosa problema giurisprudenziale riguardante l’art. 33, comma 5, della L. 104 del 1992 che si inserisce in un sistema che prevede anche altre forme di assistenza ai portatori di handicap al di fuori dell’ambito familiare; sicché con il medesimo art. 33, comma 5, il legislatore ha ragionevolmente previsto, quale misura aggiuntiva, la salvaguardia dell’assistenza in atto nell’ambito familiare, senza prevedere anche, nell’esercizio della sua discrezionalità, la possibilità di trasferimenti del lavoratore dipendente finalizzati a instaurare un rapporto di assistenza, nell’ambito familiare, al portatore di handicap. La disciplina di cui all’art. 33, comma 5, della L. 104 del 1992 non configura un diritto soggettivo di precedenza al trasferimento del familiare lavoratore (che effettivamente assiste con continuità un parente portatore di handicap), bensì un interesse legittimo a scegliere la propria sede di servizio, ove possibile, con l’ineludibile conseguenza che la pretesa del lavoratore, impegnato effettivamente ad assistere con continuità un parente portatore di handicap, alla scelta della sede di lavoro deve trovare accoglimento solo se risulta compatibile con le specifiche esigenze funzionali dell’Amministrazione di appartenenza (1).

 

2. Legittimità del trasferimento di un lavoratore che assiste persona con handicap: requisiti.

La legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, n. 104 del 1992, ha stabilito, all’articolo 33, comma 5 (come novellata dalla legge n. 53/2000), che il genitore o il familiare lavoratore pubblico o privato, che assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado handicappato ha diritto di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede.

La norma va letta ed applicata con il giusto rigore, che consenta di conciliare i contrapposti interessi, pubblici e privati, in essa coinvolti ed eviti i consueti e ripetuti abusi del “diritto” da essa riconosciuto, con l’invenzione, ad esempio, di situazioni di assistenza soggettivamente o oggettivamente inesistenti o drammatizzate, ovvero l’improvvisa (e sospetta) riscoperta di sentimenti di solidarietà familiare.

La predetta esigenza di un criterio ermeneutico di razionale severità trova riscontro, anzitutto, nei reiterati interventi della Corte costituzionale, la quale, pur riconoscendo il valore primario della solidarietà e della tutela dei soggetti portatori di handicap, ha, tuttavia ed al contempo, dato rilievo alla discrezionalità del Legislatore nell’individuare gli strumenti normativi finalizzate a garantire la condizione del portatore di handicap mediante la interrelazione e la integrazione dei valori espressi dal complessivo disegno costituzionale (2).

La limitazione del “diritto” riconosciuto dalla legge al lavoratore che assista un parente invalido, in ragione della concomitanza e concorrenza di valori di rilievo costituzionale, quali i principi distintamente espressi dagli artt. 97 (buon andamento della P.A.) e 41 (libertà di iniziativa economica) Cost., si manifesta espressamente, nel citato art. 33, con riguardo alla scelta della sede di lavoro all’atto dell’assunzione, ovvero anche in via di successivo trasferimento a domanda, con l’inciso “ove possibile”; inciso che vale a configurare una subordinazione del predetto ” diritto ” alla condizione che il suo esercizio non comporti una lesione eccessiva delle esigenze organizzative ed economiche del datore di lavoro privato, ovvero non determini un danno per la collettività compromettendo il buon andamento e l’efficienza della pubblica amministrazione (3).

La stessa finalità di contemperamento di opposti interessi privati e pubblici, tutti parimenti rapportabili a valori di rango costituzionale, permane pur dopo la novella ampliativa del 2000. Vale ricordare che con la sentenza della Corte Costituzionale n. 325 del 1996 che ha dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 5 sotto il profilo del mancato riconoscimento del diritto al lavoratore non convivente, il giudice delle leggi, pur sottolineando l’importanza dei valori costituzionali inerenti la protezione del portatore di handicap, ha tuttavia rilevato che “seguendo l’impostazione del giudice a quo, si rischia di dare alla norma un rilievo eccessivo, perché non è immaginabile che l’assistenza al disabile si fondi esclusivamente su quella familiare, sì che il legislatore ha, con la Legge Quadro n. 104, ragionevolmente previsto – quale misura aggiuntiva – la salvaguardia dell’assistenza in atto, accettata dal disabile, al fine di evitare rotture traumatiche, e dannose, della convivenza”.

La legge n. 53 del 2000 ha novellato il testo originario dell’articolo 33, togliendo il requisito della convivenza ma lasciando intatti gli altri. Il che significa che se il Legislatore, nell’esercizio della sua riconosciuta discrezionalità, ha ampliato, entro ristretti limiti, l’art. 33 della legge n. 104, tali limiti non possono essere superati mediante una interpretazione estensiva della novellata previsione, che intenda affievolire gli altri fondamentali requisiti della preesistenza (in casi di prima assegnazione di sede), della continuità e della esclusività. Occorre, infatti, procedere ad una lettura della norma costituzionalmente orientata, considerato che proprio il precedente assetto normativo è stato ritenuto, come detto, conforme alla Costituzione (4). Lo stesso criterio interpretativo polivalente, che contempera esigenze di solidarietà, razionalità e rigore è ripetutamente adoperato dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato.

Si è infatti rilevato che la legge n. 104 del 1992, al di là di una terminologia enfatica, non configura in realtà un vero diritto soggettivo di precedenza nei trasferimenti del familiare lavoratore, bensì un semplice interesse legittimo a scegliere la propria sede di servizio ove possibile, cioè compatibilmente con le necessità e le realtà obiettive organizzative ed operative della P.A.. (5). Infatti, la norma, con la sua ampia formulazione, non attribuisce soltanto un diritto al trasferimento da una sede all’altra, ma un più ampio diritto alla sede, che include, oltre al diritto di trasferirsi, il diritto di rimanere nella sede già assegnata, nonché quello, che qui viene in rilievo, di rendere stabile e definitiva una sede precedentemente assegnata in via provvisoria.

In conclusione, l’art. 33, comma 5, della L. n. 104/1992 ha come scopo primario quello di ampliare la sfera di tutela del portatore di handicap, salvaguardando situazioni di assistenza in atto, accettate dal disabile, al fine di evitare rotture traumatiche e dannose. Ne consegue che non va accordato il beneficio del trasferimento delle sede lavorativa a chi inoltri la domanda di trasferimento per futuri fini di assistenza. In altri termini, la norma tutela situazioni di continuità assistenziale in atto al momento della domanda e non la possibilità di prestare future prestazioni al congiunto disabile, allo stato non assistito dall’istante (6).

 

Rocchina Staiano
Docente all’Univ. Teramo; Docente formatore accreditato presso il Ministero di Giustizia e Conciliatore alla Consob con delibera del 30 novembre 2010
 Avvocato, Componente, dal 1 ° novembre 2009 ad oggi, della Commissione Informale per l’implementamento del Fondo per l’Occupazione Giovanile e Titolare di incarico a supporto tecnico per conto del Dipartimento della Gioventù.

 

__________
(1) Cons. Stato, sez. IV, 11/02/2011, n. 923.
(2) Cfr. Corte costituzionale, 22 luglio 2002, n. 372; anche Cass. civ., sez. un., 9 luglio 2009, n. 16102.
(3) Cass. civ., sez. un., 9 luglio 2009, n. 16102; Cass. civ., sez. un., n. 7945 del 2008.
(4) Cfr. Cass. civ., sez. lav., 22 aprile 2010, n. 9557.
(5) Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 565 del 2005 e Comm. spec., 19 gennaio 1998, n. 394.
(6) T.A.R. Lombardia Milano, Sez. I, 12/01/2011, n. 29.

Sentenza collegata

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