Il soggetto leso dalla attività amministrativa
Conseguentemente, sul ricorrente leso dall’attività amministrativa che assuma illegittima, in mancanza di azione autonoma proposta ex art. 30, comma 3, c.p.a., ricade l’onere di agire per ristoro dei danni entro centoventi dal passaggio in giudicato della sentenza che, in accoglimento la domanda caducatoria dallo stesso instaurato, abbia annullato l’atto amministrativo accertandone l’illegittimità (precondizione, quest’ultima, ai fini della configurabilità di un contegno suscettibile di azionabilità ai sensi dell’art. 2043 c.c.).
Nell’ipotesi di specie, il ricorrente ha instaurato la domanda risarcitoria ex art. 30, comma 5, c.p.a. in assenza di previa richiesta di annullamento del provvedimento che ha dato origine al presunto danno; ciò sull’assunto che una sentenza resa dal Consiglio di Stato tra altre parti in ordine al medesimo provvedimento abbia concorso alla formazione di un giudicato caducatorio, con conseguente differimento del dies a quo di decorso del termine decadenziale anche nei suoi confronti; ciò solamente in quanto soggetto intimato nei giudizi caducatori azionati dai terzi (dei quali egli è comunque parte per essere stato evocato).
Ad avviso del Collegio non sussistono i presupposti per il differimento del dies a quem, considerato che il decorso del termine decadenziale di cui al comma 5 dell’art. 30 c.p.a. è strettamente correlato alla circostanza che l’inoppugnabile pronuncia di annullamento derivi da un’azione proposta dal medesimo deducente che poi agisce pure per il ristoro dei pregiudizi subiti.
In tal senso depone la lettera della norma, la quale – sul presupposto che sia stata esperita azione di annullamento ad opera del danneggiato – consente a quest’ultimo di agire per il ristoro del pregiudizio lamentato “nel corso del giudizio o, comunque, sino centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza”.
Pertanto, la legittimazione a presentare “nel corso del giudizio” caducatorio la domanda risarcitoria mediante motivi aggiunti può essere riconosciuta al solo ricorrente che abbia chiesto l’annullamento dell’atto illegittimo ai sensi dell’art. 29 c.p.a., ferma la facoltà per il medesimo di agire per il ristoro entro centoventi giorni dal passaggio in giudicato della “relativa sentenza”, evidenziando la stretta consequenzialità tra il giudizio di annullamento da lui coltivato e la statuizione.
Tale impostazione logica risiede nella ratio interpretativa ispirata alla lettera della norma che vuole fissare una più circoscritta applicazione del termine ampio ai fini della domanda risarcitoria in favore del solo ricorrente che diligentemente abbia preventivamente azionato il giudizio caducatorio dell’atto.
In senso opposto a tale orientamento non assume rilievo la qualità di cointeressato del ricorrente nel giudizio annullatorio avverso il provvedimento di revoca. Tale posizione non ha infatti registrato alcun riscontro in sede processuale né con l’esperimento dell’azione di annullamento né con un intervento ad adiuvandum ai sensi dell’art. 28 c.p.a.; peraltro, anche l’ipotetico intervento – di per sé non sufficiente ai sensi dell’art. 30, comma 5, c.p.a., si caratterizzerebbe per la dubbia ammissibilità, attesa l’identità di interessi tra i ricorrenti nel processo caducatorio dell’atto di ritiro e l’odierno ricorrente e il sotteso rischio che una siffatta azione sottointendesse un’elusione del perentorio termine di impugnazione invalicabile ai sensi dell’art. 41, comma 2, c.p.a.
Inoltre, la stessa circostanza che il ricorrente sia stato intimato nei giudizi di annullamento del provvedimento di revoca e indicato formalmente fra le parti nel giudizio definito dal Consiglio di Stato non è idonea a legittimare l’azione di cui all’art. 30, comma 5, c.p.a.
Sebbene il giudicato caducatorio dell’illegittima revoca si sia sostanziato nella produzione di effetti vantaggiosi sul piano sostanziale per tutti i partecipanti alla procedura selettiva utilmente collocati in graduatoria (tra i quali anche il deducente), analoghi effetti non si rinvengono sul versante processuale della dilatazione temporale del termine decadenziale previsto dall’art. 30, comma 5 che, secondo quanto rilevato, trova una limitata applicazione nei soli riguardi del danneggiato che abbia agito per l’annullamento.
Gli atti interruttivi
Sotto tale profilo, può invocarsi la disciplina civilistica prevista dall’art. 1310, comma 1, c.c., che nella diversa ipotesi del termine di prescrizione estende gli effetti favorevoli degli atti interruttivi posti in essere da un debitore o creditore in solido anche nei confronti degli altri debitori o creditori, mentre l’art. 2964, comma 1, c.c. pone un limite all’estensione del più vantaggioso regime giuridico prescrizionale ove ricorra un termine decadenziale, statuendo che “quando un diritto deve esercitarsi entro un dato termine sotto pena di decadenza, non si applicano le norme relative all’interruzione della prescrizione”.
Con riferimento all’indicata e ritenuta esperibilità ad opera del deducente dell’actio iudicati per l’esecuzione della sentenza del Consiglio di Stato, va evidenziato che, in esito alla riforma introdotta dal D. Lgs. n. 195/2011, è stato abrogato il comma 4 dell’art. 112 c.p.a. che in sede di ottemperanza consentiva al ricorrente di agire anche per il ristoro, non richiesto in pendenza del giudizio di legittimità, dei danni pregressi al giudicato.
Il vigente regime processuale ammette quindi in fase di ottemperanza solo l’azione risarcitoria per i pregiudizi intervenuti successivamente all’inoppugnabilità della sentenza, a conferma della distinta efficacia del giudicato annullatorio sul piano dell’utilità sostanziale e sul piano del differimento del decorso del termine decadenziale previsto dal comma 5 dell’art. 30 c.p.a.
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