Tentativo per una definizione della responsabilita’ degli stati per violazione del divieto di uso della forza armata

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L’introduzione della nozione di “crimine dello Stato” può generare una certa confusione, superabile soltanto se viene mantenuta la giusta differenziazione concettuale con gli illeciti individuali.
Durante i lavori della Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite volti a codificare il tema della responsabilità internazionale, è stato suggerito di distinguere gli illeciti statali in crimini e delitti, sulla base dell’importanza della norma violata.
Purtroppo, ancora oggi, non si è riusciti a differenziare il regime derivante dai primi da quello dei secondi. Un primo passo per raggiungere tale scopo lo si può intraprendere a seguito della soluzione di un quesito a ciò preliminare, e cioè, quale sia l’incidenza delle norme primarie sulla distinzione suddetta (1); tale tentativo è stato affrontato dalla Commissione del diritto internazionale, la quale ha fondato il suo lavoro sulle peculiarità proprie delle norme primarie e di quelle secondarie ( queste ultime considerate di carattere esclusivamente sanzionatorio ).
Il giurista Riphagen, componente del collegio di cui trattasi, ha sempre sostenuto che non sia possibile studiare le conseguenze degli illeciti internazionali in quanto non vi sarebbe un minimo comune multiplo del regime di responsabilità, bensì solo diversi settori del diritto primario, che qualificherebbero così tutti gli illeciti rientranti in essi (2).
Altri ritengono invece più importante la normativa secondaria, poiché, diversamente, si confonderebbe il diritto consuetudinario con quello convenzionale, essendo certo che il primo dei due sia tuttora assente da qualsiasi varietà concernente le possibili sanzioni applicabili a tal fine (3).
Il rischio è insito anche nel fatto che si potrebbe fare confusione tra contenuto dell’obbligo e del regime di responsabilità, come è accaduto spesso con riferimento alla materia del trattamento degli stranieri. In questo modo, e con metodo induttivo, si ricostruirebbe l’importanza della norma violata, e quindi del crimine o del “delitto”, in relazione a come gli Stati reagiscano di fronte a certi atti ( ciò costituisce una ragguardevole prassi probante ).
Il termine “crimine” è equivoco in quanto viene utilizzato anche dalla dottrina penalistica, la cui prassi è quella di includere nel diritto internazionale la concezione sanzionatoria appartenente alla disciplina penale interna al diritto statale. Secondo tale impostazione teorica, tutti gli istituti penalistici potrebbero fondersi con quelli del diritto internazionale perché, sebbene si trovino ad uno stadio evolutivo più avanzato, porterebbero un progresso più veloce nell’ordinamento normativo internazionale. La distinzione tra delitti e crimini corrisponderebbe in un certo senso a quella tra responsabilità civile e penale dei sistemi interni (4). Corollari dell’imputabilità degli Stati intesa in questo senso sarebbero il principio di legalità e la tutela giurisdizionale, che si concretizzano nella creazione di strutture quali i tribunali internazionali e nella preparazione di testi sotto forma di codice.
Purtroppo, la differenza profonda che esiste tra ordinamento internazionale ed interno ( ad esempio quella dei soggetti che ne fanno parte: individui o Stati ) non consente una uguaglianza del sistema sanzionatorio tra i due, e tanto più fra i relativi regimi di responsabilità. Per quanto riguarda poi la prova dell’esistenza di crimini statali internazionali, rileva in modo certo il capo VII della Carta dell’O.N.U., concernente le misure collettive decise in caso di rottura della pace, che la dottrina attuale utilizza proprio per riferirsi ad un regime differente rispetto a quello ordinario. In questo frangente è utile anche il rinvio al sistema di reazione agli illeciti delle organizzazioni internazionali, poiché esso deriva dal diritto generale e non convenzionale, che appunto trae da quello i diritti sanzionatori che vengono affidati agli Stati uti singuli.
Ai fini di questo studio è di primario interesse stabilire una nozione di responsabilità valida per tutti, ma si deve premettere che le idee dei giuristi su tale punto appaiono ancora frammentate in molteplici visioni concettuali differenti. Secondo autori quali Schwarzemberger, Reuter, Greig e Daillier, la responsabilità si sostanzierebbe nella nascita di un rapporto obbligatorio nuovo tra lo Stato autore dell’illecito e quello danneggiato (5). Per un’altra dottrina minoritaria che è stata portata avanti nel tempo dal Kelsen e dal Guggenheim, essa consisterebbe sempre in un rapporto giuridico fra due ordinamenti, ma avente per contenuto, non il dovere di riparare, quanto l’assoggettamento ad una sanzione, quale potrebbe essere una guerra od una rappresaglia. Secondo una terza concezione, appartenente a studiosi quali Ago, Tunkin, Sereni, Dahm ed Eustathiades, con l’espressione responsabilità ci si riferirebbe a due distinte conseguenze dell’illecito: la prima conseguirebbe alla nascita di un rapporto di diritto-obbligo tra lo Stato autore e quello leso, ed una seconda sarebbe costituita dall’instaurazione fra i due ordinamenti di una “facoltà” per la quale la vittima potrebbe infliggere una sanzione all’altro ( in questo caso però la pena è meramente afflittiva ) (6).
L’elemento comune a tutte queste teorie citate è quello del rapporto obbligatorio che si formerebbe tra l’autore e la vittima dell’illecito internazionale; questo è un punto di partenza per costruirne il relativo regime della responsabilità. Ricorrere ad una delle tre dottrine suddette è corretto dal punto di vista della logica ad esse interna, ma non permette di afferrare in pieno ciò che è il vero diritto positivo, in quanto, con tali teorie, si costringerebbe l’operatore giuridico a fare una scelta di merito opinabile, che falserebbe così la visione dell’intero sistema internazionale quale è oggi. Quella da accogliere è una nozione di responsabilità che sia il più ampia possibile, al fine di far inquadrare in essa ogni aspetto del diritto internazionale con estrema facilità ed univocità. Tale responsabilità sarebbe quindi: il complesso delle relazioni intercorrenti tra lo Stato autore dell’illecito ed altri soggetti internazionali ( non il solo danneggiato ), le quali nascono direttamente dal comportamento criminoso e che hanno lo scopo di mettere in una situazione di soggezione l’agente violatore del diritto (7).
Ai fini della nostra analisi assume una certa importanza, come osservato precedentemente, il lavoro svolto dalla Commissione di diritto internazionale, avente come scopo la compilazione di un “codice” sulla responsabilità degli Stati. Esso è iniziato dal lontano 1953 ed ancora non ha visto il suo termine, data la complessità della materia e soprattutto la sua implicazione con la politica. Nel 1980, tale Commissione ha approvato in prima lettura soltanto un progetto di articoli; i primi 35 del futuro codice riguardante l’origine della responsabilità (8). A differenza dei precedenti testi normativi, questo considera la responsabilità degli Stati rapportandola a qualsiasi violazione di norme internazionali, e non limitata ad una singola branca settoriale (9). Il progetto assume grande rilevanza anche per l’influenza che esercita nei vari ambienti dottrinali e per l’autorità scientifica da cui promana, la quale ha tra i suoi compiti, quello di portare uno sviluppo progressivo dello stesso diritto internazionale ( il suo pregio però ne costituisce anche il limite, poiché la sua caratteristica di essere ardito quanto ai contenuti lo rende ancora oggi non accettabile da parte degli Stati ).
I giuristi si sono spesso chiesti se fosse davvero utile procedere alla distinzione degli illeciti sulla base del contenuto degli obblighi internazionali la cui violazione dà luogo a responsabilità (10). Queste differenziazioni non possono certo portare a ritenere che, qualora la norma violata abbia un determinato contenuto, si debba escludere la responsabilità: è ciò che si afferma nel progetto della Commissione del diritto internazionale, << il fatto di uno Stato che costituisce una violazione di un obbligo internazionale è un fatto internazionalmente illecito, quale che sia l’oggetto dell’obbligo violato >>.
Un’eventuale distinzione fondata sul contenuto delle norme violate può avere un senso in relazione alle conseguenze che possono derivare da una violazione degli obblighi ed ai soggetti legittimati a far valere tali conseguenze. Su tali premesse, come detto, la Commissione suddetta ha ritenuto di accogliere una differenziazione basata sull’importanza per la Comunità internazionale dell’obbligo violato, distinguendo tra il “delitto internazionale” ed il “crimine internazionale”. Mentre il delitto costituisce la forma ordinaria di illecito, essendo definito per negativo, come ogni fatto illecito che non costituisca un crimine, quest’ultimo invece, viene così delineato nel progetto della Commissione: << Il fatto internazionalmente illecito che risulta da una violazione da parte di uno Stato di un obbligo internazionale così essenziale per la salvaguardia di interessi fondamentali della comunità internazionale, che la sua violazione è riconosciuta come un crimine da detta comunità nel suo insieme, costituisce un crimine internazionale >> ( art. 19, par. 2 ).
Non è difficile notare in questa definizione un certo carattere di circolarità analogo a quello riscontrato nell’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati per quanto attiene alla definizione delle regole internazionali di ius cogens. La Commissione ha però voluto dare maggiore concretezza alle sue proposte, completando la definizione del crimine con una disposizione esemplificativa ( art. 19, par. 3 ), in cui s’afferma che, sotto riserva della definizione stessa e << secondo le regole del diritto internazionale in vigore, un crimine internazionale può tra l’altro risultare: a) da una violazione grave di un obbligo internazionale di importanza essenziale per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, come quello che vieta l’aggressione; b) da una violazione grave di un obbligo internazionale di importanza essenziale per la salvaguardia del diritto di autodeterminazione dei popoli, come quello che vieta l’istituzione od il mantenimento con la forza di un dominio coloniale; c) da una violazione grave e su larga scala di un obbligo internazionale per la salvaguardia dell’essere umano, come quelli che vietano la schiavitù, il genocidio e l’apartheid; d) da una violazione grave di un obbligo internazionale di importanza essenziale per la salvaguardia e la preservazione dell’ambiente umano, come quelli che vietano l’inquinamento massiccio dell’atmosfera o dei mari >>.
La nozione di crimine internazionale che è stata sostenuta in dottrina con particolare impegno dagli autori sovietici è indubbiamente prossima a quella di una violazione di norme di carattere imperativo. Rimane aperta la discussione se, come sostiene qualcuno, ogni violazione di norme di ius cogens si debba considerare un crimine internazionale o se, come opinano altri, si possano avere violazioni dello ius cogens che non costituiscono crimini internazionali. Resta però certo che le regole più spesso indicate come esempi di norme cogenti sono quelle stesse la cui trasgressione è generalmente indicata quale crimine internazionale.
Come per lo ius cogens, l’elemento essenziale per l’identificazione delle norme di cui trattasi è dato dal riconoscimento della Comunità internazionale nel suo insieme. Al fine di consentire un’equilibrata valutazione di questa nuova nozione, sembra importante prevedere che l’esistenza di un crimine internazionale debba essere sempre stabilita da un’istanza internazionale, quale il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, per certe materie, e la Corte internazionale di giustizia, per altre.
L’introduzione nel progetto in articoli citato della definizione del crimine internazionale non ha mancato di suscitare preoccupazioni a livello dottrinale. Si teme infatti da taluni che tale nozione possa portare a situazioni in cui qualsiasi Stato o gruppo di Stati si assuma investito della funzione di “giustiziere” e proceda unilateralmente alla comminazione di sanzioni. Vi è anche il pericolo che essa possa far nascere aspettative e pretese suscettibili di creare incertezza su pilastri fondamentali del diritto internazionale, quali il divieto dell’uso della forza, e su principi generali, come il nullum crimen sine lege. Il fondamento di tali preoccupazioni potrà però venire valutato soltanto dopo che la Commissione del diritto internazionale avrà compiutamente definito le conseguenze da ricollegare al crimine internazionale.
La nozione riferibile a quest’ultimo va sicuramente in una direzione di “moralizzazione” del diritto internazionale. E’ però difficile ritenere che essa faccia già parte del diritto vigente. Le accurate indagini dell’Ago dimostrano infatti che, al di là delle affermazioni dottrinali e delle prese di posizione di un certo numero di Stati, quasi tutti del medesimo orientamento politico, la prassi internazionale è ben lungi dall’essere univoca ed è assai povera di casi in cui, in base al diritto internazionale generale, si sia dato luogo a conseguenze giuridiche differenziate per violazioni di norme cui si attribuisce un’importanza fondamentale. Gli argomenti principali su cui si basa la proposta della Commissione mostrano, infatti, quanto moralmente apprezzabili siano i motivi che ne stanno alla base e quanto, dall’altra, essa si muova sul terreno dello sviluppo progressivo del diritto internazionale. Ad esempio, pur essendo indiscutibile che principi come il “divieto dell’uso della forza” previsto nella Carta dell’O.N.U. facciano oggi parte del diritto consuetudinario, è difficile ritenere che altrettanto valga per quanto riguarda i meccanismi che tale testo prevede si mettano in atto in caso di violazione di essi.
 
Note :
 
(1) (2) (3) A tale proposito : G. CARELLA, La responsabilità degli Stati per crimini internazionali, Napoli, 1985, p. 6 ss.
(4) Si veda: G. CARELLA, op. cit., p. 6 ss.
(5) Il pensiero di tali autori è in : G. CARELLA, op. cit., p. 20 ss.
(6) Sempre :G. CARELLA, op. cit., p. 20 ss
(7) Così: N. RONZITTI, op. cit., p. 2 ss.
(8) La storia del progetto citato è brevemente riportata in: B. CONFORTI, op. cit., p. 332 ss.
(9) Si veda : A. DE BONIS, “国际法:9.11事件真是一种侵略行为吗?”, Pechino, 2006.
(10) Si rinvia a : GIULIANO – SCOVAZZI – TREVES, Diritto internazionale, Milano, 1991, p. 435 ss.
 

De Bonis Andrea

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