Sulla conoscenza

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I fattori epistemici

 

            Il termine “conoscenza” può declinarsi in tre modi differenti come conoscenza “diretta” di oggetti ed eventi, “competenziale” derivante da abilità e capacità acquisite, ed infine “proposizionale” in cui il soggetto cognitivo è a conoscenza di una posizione qualsiasi (S sa che P), ne consegue la necessità che possa essere verificata e controllata la conoscenza proposizionale in modo che la credenza di S sia vera e giustificata.

            Nell’impegnarsi nella ricerca sulla verità di P, si è parlato di una verificabilità dipendente dalle nostre capacità (Dummett, Wright), ma anche di una verità che è più semplicemente opportuno credere perché confacente alle nostre utilità, vantaggiosa (James, Pierce), sebbene contrastanti l’elemento di congiunzione è la fattività della ricerca che obbliga al ragionamento, superando la fortuità del caso o delle semplici congetture.

            Evidenza empirica, ragionamento valido, coerenza con l’insieme delle altre credenze, processo cognitivo affidabile, sono tutti elementi che inducono a giustificare epistemicamente le credenze, a queste deve tuttavia aggiungersi un’ulteriore cognizione, la mancanza di una proposizione vera che sia in grado di minare la giustificazione della credenza sulla proposizione, Nozick pone una diversa soluzione, la possibilità di una somiglianza tra condizioni simili, per cui se “P non fosse vera, allora S non crederebbe che P” ma se “P fosse vera, allora S crederebbe che P” (teoria condizionale).

            Nella ricerca di una giustificazione epistemica interviene il complesso rapporto con la variabilità del contesto (Cohen), la certezza assoluta è difficile, si richiede pertanto un più semplice alto grado di giustificazione sullo stato, in questo varie teorie si alternano nel tentativo di rispondere al problema del regresso, ossia al principio della necessità di una chiusura epistemica nel rimando da una giustificazione alla precedente, la catena per il fondazionalismo viene ad interrompersi quando viene raggiunta una credenza giustificata in modo non – inferenziale (Russell), come nell’ipotesi in cui è la stessa virtù del processo cognitivo che le giustifica senza ulteriori rimandi, non altrettanto nel coerentismo dove sono le interrelazioni tra credenze che crea la rete coerente necessaria e sufficiente su cui appoggiare la giustificazione, la coerenza tuttavia non è sufficiente di per sé ad affermare la verità.

            Si tratta in tutti i casi di un internismo epistemico, dove la giustificazione è determinabile esclusivamente attraverso la sola riflessione, nel superare la giustificazione in termini esclusivamente interni Goldman propone di ricorrere all’affidabilismo, in cui la giustificazione di una credenza deriva dall’alto numero di credenze vere che un determinato processo cognitivo produce, in questo vi è un rifarsi anche a fattori esterni nella determinazione della giustificazione epistemica, si supera il puro internismo a favore di un esternismo che nel legare credenza e verità valuta le risultanze esterne.

            Il legame tra abilità intellettuali, giustificazione e conoscenza è riconosciuto come centrale dall’epistemologia della virtù (Sosa, Zagrebski), dove una proposizione è considerata vera non tanto come prodotto di un processo cognitivo affidabile (affidabilismo), quanto come prodotto di capacità o virtù intellettuali che portano verso la verità, è quindi il possesso di determinate capacità o competenze, dette genericamente virtù, che permettono l’acquisizione di credenze per la maggior parte vere (Kvanvig), avendo pertanto lo status di conoscenza.

            Come risposta ad uno scetticismo assoluto nella ricerca della verità è stata avanzata anche una risposta contestualista, secondo cui il riferimento è agli standard ordinari che si accettano, ritenuti da noi sufficienti per i risultati richiesti, quando standard più stringenti potrebbero fare emergere verità diverse a cui riferirsi, si ha quindi il superamento della pura “conoscenza animale”, intuitiva, verso una “conoscenza riflessiva”, molto più difficile da ottenersi (Sosa).

            Se si sposta l’attenzione dal contesto dell’enunciazione a quello della valutazione (Mac Forlane), si può decidere quale degli standard di valutazione sono più appropriati alle circostanze, avendo quindi la possibilità di scegliere gli standard di valutazione più consoni alle circostanze, rendendo la nozione di verità relativa assoluta in rapporto agli standard di valutazione scelti per le circostanze considerate, rimanendo comunque il dubbio sui criteri adottati ai fini della determinazione della conoscenza, consegue che la conoscenza non è mai assoluta ma sempre “situata” all’interno del sistema di riferimento adottato e muta con il suo trasformarsi.

            Il dato osservativo è frutto di una concettualizzazione che nasce dalla teoria che si abbraccia, la quale è accolta e provata nel suo insieme ed i concetti in essa espressi sono individuati attraverso le relazioni che si instaurano tra loro nonché la visione del mondo che ha chi li possiede, trattasi di un principio olistico che si allarga dalla conferma della proposizione alla sua concettualizzazione e a sua volta si rapporta al principio della theory – ladedness dell’osservazione (Kuhun, Feyerabend), vi è pertanto la necessità di distinguere tra principi fondamentali e derivati, in quanto i sistemi epistemici se possono variare sui principi derivati, più difficile è giustificarli relativamente alle differenze sui principi fondamentali (Boghossian), è da considerare che coloro i quali stanno in una relazione tenderanno a non accorgersi delle modifiche del paesaggio, mantenendo gli standard conoscitivi pregressi (Husser).

 

Punti di vista

 

            Si è già affrontato il problema della distinzione relativa tra soggettivo ed oggettivo, una polarità che sfuma nella intersoggettività che il soggettivo assume nel momento in cui viene messo a disposizione del pubblico, la stessa azione nel mostrare il pensiero costituisce il momento di messa in comune di un pensiero inespresso, d’altronde l’oggettività si cerca di raggiungerla con “un distacco sempre maggiore dal nostro punto di vista “ (Nagel), un ideale, di oggettività definito dallo stesso Nagel come irraggiungibile.

            Nella ricerca dell’oggettività l’individuo pone se stesso su due punti di vista diversi, cercando di minimizzare nell’osservare se stesso quelle che sembrano essere influenze esterne deformanti, il ciclo viene a ripetersi nella ricerca di un sempre maggiore distacco ma la rincorsa procede in un’approssimarsi all’oggettività che non potrà mai essere totale, definitiva, occorre pertanto un elemento esterno che funga da termine di paragone, ossia in termini fisici di misurazione, il ripetersi dell’evento nelle stesse modalità in presenza delle stesse condizioni ambientali, ma dove entrano elementi non deterministici, quali la cultura, le emozioni, i sentimenti, quale può essere l’oggettività?

            Essa non può che essere solo parziale se si raffronta con la realtà, in quanto negli esseri viventi, compreso l’essere umano, può rivelare solo quello che è già in essi e gli sforzi che l’individuo può compiere possono solo avvicinarlo all’oggettività ma non ricomprenderla se riferito agli esseri biologici, d’altronde nella ricerca dell’oggettività l’individuo tende a proiettare la propria identità soggettiva, l’esperienza derivante dal raffronto con gli altri punti di vista non può quindi che limare la tendenza al giudizio oggettivo senza tuttavia poterlo pienamente conseguire.

            Si ha quello che Nagel definisce come una riduzione del soggettivo eliminando le apparenze per quanto possibile, questa tuttavia può riuscire solo nell’ipotesi in cui “il punto di vista specifico” venga omesso da quello che risulta essere l’oggetto della riduzione, vi è comunque l’impossibilità di ignorarlo permanentemente in quanto espressione del proprio mondo interno, circostanza che crea la coscienza mediante l’esperienza del proprio sé e del modo di essere.

            Vi è tuttavia la necessità di possedere in comune degli schemi mentali, per potere avvicinare il proprio sentire all’esperienza altrui derivante dalla sua visione, dal modo in cui viene osservato e vissuto il succedersi degli eventi, un “sufficientemente simile”(Nagel) che permetta non solo e non tanto di confrontare tra l’altro i necessari giudizi giuridici, quanto di creare un rapporto di fiducia tale che il fatto non venga letto in termini negativi, così come nell’ipotesi dell’austerity invocata quale garanzia all’incapacità di un vero taglio delle spese lobbistiche, in un muro contro muro tra Stati del Nord Europa e Stati mediterranei, dove la reciproca sfiducia alimentata dal sottacere del proprio agire mina la possibilità dell’investimento, inteso prevalentemente quale regalo infruttuoso a coaguli di interessi intoccabili presenti e futuri.

 

Un caso emblematico, Cefalonia

Parte seconda

 

            La difficoltà di una visione oggettiva dei fatti e il soggettivismo che ne consegue, quale frutto non solo degli interessi e utilità individuali ma innanzitutto dell’ambiente culturale e delle idee, emozioni e ideologie che lo pervadono, nonché della pressione sociale e tecnologica esercitata dal rapido evolversi degli eventi, è paradigmatica nel succedersi storico della loro lettura e dell’ evoluzione interpretativa e giuridica, sia in Italia che in Germania, di quanto accadde nel settembre 1043 a Cefalonia e che ebbe per soggetto tragico la Divisione “Acqui”.

            Da parte italiana vi furono periodi di glorificazione a cui seguirono lunghi periodi di silenzio, secondo le vicissitudini proprie della Guerra fredda, tentativi di fornirne letture di parte dando ai fatti significati e sensi ritenuti più opportuni ai vari interessi, trasformando i tragici avvenimenti che seguirono l’8 settembre o quali gloriosa volontà di une prima resistenza antifascista, o come insubordinazione premeditata che spinse e provocò la feroce reazione di fatto costituendone un’attenuante, o ancora, più semplicemente, l’esistenza in un momento di assoluta dissoluzione di un ancora vitale onore militare e fedeltà al giuramento tedesco si è ritenuto inizialmente di addossare la colpa per le azioni crudeli che si succedettero al momento della resa ai soli vertici militari, soltanto lentamente emerso dalle letture più articolate.

            Vi è tuttavia una differenza tra l’aspetto storico e quello giuridico che sostanzialmente risiede in una visione comparativa e corale contrapposta alla personalizzazione delle responsabilità, questo tuttavia non può escludere una permeabilizzazione dell’aspetto giuridico verso la contestualizzazione e descrizione storica dei fatti per una loro più esatta lettura, d’altronde mentre storicamente vi è una comparazione verticale nel tempo, in ambito giuridico la comparazione è orizzontale in uno spazio bidimensionale.

            Il caso Cefalonia è particolare  nell’ambito dei crimini di guerra proprio per il suo porsi ai limiti giuridici, non essendo nettamente interpretabile il rapido evolversi degli eventi e della condotta dei vari interpreti che si sovrapposero in quel settembre 1943, in ambito tedesco emerge il disprezzo per quello che si riteneva come un “secondo tradimento” da affiancarsi al primo della Grande Guerra, d’altronde l’occupazione del suolo italiano e il disarmo dell’esercito, sebbene illegittimo dal punto di vista del diritto internazionale in assenza di formale dichiarazione di guerra, rientrava nelle necessità proprie di una guerra totale, nella quale l’occupazione dell’Italia da parte alleata avrebbe portato direttamente le armate anglo-americane sul confine meridionale tedesco, quello che mancò fu l’immediata dichiarazione di guerra alla Germania da parte del Governo italiano che permettesse ai soldati di acquisire lo status di combattenti legittimi e i relativi diritti,

riducendosi il tutto all’ambiguo comunicato radio di Badoglio, il clima da Guerra fredda fece poi prevalere le ragioni di Stato a cui gli stessi ambienti politici statunitensi diedero manforte considerando necessario difendere, per la compattezza del blocco occidentale, comunque l’autorità e il prevalere degli ordini superiori su qualsiasi altra considerazione.

            Nel tentativo di scaricare la responsabilità nelle testimonianze si richiamarono non solo gli ordini superiori ma anche le ampie deleghe concesse ai gradi subalterni che permisero scelte autonome ai comandanti operativi sul campo, si ebbe quindi quella che Cohen definisce come una “responsabilità oscillante”, d’altronde la distinzione tra partigiani non considerati legittimi belligeranti, militari regolari delle FF.AA. italiane e popolazione civile, permise alle stesse autorità statunitensi di riconoscere l’illegittimità delle repressioni operate sulle truppe italiane (Pezzino).

            Le autorità giudiziarie tedesche disquisirono, una volta superata l’eccezione della necessaria obbedienza agli ordini gerarchici e del possibile “stato di necessità” sull’elemento della crudeltà al fine di valutare l’eventuale prescrivibilità del riconosciuto reato di omicidio, in questo ragionamento si introduce il concetto di differenziazione dei prigionieri militari italiani dai normali prigionieri di guerra protetti dalle convenzioni internazionali, circostanza che tenderebbe a giustificare parte della condotta dei militari tedeschi, vi è in questo sotteso il permanere del concetto di tradimento perpetrato dall’alleato italiano che fa sì del venire meno della particolare crudeltà e “viltà” nella reazione che ne è conseguita.

            Nella ferocia di una guerra ideologica la giurisdizione tedesca ha più volte richiamato il già indicato “stato di necessità” quale discriminante giustificazioni sta, la possibile violazione degli ordini conduceva a temere per la propria vita, non solo direttamente ma anche indirettamente con il trasferimento in altri settori bellici più esposti, inoltre il costante indottrinamento ideologico creava la pressione necessaria all’esecuzione di ordini illegittimi, circostanze che si rifacevano allo “stato di necessità” quale giustificazione per la violazione dei normali e legittimi canoni comportamentali, considerando lo stato di guerra.

            Sebbene nel tempo vi sia stata una maggiore responsabilizzazione dei militari relativamente a tutti i gradi, “con riferimento all’obbligo di non eseguire ordini manifestamente criminosi in circostanze nelle quali è possibile o agevole rendersi conto ovvero avere una consapevolezza del crimine che si commette eseguendo un ordine illegittimo del superiore” (319, De Paolis), resta una profonda differenza tra la giurisprudenza italiana e tedesca con riferimento alla posizione dei militari semplici, per cui vi è in ambito tedesco una esclusione partendo dal presupposto di una maggiore pressione gerarchica accompagnata ad una minore capacità valutativa, solo le modalità dell’esecuzione se accompagnate da crudeltà configurerà una specifica responsabilità.

            Maggiormente ci si allontana da una valutazione di rapporti puramente economica e maggiormente la norma acquista una soggettività interpretativa, basti pensare ai procedimenti a carico dei capitani Pampaloni e Apollonio della Divisione “Acqui” intentati alla fine della guerra,  per insubordinazione e sobillazione a seguito di alcuni esposti di parenti delle vittime, ma vi furono altri procedimenti per omicidio colposo e concorso in quello doloso, relativamente alle fucilazioni, rivolta, cospirazione, atti ostili e violata solidarietà, aventi per soggetto alcune decine di ufficiali italiani che furono così affiancati agli imputati tedeschi, accuse tutte rigettate ma che facilitarono l’archiviazione anche per i responsabili germanici.

            L’evoluzione  giurisprudenziale ha fatto sì che nella giurisprudenza tedesca la responsabilità si sia fatta scendere dai vertici ai gradi intermedi, facendo ricorso al concetto di comando dotato di “sufficiente autonomia”, anche se poi vi è il problema dell’individuazione fattiva sul campo di quali reparti fossero di tale autonomia, da parte italiana si è insistito sull’obbligo di non eseguire ordini palesemente illegittimi e criminali, anche da parte di semplici soldati, indipendentemente dall’aggravante della crudeltà o di supposte punizioni, poi non verificatesi, in caso di rifiuto, l’ultima sentenza n. 28 del 18 ottobre 2013, caso Stork Alfred, del Tribunale Militare di Roma viene a confermarlo (De Paolis), anche se deve riconoscersi che il citato caso della 14° compagnia del 98° reggimento Cacciatori da montagna, in cui vi fu durante le fucilazioni un rifiuto di tutto il reparto è un caso del tutto eccezionale che interviene a interrompere una già avvenuta parziale esecuzione dell’ordine ricevuto.

 

Nota

 

  • T. Nagel, Questioni mortali. Le risposte della filosofia ai problemi della vita, Il Saggiatore 2015;
  • P. Pezzino, Il rifiuto della giustizia penale, 285-300, E. M. De Paolis, La questione giuridica di Cefalonia nella giurisprudenza tedesca e italiana, in “Né eroi, né martiri, soltanto soldati. La Divisione Acqui a Cefalonia e Corfù settembre 1943, a cura di C. Brezzi, Il Mulino 2014.

(In memoria del Serg. Benedetto Sabetta, disperso a Cefalonia nel settembre 1943)

 

Dott. Sabetta Sergio Benedetto

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