Stalking (atti persecutori): matrice del delitto, vittima e carnefice.

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Affronto l’argomento, traendo spunto da una recente sentenza (Cass. Pen. Sez.V nr.36887 del 09-09-2013) per una ulteriore analisi, da altra visuale, sul delitto di “atti persecutori” o cosiddetto, con termine anglofono e di uso comune, “stalking”.

Sullo stesso tema si è già detto (quasi) tutto, ma è necessario comunque un breve excursus giuridico, prima di analizzare la pronuncia in oggetto.

Il suddetto reato e’ stato introdotto, com’è noto agli addetti ai lavori, con il “decreto sicurezza: misure di contrasto alla violenza sessuale e stalking” nel 2009 ed inserito nel nostro codice penale dopo l’art.612, ossia susseguente al reato di minacce.

Punisce, l’art.612 bis cod.pen., “chiunque”, con “condotte reiterate, minaccia (vedasi art.612 cod.pen.) o molesta (vedasi l’aggravio, in astratto come configurazione giuridica, della contravvenzione già prevista ai sensi dell’art.660 cod.pen.) taluno, in modo da cagionare un perdurante stato di ansia o di paura ovvero tale da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”.

Il “quid pluris” che caratterizza il delitto in esame è, quindi, costituito da due elementi che gravitano attorno allo stesso: la reiterazione delle condotte, ossia la necessaria pluralità di comportamenti minacciosi o molesti, affinchè il reato possa ascriversi nel novero dei delitti abituali; la produzione di un grave e “perdurante” nocumento, consistito in uno stato di ansia o di paura fondato.

Il delitto è un reato a fattispecie alternative, ciascuna delle quali è idonea ad integrarlo (cfr. Cass.Pen., sez.V, 21-09-2010 nr.34015).

Si tratta, dunque, di un reato “abituale”, che si caratterizza per la ripetitività della condotta e che trova proprio in questa situazione la ragione di una autonoma incriminazione rispetto ai singoli episodi di minaccia o molestia, perché è in essa che si manifesta l’offesa penale.

A tal proposito, le prodromiche doglianze quanto alla mancanza di indicazione del numero minimo di episodi sufficienti a configurare il reato in oggetto, comportando in tal guisa problematiche attinenti il principio di determinatezza, sono state superate non solo nell’ambito della discrezionalità del giudice su tale valutazione, ma altresì dalla Suprema Corte con varie pronunce (vedasi Cass. Pen., sez.V, 21-01-2010 nr.6417: “due condotte sono sufficienti”).

Nella originaria formulazione il delitto era punito a querela della persona offesa (nota: tranne alcuni casi procedibili di ufficio) ed il termine per la proposizione della querela era esteso a mesi sei.

È stato, com’è noto, modificato tale punto (nota: “decreto contro il c.d. femminicidio”, nr.93 del 14-08-2013 capo I, articolo 1, comma 3) introducendo la irrevocabilità della querela proposta, cosi come già previsto nel caso di perpetrazione di violenza sessuale, ex art.609 bis e ss. cod.pen.

Altre due note prima di affrontare il cuore della questione.

Il verbo inglese “to stalk” (trad.: inseguire) risulta corretto e ben rappresentativo della condotta in oggetto e sussumibile nel concetto più ampio di “camminare con circospezione” o “camminare furtivamente” ovvero “cacciatore in agguato”.

Nel linguaggio (giuridico) inglese è altresì assimilabile al verbo “to harass” (trad.: tormentare, molestare) ed alla condotta penalmente rilevante, nel diritto anglossassone, del c.d. “obsessional harassment”.

Sotto un profilo di criminogenesi (nota: ossia, secondo una delle definizioni, una branca della criminologia che studia l’insieme delle tendenze di origine genetica od ambientale che possono indurre una persona a compiere atti o comportamenti antisociali) il soggetto – “chiunque” – è spinto dal desiderio di recuperare un precedente rapporto ovvero viene commesso da persone con problemi di interazione sociale od, in senso estremo, da personalità definibili borderline (nota: disturbo borderline di personalità – dbp-).

Trattasi, in linea di massima ed astratta, di una persona (stalker) che non riesce sostanzialmente ad accettare l’abbandono del partner od altra figura significativa e che cerca di ristabilire il rapporto interrotto; ovvero di un individuo che nutre un rancore per una causa estranea ad un rapporto affettivo ma dovuta ad un altro tipo di rapporto (di lavoro, professionale).

In altri casi, ancora, lo “stalker” è un molestatore sessuale che individua l’oggetto del suo desiderio nella vittima (anche sconosciuta) ed effettua una serie di tentativi di approccio.

Ancor meglio è la definizione del Dott. Angelo Zappalà (all’interno di una conferenza tenutasi in questo mese di settembre 2013) secondo cui “trattasi di persone vissute in contesti familiari complicati, economicamente svantaggiati, vittime di abusi, abituati a risolvere i conflitti con violenza e concepire la donna come un oggetto”.

Ovviamente questa definizione è di carattere generale e squisitamente da psicologo-criminologo che non annovera necessariamente tutti i soggetti che commettono, volens ac nolens, il delitto: infatti potrebbe trattarsi di una persona “normale” (nota: ossia priva di patologie psicologiche o psichiatriche) che indiscutibilmente non vuole riconoscere la fine di una storia d’amore (se i due soggetti sono stati legati da un vincolo affettivo) e commette, certamente con coscienza e volontà (nota: trattasi, infatti, di reato a dolo “generico” consistente appunto nella coscienza e volontà sia della perpetrazione della condotta reiterata di minaccia e molestia, sia degli eventi alternativamente previsti) le condotte, ut supra definite dal nostro legislatore.

Seppur non possa ritenersi che vi sia una “ipotesi di eventuale correlazione fra eredità e delitto, nel senso che esistono taluni individui dotati, per ragioni genetiche, di una sorta di “predisposizione innata al delitto”, com’è altrettanto noto, a seguito di perizie, è entrato (rectius: accolto) nel nostro processo penale, il cosiddetto “fattore genetico”: ossia l’accertamento della imputabilità passa – anche – al vaglio delle indagini neuroscientifiche e morfologiche sul cervello e sul suo patrimonio genetico che si affiancano, con sempre maggiore pregnanza, alla metodica psichiatrica tradizionale (vedasi Trib. Como, G.I.P, dec. 20.08.2011; C.Ass.App. Trieste, 2009; contra: G.I.P. Trib. Venezia).

Questo per quanto riguarda, come visto, la valutazione sulla imputabilità/capacità d’intendere e di volere dell’individuo/indagato-imputato.

Sotto un’altra angolazione, speculare, ma dalla visuale del soggetto passivo/persona offesa dal reato (vittimologia), quest’ultima viene costretta a modificare la propria vita quotidiana (rectius: “alterare le proprie abitudini di vita”) per sfuggire alle reiterazioni di condotte commesse dall’agente, provocando profondi mutamenti nella sua vita ed uno stato di stress ed ansia latente (rectius: normale stabilità psicologica) che pregiudica la serenità e l’equilibrio quotidiano.

Si manifesta, la modifica delle abitudini, in quanto nelle tipiche ipotesi di condotte di “stalking” (o, meglio, di persecuzione), la vittima subisce pedinamenti od altre forme di controllo (ad esempio risulta spiata o sorvegliata attorno alla abitazione od al luogo di lavoro); oppure con comunicazioni intrusive dirette o con i suoi conoscenti (per via telefonica; sms; e-mail: nota: sulle molestie via mail la questione è aperta); ovvero con messaggi lasciati sull’automobile o sulla porta di casa; con l’invio di doni non graditi od atti vandalici subiti (per esempio, il taglio delle gomme del veicolo).

Lo “stalking” od atti persecutori è un argomento certamente di attualità, non tanto per il tam tam mediatico che cavalca l’onda lunga e temporanea (si intende come momento storico) di una particolare condotta antigiuridica, bensì giacchè le stesse statistiche lo confermano: se i delitti sessuali sono in calo, le denunce per stalking sono aumentate in modo esponenziale nell’anno in corso.

La suddetta generica statistica richiama, comunque, solo le denunce ed omette i casi di omicidio aggravati dalla condotta persecutoria (vedasi l’aggravante specifica, ex art.576 co.5.1 cod.pen.) purtroppo divenuti troppo “comuni” e sfocianti nel neologismo – improprio, a mio avviso – di “femminicidio”; né i casi di persecuzione perpetrati attraverso “strumenti informatici o telematici”, come previsto dal nuovo decreto legge nr.93 del 14.08.2013.

E’ stato, infatti, definito lo “stalking” dalla stampa come “reato sentinella” ossia come delitto che anticipa delle condotte illecite più gravi: seppur la suddetta definizione sia corretta, ritengo sia altrettanto giusto, estendendo il concetto, denominare il delitto in esame come “reato prodromico” (citando un richiamo contenuto nel manuale dei professori Fiandaca/Musco).

Trattasi, in senso lato, di una condotta – già punita ex lege – che potrebbe prevedere (come, purtroppo, già avvenuto) la perpetrazione di reati ancor più gravi.

Qualche giorno fa la commissione della Camera dei Deputati ha approvato, con emendamento presentato da membri del PD al c.d. “decreto sul femminicidio”, un provvedimento con cui si prevede l’utilizzo del “braccialetto elettronico” per gli “stalker”.

Con il suddetto apparecchio elettronico un individuo, allontanato dalla casa familiare (come si tratterà nel prosieguo) per ipotesi di reato di atti persecutori, potrà esser controllato per mezzo del suindicato “braccialetto” ovvero “mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici” , così come già previsto dall’art.275 bis cod. proc. pen. (nota: articolo inserito dall’art.16 co.II del D.L. 24-11-2000 nr.341, conv. In L. 19-01-2001 nr.4).

L’ipotesi introdotta è interessante, in primis in quanto si è fatto uso di una norma (rectius: articolo) già presente nel nostro ordinamento giuridico (rectius: codice di procedura penale), senza dover intervenire con l’introduzione (continua) di altre modifiche; in secondo luogo perché il suo utilizzo potrebbe avere, in concreto, una funzione “deterrente” da un lato (per l’agente) e “tranquillizzante” dall’altro (per la persona offesa) giacchè si sentirebbe più tutelata e “seguita” dagli operatori delle Forze dell’Ordine.

Resta solo attendere per verificare se tale norma sia concretamente (ed econiomicamente) applicabile (nota: per costi e personale addetto alla vigilanza di coloro che hanno “volontariamente” codesto “braccialetto”).

Quanto nello specifico all’art.275 bis cod.proc.pen. – ossia a “particolari modalità di controllo” tradotto: braccialetto elettronico – la Suprema Corte, con sentenze, ha chiarito che la previsione inserita con l’articolo in esame non introduce una misura coercitiva ulteriore rispetto a quelle elencate negli articoli 281 e ss. c.p.p., bensì unicamente una “condizione sospensiva della custodia in carcere, la cui applicazione viene disposta dal giudice contestualmente agli arresti domiciliari e subordinatamente al consenso dell’indagato all’adozione dello strumento elettronico” (vedasi Cass.Pen., sez.II, 10-12-2003 nr.47413).

Per inciso, ulteriori novità introdotte con l’emendamento suindicato, sono: (1) l’irrevocabilità della querela nei casi di minacce gravi e reiterate; (2) l’estensione delle intercettazioni telefoniche al reato di “stalking”; (3) l’introduzione di una aggravante generica per i reati di violenza commessi ai danni di minori o donne incinta; (4) ed, infine, il gratuito patrocinio in caso di assistenza legale delle vittime.

Trattasi certamente di un salto culturale non indifferente, seppur si deve attendere la decisione dell’aula plenaria di Montecitorio per mantenere tali modifiche.

Risulta, altresì, di interesse il contenuto (riferito ad un altro punto) dell’originario testo del decreto, quanto all’articolo 612 bis c.p., ossia la possibilità “fino a quando non è proposta querela, la persona offesa può esporre i fatti alla autorità di pubblica sicurezza, avanzando richiesta al Questore di ammonimento (orale) nei confronti dell’autore della condotta” (nota: si procede d’ufficio nel caso in cui lo “stalker” prosegua nella condotta molesta, a seguito dell’ammonimento del Questore – art.8 co.IV decr.leg. nr.11 del 23-02-2009).

Nel caso specifico non sono a conoscenza di alcuna statistica avente ad oggetto il numero di “ammonimenti” emessi dal Questore nei confronti di soggetti a cui viene mossa l’accusa – seppur non formalizzata in denuncia/querela – di aver commesso atti persecutori.

L’ammonimento viene emanato ed adottato, sottoforma di decreto, ai sensi degli articoli 7 e 8 della legge nr.38 del 2009.

Il Questore è chiamato, quindi, ad una valutazione discrezionale sulla fondatezza della istanza (promossa prodromicamente dalla parte offesa) finalizzata alla emissione dell’ammonimento, sulla base dei fatti esposti e degli elementi probatori forniti ed acquisiti dagli organi investigativi e dalle persone informate sui fatti, “senza che tuttavia sia necessario il compiuto riscontro della lesione al bene tutelato dalla norma penale, bensì soltanto la “ragionevole certezza”.

Ma è logico domandarsi, come può tutelarsi il potenziale “stalker” che ritiene illegittimo (ed ingiusto) l’emissione di tale provvedimento?

Attraverso l’impugnazione dinanzi al T.A.R. il quale, nel caso in cui – ad esempio – il “comportamento dell’amministrazione tradisca uno sviamento di potere”, giudicando così fondato il ricorso ed essendo nella fattispecie sotto esame carenti i presupposti per ogni misura amministrativa in tema di atti persecutori ovvero non conseguito il danno richiesto dalla normativa, può ritenere “incongruo” il decreto di ammonimento emesso (vedasi TAR Lombardia, Milano, sez.III, sent. nr.1205 del 06-05-2011).

Trattasi, in tal guisa, di un provvedimento (l’ammonimento) di natura amministrativa impugnabile dinanzi all’Autorità Giudiziaria (amministrativa).

Nel caso avverso in cui la persona offesa formalizzi con una querela gli atti persecutori che afferma e ritenga di subire (nota: potrebbe sempre esser “controdenunciata” per il reato di calunnia o subire un procedimento a carico per lo stesso reato, ex officio, qualora l’imputato-”stalker” venisse assolto nel processo), il “decreto sicurezza” originario aveva già previsto delle modifiche al codice di procedura penale per tutelare la stessa, in danno dell’indagato.

Trattasi, com’è noto, dell’art.282 ter cod.proc.pen. (“divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa”), ossia la misura coercitiva del divieto di avvicinamento ovvero di mantenere una determinata distanza dai luoghi frequentati dalla persona offesa: misura che si sposa con il già previsto “allontanamento dalla casa familiare” ai sensi dell’art.282 bis c.p.p. ma ancor più mirato, sulla falsariga di un provvedimento presente nei Paesi ove vige common law (nota: vedasi anche le “modifiche al codice di procedura penale e disposizioni concernenti i procedimenti penali per i delitti di cui all’articolo 572 del codice penale” che hanno introdotto il c.d. “allontanamento d’urgenza dalla casa familiare”, facoltà prevista per gli agenti di polizia giudiziaria, previa autorizzazione del pubblico ministero).

Alla luce della suindicata ed introdotta misura (cioè il “divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa”), la sentenza richiamata nel prologo della presente trattazione riguarda – come anticipato – una pronuncia della Suprema Corte che ha sancito come il soggetto responsabile di “stalking” sia tenuto a “cambiare strada” allorchè incontri la sua vittima, anche casualmente, ed indipendentemente dalla circostanza che quel luogo sia elencato nella misura cautelare emessa ai sensi dell’art.282 ter cod.proc.pen., in attesa del processo di merito che stabilisca la sua (reale) responsabilità penale.

Con la pronuncia in esame i giudici sanciscono che “assume primaria importanza la garanzia della libertà di movimento e di relazioni sociali della persona offesa da possibili intrusioni dell’indagato, che facendo temere la vittima per la propria incolumità, finiscano per condizionare e pregiudicare la fruizione di queste libertà”.

Da quanto fin qui enunciato si riscontra certamente una compromissione della libertà di movimento della persona sottoposta alle indagini in favore delle esigenze di sicurezza della persona offesa/vittima che, potendo “muoversi più liberamente” – ossia non indicando in modo specifico i luoghi abitualmente frequentati – ha una garanzia ulteriore (quantomeno apparente) di tutela della incolumità (nota: a cui si deve aggiungere, forse, la possibilità che lo “stalker” sia munito di “braccialetto elettronico”).

Tale trattazione, ai fini di una più cosciente comprensione delle norme indicate a tutela della libertà personale dell’individuo.

Alessandro Continiello

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