Sport e agonismo, un legame non sempre scontato

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Da sempre l’immagine di un centro sportivo, qualunque esso sia, è legato al concetto di competizione agonistica. Ciò è dovuto al fatto che la competizione sportiva è nata ben prima della realizzazione degli impianti ad essa dedicata. La costruzione di uno stadio è la conseguenza storica dell’abitudine di popoli come i greci o i romani, ma anche di popoli più antichi come i maya, di assistere a giochi di forza e di destrezza, antesignani dei nostri moderni sport.
 
Ciò ha portato, man mano, alla emanazione di regole dedicate alla costruzione ed alla conduzione degli impianti sportivi dando sempre e comunque per scontata la funzione alla quale destinarli. Non a caso, infatti, ancora oggi un qualunque impianto sportivo dovrebbe ottenere il parere favorevole del CONI tra le autorizzazioni necessarie per l’agibilità.
Inoltre, molto spesso gli amministratori pubblici sono attratti, in fase di progettazione, da misure cosiddette “olimpiche” per i propri impianti e valutano l’appetibilità della struttura sportiva in base alla categoria di omologazione per le gare, aspirando quasi sempre, laddove si può, a quella internazionale.
 
Ma è sempre vero che un impianto sportivo serve di più alla popolazione se è in grado di ospitare competizioni ad alto livello?
Un esempio eclatante è dato dai palazzi o palazzetti dello sport: strutture perennemente in deficit, un vero “buco nero” per le amministrazioni pubbliche, che nessun privato accetta di finanziare. Molto spesso vengono realizzati nel momento di gloria sportiva di una squadra locale, che ne ha bisogno per partecipare alle competizioni, e a volte tutto procede sufficientemente bene se la squadra rimane nella massima serie. Ma se disgraziatamente retrocede, il glorioso impianto sportivo si trasforma in tempo reale in una cattedrale nel deserto, fonte perenne di guai.
Perché?
Perché un palazzetto dello sport è quanto di meno idoneo possa esistere per l’attività sportiva che oggi la gente comune abitualmente pratica. A parte le squadre di basket, pallavolo, e poco altro, per “fare ginnastica” non serve un campo di gioco al coperto, basta un locale molto meno maestoso, però più raccolto, più piacevole, meglio areato, riscaldato e illuminato.
I numeri delle ricerche ISTAT non sono più quelli degli agonisti (che calano costantemente) ma sono quelli della gente comune che pratica sport per migliorare la propria forma ed il proprio benessere e per socializzare.
Sono cambiati i tempi e sono cambiate anche le esigenze.
 
Che senso ha, oggi, realizzare una piscina da cinquanta metri? Ce l’ha solamente se è destinata all’utilizzo da parte di una o più squadre agonistiche, altrimenti non ha il benché minimo senso di esistere. Costa di più sia realizzarla che gestirla e piace molto meno rispetto ad una vasca con giochi d’acqua e profondità variabile.
 
Questo è il motivo per il quale gli investitori privati, i cui capitali sono oggi sempre più indispensabili per riuscire a realizzare impianti sportivi pubblici, non sono praticamente mai interessati alla realizzazione di impianti destinati anche solo parzialmente ad un utilizzo agonistico.
 E hanno poche speranze di riuscita anche gli sforzi degli amministratori pubblici di mantenere quanto più possibile del cosiddetto “valore sociale” dell’impianto, erroneamente confuso con il valore sportivo.
Un impianto ha un valore sociale alto tanto più alto è il numero di persone che lo frequenta. Una vasca adatta alla pallanuoto accontenta un centinaio di atleti e qualche centinaio di tifosi, ma una vasca polifunzionale delle stesse dimensioni (ma non della stessa forma!) accontenta decine di migliaia di residenti nel comune dove è inserita e nei comuni limitrofi. Il valore sociale si misura con il maggior numero possibile di persone che si recano negli impianti a fare sport.
 
E’ comunque necessario salvaguardare anche la possibilità degli atleti di allenarsi, poiché l’agonismo sportivo rappresenta sempre un aspetto fondamentale per la crescita dei ragazzi e per la diffusione di valori “sani” tra la popolazione.
Non si potrà comunque arrivare ad una corretta politica di salvaguardia dello sport inteso in senso agonistico se prima non se ne riconosceranno le difficoltà attuali. Solo prendendo atto del fatto che non è pensabile lasciare ai privati il sostentamento di questo valore sociale, che non produce reddito e che costa risorse umane ed economiche, e che di contro gli impianti sportivi sono destinati a prendere altre strade, si potrà forse giungere ad una corretta politica economica che consenta di accentrare gli impianti destinati allo sport agonistico sostenendoli con l’intervento di capitale pubblico.
 
L’attuale confusione di ruoli, che si evidenzia anche nella struttura delle società che gestiscono gli impianti sportivi, porterà inesorabilmente alla morte dell’agonismo, consacrando come unico “sport” quello che un tempo era definito lo “sport di base”: non più attività di passaggio verso la creazione dei campioni, ma attività fine a se stessa.
 
La distinzione va fatta e deve essere netta. Lo sport destinato al benessere della persona deve veder riconosciuto il proprio valore come risorsa capace di generare crescita sociale ma anche economica ed imprenditoriale, così come risorsa capace di generare nuovi posti di lavoro (e non di volontariato malpagato). Il sostegno che va certamente dato a queste aziende va dato salvaguardando al massimo la crescita imprenditoriale e riconoscendo, finalmente, la legittimità di vivere del proprio lavoro producendo utili, che in parte vengano investiti in risorse umane retribuite e salvaguardate in modo corretto.
Ma le aziende incapaci di creare attività redditizie devono finalmente sparire dal mercato.
 
Chi invece dedica il proprio operato alla crescita dello sport agonistico va assistito in modo diverso, con interventi molto più mirati e sostanziali, soprattutto nella gestione degli impianti. Che bello sarebbe se lo sport agonistico non avesse più la necessità di ricorrere agli sponsor per sopravvivere! Vincere non sarebbe più il contrario di morire, imperativo al quale sacrificare qualunque dignità, ma si potrebbe riscoprire il valore del partecipare, in modo onesto e corretto. Questo sì sarebbe davvero sport.

Dott.ssa Prola Rossana

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