Sostenibilità e rischio di impresa -Responsabilità e vantaggi derivanti dalla gestione integrata dei rischi e dall’adozione di comportamenti aziendali sostenibili

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     Indice

  1. Premessa
  2. La responsabilità ambientale e sociale delle imprese
  3. La L. Costituzionale n. 1/2022: l’ambiente diventa un bene costituzionalmente tutelato
  4. Gli strumenti giuridici finalizzati a garantire il rispetto degli impegni di responsabilità sociale e ambientale: i sistemi di gestione integrati del rischio
  5. Gli adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili: l’inclusione dei rischi legati alla sostenibilità e il concetto di “successo sostenibile”
  6. Responsabilità ambientale e sociale dell’impresa e  Modelli di Organizzazione e Gestione ai sensi del D.lgs. 231/2001
  7. La finanza sostenibile: gli investimenti ESG
  8. Considerazioni conclusive: i vantaggi per le imprese derivanti dall’adozione di pratiche di responsabilità sociale e ambientale

1. Premessa

Le imprese, così come gli intermediari finanziari, si trovano oggi a dover affrontare una serie di inaspettate tipologie di rischio di difficile identificazione, quantificazione e prevenzione.

Basti penare, solo per citarne alcuni, ai rischi derivanti dall’emergenza sanitaria, climatica ed energetica.

L’attuale contesto sociale, infatti, – caratterizzato da una gamma di rischi mai sperimentati in precedenza – ha avuto un forte impatto sulle imprese, le quali sono state chiamate a rivedere i propri sistemi di governance e a dover ripensare a come orientare i propri investimenti al fine di tutelarsi da rischi inediti sempre più interconnessi, interdipendenti e imprevedibili.

Tale mutamento ha messo a dura prova i tradizionali sistemi di compliance aziendale, che quindi necessitano di essere rimodellati in chiave preventiva e su soluzioni integrate.  

A questa nuova esigenza sembra rispondere il Legislatore, il quale –  in primis attraverso la modifica dell’art. 2086 c.c. – invita (e talvolta obbliga) gli imprenditori a propendere verso logiche volte all’implementazione di un modello di business  strategico improntato all’aspetto ambientale- sociale e organizzato in un ottica preventiva del rischio: solo predisponendo strumenti di gestione dei rischi, infatti, essi si possono poi governare. Tale approccio implica che la nuova normalità sarà valutare un’impresa attraverso una pluralità di indicatori, tra cui il rispetto delle regole di responsabilità ambientale e sociale. Ciò sta accadendo tramite i c.d. “criteri ESG”, ovvero criteri di valutazione dell’impegno di un’azienda secondo tre dimensioni: ambientale, sociale e organizzativa (c.d. compliance aziendale). Le imprese con buone performance ESG, infatti, vengono premiate da investitori e consumatori.

L’attuale dibattito risulta oggi fortemente caratterizzato da un importante quesito: come gestire i nuovi rischi ESG e integrare il concetto di Sostenibilità nelle strategie di investimento?

La sfida di oggi è quella da una parte di convergere verso una integrata governance dei nuovi rischi da una parte e dall’altra quella di far emergere quanto una buona performance ESG sia proprio ciò di cui ha bisogno il nuovo business a lungo termine.

Per fare ciò, occorre, in primis, colmare il gap presente nelle “cultura del rischio”, aumentando la consapevolezza degli operatori economici del fatto che il risk management crea valore al business.

Il presente contributo, senza alcuna pretesa di esaustività, si svilupperà partendo dalla centralità che oggi le regole di responsabilità sociale e ambientale hanno assunto per le imprese, per poi delineare gli strumenti giuridici che le imprese possono/devono implementare per rispettare gli impegni di responsabilità ambientale e sociale (sistemi di gestione integrata, Modelli 231 e adeguati assetti organizzativi in un ottica di “sviluppo sostenibile”).

La trattazione proseguirà analizzando il tema degli investimenti sostenibili ESG che completano il quadro in tema di sostenibilità per poi esporre, infine, i vantaggi per le imprese (in particolare per le PMI che compongono la maggior parte del tessuto imprenditoriale italiano) derivanti dall’adozione di pratiche di responsabilità sociale e ambientale.

2. La centralità della questione ambiente per le aziende: la responsabilità ambientale e sociale delle imprese

Gli scandali finanziari verificatisi negli ultimi due decenni – quali, in primis, l’insostenibilità dei debiti sovrani e l’eccessiva esposizione al rischio di molte banche d’affari – hanno destabilizzato i sistemi economici occidentali determinando una profonda crisi sociale, che si è manifestata attraverso il calo occupazionale e il cambiamento dei consumi[1].

Parallelamente, negli ultimi anni, il cambiamento climatico ha assunto dimensioni sempre più preoccupanti – alterando non soltanto l’ecosistema e la nostra salute, ma anche l’economia – tanto da assumere i connotati di una vera e propria crisi ambientale globale.

Il clamore che hanno suscitato tali eventi, unitamente all’attuale crisi energetica senza precedenti dagli anni settanta del secolo scorso – che ha trovato origine in primis nelle difficoltà che l’offerta di fonti fossili sta incontrando nel tenere il passo alla rapida impennata della domanda post crisi pandemica[2] –  ha avuto come conseguenza l’impulso a considerare l’impresa sotto un profilo ancora poco sviluppato, ovvero quello etico e sociale.

Le aziende, infatti – consce del fatto che oggi la loro sopravvivenza e il loro successo sul mercato non dipendono più soltanto dalla massimizzazione del profitto, ma anche dall’assolvimento di impegni di natura sociale – hanno progressivamente reagito alle situazioni di crisi prestando particolare attenzione al concetto di sviluppo sostenibile, iniziando così a strutturare modelli di business che tengano conto dei temi sociali e ambientali.

Si è affiancato così al concetto “classico” di azienda, basato sui criteri tradizionali di economicità, protesi al raggiungimento di buone performance soltanto in termini di profitto, il concetto di sviluppo sostenibile, che ricomprende invece forme di crescita economica compatibili con l’ambiente e la salvaguardia delle risorse per le future generazioni.

In ordine temporale, la prima definizione di sviluppo sostenibile è stata quella proposta nel rapporto “Our Common Future” pubblicato nel 1987 dalla Commissione mondiale per l’ambiente (https://www.treccani.it/enciclopedia/ambiente) e lo sviluppo (https://www.treccani.it/enciclopedia/sviluppo) (Commissione Bruntland) del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (https://www.treccani.it/enciclopedia/programma-delle-nazioni-unite-per-l-ambiente), secondo cui «lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che garantisce i bisogni delle generazioni attuali senza compromettere la possibilità che le generazioni future riescano a soddisfare i propri».

Successivamente, quasi un decennio più tardi, l’International Council for Local Enviromental Initiatives, evidenzia la correlazione esistente fra la dimensione economica, ambientale e sociale nonché la necessità che ogni intervento di programmazione aziendale tenga conto delle reciproche interrelazioni tra tali elementi, definendo lo sviluppo sostenibile come «sviluppo che offre servizi ambientali, sociali ed economici di base a tutti i membri di una comunità, senza minacciare l’operabilità dei sistemi naturali, edificato e sociale da cui dipende la fornitura di tali servizi».

Un ulteriore riferimento è poi costituito dal rapporto OCSE del 2008 sullo sviluppo sostenibile che ribadisce le tre dimensioni della sostenibilità: ecologia, equità, economia[3].

Lo sviluppo sostenibile diviene, dunque, uno standard di riferimento nella creazione e applicazione di principi e norme di diritto internazionale dell’economia.

A dimostrazione di ciò è opportuno segnalare l’adozione, da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo sostenibile[4]. Si tratta di un documento di fondamentale importanza, in quanto stabilisce obiettivi universali «che mirano a eradicare la povertà, lottare contro le crescenti disparità e la discriminazione, promuovere la prosperità, la sostenibilità, la responsabilità ambientale, l’inclusione sociale, l’uguaglianza di genere e il rispetto dei diritti umani, garantendo la coesione economica, sociale e territoriale, rafforzando la pace e la sicurezza[5]».

Il mutamento del contesto culturale e sociale di riferimento, che ha reso necessaria un’attenzione da parte delle imprese alle tematiche ambientali e sociali, ha determinato così la nascita di una nuova “cultura di impresa” denominata Responsabilità Sociale di Impresa (RSI) o Corporate Social Responsability (CSR).

Ecco che allora la dimensione prettamente “economica” dell’impresa, tesa alla massimizzazione del profitto, si cumula con la dimensione “sociale”, che non mira soltanto alla soddisfazione dell’interesse degli azionisti di maggioranza, ma anche al rispetto dei diritti dei lavoratori e della comunità, nonché alla tutela dell’ambiente (c.d. approccio Triple Bottom Line)[6].

In prima approssimazione, si può affermare che il concetto di Corporate Social Responsability, si traduce in una manifestazione di volontà delle grandi, piccole e medie imprese di adottare un comportamento socialmente responsabile nei confronti delle problematiche di impatto etico – sociale[7].

La RSI, dunque, è innanzitutto una scelta volontaria, di tipo etico: le regole sue proprie provengono in larga parte da fonti di soft law (raccomandazioni, principi, linee guida), quindi non vincolanti dal punto di vista giuridico, ma che svolgono una funzione di arricchimento e valorizzazione dell’attività di impresa, potendo contribuire in modo decisivo alla reputazione dell’azienda che decide di adottarle e quindi al suo successo sul mercato.

Alla Responsabilità Sociale di Impresa non viene attribuita una definizione universale; poiché si tratta di un concetto legato ai continui mutamenti della società e dell’ambiente, nel tempo si sviluppate diverse teorie sia a livello nazionale che internazionale.

Una definizione relativamente recente è quella secondo cui la Responsabilità Sociale si identificherebbe con «un modello di governance allargata dell’impresa, in base al quale chi governa l’impresa ha responsabilità che si estendono dall’osservanza dei doveri fiduciari nei riguardi della proprietà ad analoghi doveri fiduciari nei riguardi in generale di tutti gli stakeholder[8], che è valido per ogni tipo di impresa al di là della sua struttura di proprietà e controllo[9]».

In ambito europeo[10], fondamentale è il riferimento al Libro Verde «Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese»[11], nel quale la RSI viene definita come «l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate».

Un’altra nozione di RSI è quella contenuta nella «Guida sulla Responsabilità Sociale delle organizzazioni» emessa nel novembre 2010 dall’International Organization of Standardization. In particolare, lo standard ISO 2600 costituisce uno standard internazionale che fornisce delle linee guida sulla Responsabilità Sociale delle Imprese e delle Organizzazioni e definisce la RSI come la «responsabilità di una organizzazione per gli impatti delle sue decisioni e delle sue attività sulla società e sull’ambiente, attraverso un comportamento etico e trasparente, che: contribuisce allo sviluppo sostenibile, inclusa la salute e il benessere della società; tiene conto delle aspettative degli stakeholder; è in conformità con la legge applicabile e coerente con le norme internazionali di comportamento;  è integrato in tutta l’organizzazione e messo in pratica nelle sue relazioni[12]».

Emergono così i due differenti ambiti applicativi delle regole sulla Responsabilità Sociale: da un lato l’attenzione delle imprese verso le problematiche sociali (con particolare riferimento all’approvvigionamento di capitali, alle risorse umane, a territorio e comunità locali), dall’altro la questione relativa alla tutela dell’ambiente.

Occorre evidenziare che l’attenzione alle problematiche ambientali – e, in particolare, agli aspetti relativi le potenzialità positive dell’impresa nei confronti dell’ambiente e alla mitigazione della loro attività produttiva sull’ecosistema – ha avuto minor credito rispetto a quella prestata già da tempo alle tematiche prettamente sociali, e ciò sia dal punto di vista della tutela istituzionale, nazionale e sovranazionale, che da quello della ricerca scientifica.

Basti pensare al fatto che inizialmente la tutela ambientale non era nemmeno considerata quale autonoma politica per le Istituzioni europee. All’interno del Trattato CEE, infatti, l’ambiente non era menzionato fra le politiche comunitarie, in quanto primarie erano le esigenze economiche relative all’abbattimento delle barriere commerciali all’interno del mercato interno europeo.

Di conseguenza, mancavano basi giuridiche per vincolare gli Stati membri a prevedere un sistema interno di norme e controlli in materia ambientale.

È soltanto con il Trattato di Amsterdam dell’ottobre del 1997 che la tutela dell’ambiente inizia ad assumere una valenza primaria nelle politiche comunitarie. Il Trattato, in particolare – prevedendo che «le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni dell’Unione, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile[13]» – consacra il c.d. «Principio di integrazione» delle istanze ambientali nelle altre politiche europee.

Soltanto con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona nel dicembre 2009, il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea dedica un intero Titolo – il Titolo XX – alla tutela ambientale. In particolare, l’art. 191 TFUE statuisce che «la politica dell’Unione in materia ambientale contribuisce a perseguire i seguenti obiettivi: – salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente; – protezione della salute umana; – utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali; – promozione sul piano internazionale di misure destinate a risolvere problemi dell’ambiente a livello regionale o mondiale e, in particolare, a combattere i cambiamenti climatici»[14].

Anche in ambito internazionale la nascita di un vero e proprio “diritto dell’ambiente”-  da proteggere come risorsa in sé e non solo in quanto funzionale alla fruizione da parte dell’uomo – è relativamente recente. Le tappe fondamentali di questo approccio, infatti, si sono snodate attraverso l’adozione di tutta una serie di atti internazionali che hanno trovato il loro fondamento nel sopra detto «Rapporto Brundtal» del 1983. Tale documento, menzionando la nozione di «sviluppo sostenibile», teorizza per la prima volta la possibilità di una cooperazione virtuosa tra impresa e ambiente[15].

Per quanto concerne il nostro Pese, l’interesse del Legislatore e della società verso le tematiche ambientali è sorto concretamente soltanto nell’ultima metà del secolo scorso.

Basti pensare che la nostra Carta Costituzionale, nella sua versione originaria, non contemplava l’ambiente quale bene oggetto di una specifica tutela e soltanto in tempi recentissimi –  con la L. Costituzionale n. 1/2022 – l’ambiente è diventato un bene costituzionalmente tutelato[16]. A livello di legge ordinaria, anche il c.d. Codice dell’Ambiente (Decreto Legislativo n. 152 del 3 aprile 2006) è di recente introduzione[17].

Dalla breve ricostruzione esposta, emerge come oggi per le Istituzioni comunitarie, nazionali e internazionali, la tutela dell’ambiente sia divenuta di primaria importanza[18].

Nel corso degli ultimi anni, infatti, si è assistito ad un incremento della normativa a difesa dell’ecosistema, che ha inciso significativamente anche sulle normative comunitarie che interessano il settore imprenditoriale e industriale[19].

Tutto ciò testimonia come oggi la RSI in materia ambientale debba considerarsi parte integrante delle politiche nazionali ed europee per lo sviluppo sostenibile.

Si è già osservato come il «Triple Bottom Line» sia un approccio caratterizzato non solo dalla massimizzazione del profitto, ma anche dal rispetto, da parte dell’impresa, dei diritti dei lavoratori, della comunità e dell’ambiente.

La Commissione Europea ha definito il «Triplice approccio» come «la concezione secondo la quale le prestazioni globali di un’impresa devono essere misurate in funzione del suo contributo combinato alla prosperità, alla qualità dell’ambiente e al capitale sociale[20]».

In relazione all’aspetto della tutela ambientale, in particolare, tale approccio permette di integrare il concetto di sviluppo sostenibile nella valutazione delle performance ambientali, attraverso target e indicatori ambientali[21]. Ecco che allora la valutazione della sostenibilità avviene seguendo tre binari: quello economico, al quale si fa riferimento in relazione alla capacità dell’impresa di generare ricchezza; quello sociale, inteso quale comportamento responsabile dell’azienda nei confronti dei vari stakeholder e quello ambientale, nel senso di attenzione all’impatto ecologico dell’attività produttiva.

Sebbene l’obiettivo primario dell’impresa rimanga in ogni caso il conseguimento del massimo profitto, l’imprenditore oculato sarà colui il quale sceglierà di svolgere l’attività produttiva in linea con il «Triplice approccio»; in tal modo egli riuscirà a conseguire il massimo risultato economico impiegando strategicamente le regole di RSI quale strumento di valorizzazione e differenziazione della propria attività di impresa, anche nell’ottica del raggiungimento di ottimi risultati in termini di reputazione sul mercato.

Si è detto che la recente attenzione da parte della società e delle Istituzioni al bene ambiente e, in generale, al tema della sostenibilità ambientale ha condotto allo sviluppo di un articolato sistema normativo a livello internazionale, europeo e nazionale.

Di conseguenza, da un lato si è ritenuto necessario dare vita ad un insieme normativo cogente teso alla prevenzione e alla riparazione dei danni ambientali; dall’altro, nell’ambito della più ampia categoria della Responsabilità Sociale, ha iniziato a prendere forma una più specifica Responsabilità dell’impresa verso la tutela ambientale[22]: la c.d. Corporate Enviromental Responsability)[23].

In particolare, la Responsabilità Ambientale d’Impresa è un modello di business che considera il rispetto dell’ambiente come un fattore competitivo, fondamentale per conquistare nuovi mercati e orientare le strategia di innovazione e sviluppo dell’impresa. Essa comprende quell’insieme di azioni volontarie poste in essere dalle aziende dirette a conseguire obiettivi di minimizzazione dell’impatto ambientale nel corso della propria attività produttiva[24].

Grazie alla sempre maggiore attenzione che i consumatori ripongono nelle scelte di mercato “verdi”[25], le imprese stanno iniziando a prendere in seria considerazione una modalità di produzione sostenibile, prestando attenzione non soltanto a “quanto”, ma anche a “come” produrre. L’interesse generale, dunque, preme affinché la tutela ambientale divenga uno dei principali obiettivi della politica aziendalistica contemporanea.

Pertanto, oggi è quanto mai necessario che la classe imprenditoriale comprenda che l’adozione di comportamenti volontari responsabili nei confronti dell’ambiente comporta molteplici vantaggi per le imprese sotto il profilo economico. L’adozione di pratiche di Responsabilità Ambientale e, più in generale, di Responsabilità Sociale, solo apparentemente sacrifica la massimizzazione del profitto, poiché, in realtà, tale scelta getta le basi per un guadagno maggiore e di lungo periodo[26].

La modalità con cui le imprese possono rispondere alle esigenze di tutela ambientale della collettività senza sacrificare il profitto è l’adozione di nuovi modelli di business caratterizzati dall’inserimento della salvaguardia ecologica tra i principi cardine dell’attività produttiva[27].

In conclusione, se da un lato l’adozione delle regole di RSI è una scelta volontaria delle imprese, dall’altro, l’accresciuto interesse per le tematiche sociali e ambientali da parte della società civile e la presenza di standard nazionali e internazionali che di fatto si sono imposti nei mercati globali, tale scelta sta diventando in un certo senso “necessaria” per gli imprenditori contemporanei.

3. Legge Costituzionale n. 1/2022: l’ambiente diventa un bene costituzionalmente tutelato

Il 22 febbraio 2022 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la legge costituzionale n. 1/2022[28] che, attraverso la modifica degli articoli 9 e 41 della Costituzione, sancisce definitivamente il riconoscimento da parte del Legislatore costituzionale dell’ambiente quale bene costituzionalmente tutelato.

Tale riforma riveste senza dubbio una portata dirompente, in quanto, per la prima volta dal 1948 viene apportata una modifica ad uno degli articoli della Costituzione inseriti tra i Principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale (artt. 1-12).

Per comprendere appieno la porta innovativa di tale riforma, è necessario tenere presente che la Costituzione, nella sua formulazione originaria, non conteneva disposizioni espressamente tese alla tutela dell’ambiente. I concetti di «ambiente» ed «ecosistema» sono stati introdotti a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione in relazione al riparto di competenze tra Stato e Regioni; dunque, anche all’epoca nessun riferimento alla tutela ambientale in sé considerata.

Nonostante ciò, la dottrina e la giurisprudenza costituzionale hanno tentato di attribuire un fondamento costituzionale alla tutela ambientale facendo ricorso ad altre disposizioni costituzionali.

In particolare, la Corte costituzionale ha utilizzato come base d’appoggio dapprima lo stesso articolo 9 della Costituzione, che, nella sua versione ante riforma, individuava al secondo comma, tra i compiti assegnati alla Repubblica, la tutela del paesaggio e del patrimonio storico artistico della Nazione. Orbene, la nozione di «paesaggio» è stata soggetta ad una interpretazione estensiva da parte della Corte costituzionale, includendo anche la tutela ambientale[29].

Tale interpretazione, tuttavia, aveva il limite di non offrire una copertura costituzionale a fenomeni che, pur non rientrando nella nozione di paesaggio inteso quale «forma del territorio e dell’ambiente», impattavano comunque sull’ambiente (si pensi, a titolo esemplificativo, alle emissioni in atmosfera). La giurisprudenza, dunque, ha ricercato fondamenti costituzionali ulteriori per fornire copertura anche a tali fenomeni. Ciò è stato fatto tramite il riferimento all’art. 32 della Costituzione inerente la tutela della salute. Dunque, a partire dalla storica sentenza della Corte costituzionale n. 210/1987 [30] il diritto alla salute di cui all’art. 32 della Costituzione è stato interpretato quale diritto dei consociati ad un ambiente salubre.

Infine, secondo la Corte costituzionale, tra i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale imposti dall’articolo 2 della Costituzione, rientrerebbero anche quelli di solidarietà ambientale. In tal modo la giurisprudenza è riuscita in ogni caso a garantire la copertura costituzionale a tutti i casi che non rientravano nell’ambito di applicazione degli articoli 9 e 32 della Costituzione.

Orbene, la legge costituzionale incide innanzitutto sull’art. 9 della Costituzione, introducendo tra i principi fondamentali la tutela dell’ambiente, della biodiversità, degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. Il nuovo articolo stabilisce, inoltre, che la legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali[31].

La riforma è intervenuta altresì sull’art. 41 Cost. – inserito tra le previsioni della c.d. Costituzione economica – il quale, nella sua nuova formulazione, dispone che «l’iniziativa economica privata è libera» e «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». L’articolo prevede inoltre che sia la legge a determinare «i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali».

La legge costituzionale, dunque, introduce due ulteriori limiti alla libertà di iniziativa economica privata, la quale non può svolgersi in contrasto con la salute e l’ambiente, oltre che con l’utilità sociale, la sicurezza, la libertà e la dignità umana. In sostanza, la nuova previsione consente al legislatore di imporre ai privati una internalizzazione delle esigenze ambientali nel contesto della loro attività di impresa modificando in tal modo l’idea stessa di attività economica privata[32].

Ad oggi, da un lato l’articolo 9 della Costituzione non tutela più soltanto il paesaggio, ma altresì l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi; dall’altro l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con la salute e l’ambiente.

Il Legislatore, dunque, ha sostanzialmente riscritto i rapporti tra ambiente, proprietà privata e libertà di impresa attribuendo centralità alle questioni ambientali.

La tutela ambientale diventa un bene costituzionalmente tutelato e, come tale, bilanciabile con gli altri interessi tutelati dalla Carta fondamentale. In particolare, oggi, la tutela della libera iniziativa economica deve essere in ogni caso bilanciata con il principio fondamentale della tutela dell’ambiente di cui al novellato articolo 9 della Costituzione.

Grazie alla novella – che ha cristallizzato gli indirizzi della giurisprudenza costituzionale sul punto – la tutela dell’ambiente assume formalmente un peso notevole (in quanto inserita tra i principi fondamentali) nel bilanciamento con altri interessi costituzionalmente tutelati.

Essenziale, inoltre, è il richiamo operato dall’articolo 9 comma 3 alle future generazioni. Tale riferimento, infatti, rende la tutela ambientale un principio intergenerazionale, in linea sia con quanto previsto da altre Carte costituzionali europee, sia dal principio dello sviluppo sostenibile, riconosciuto a livello nazionale, europeo e internazionale, che – secondo la definizione del Rapporto Bruntland – impone il perseguimento di uno sviluppo che garantisca i bisogni delle generazioni attuali senza compromettere la possibilità che le generazioni future riescano a soddisfare i propri[33].

4. Gli strumenti finalizzati a garantire il rispetto degli impegni di responsabilità ambientale: i sistemi di gestione e i sistemi di gestione integrati del rischio.

Oltre ai modelli di organizzazione e gestione che verranno esaminati nel prosieguo della trattazione, vi sono anche altri strumenti di regolamentazione e organizzazione dell’attività aziendale.

Sono i c.d. sistemi di gestione, ovvero un insieme di regole e procedure definite in una norma internazionale (c.d. standard internazionali) che un’azienda o un’organizzazione può adottare volontariamente[34], utili a perseguire l’obiettivo di un miglioramento continuo dell’impatto ecologico dell’attività di impresa.

In sostanza, si tratta di un corpus di norme elaborate a livello internazionale, pensate per regolamentare alcuni aspetti dell’attività aziendale al fine di garantire che questa si attenga ai principi di responsabilità sociale. In particolare, gli standard internazionali stabiliscono soglie minime da rispettare e offrono indicazioni per una gestione corretta di particolari aree o funzioni e impegnano l’azienda a rispettarle[35].

Vi sono differenti tipologie di sistemi di gestione in base al settore di interesse. In particolare, per il settore Qualità si individua la norma internazionale UNI EN ISO 9001; per l’ambito Salute e Sicurezza nei luoghi di lavoro è previsto lo standard UNI ISO 45001[36]; in relazione alla Responsabilità sociale dell’impresa si individua il sistema di norme SA8000; per il settore energia UNI CEI EN ISO 50001; per la Sicurezza delle informazioni, cybersecurity e protezione della privacy ISO/IEC 27002; per la Sicurezza alimentare ISO 22000.

Per il settore che qui maggiormente interessa, invece, il riferimento è ai c.d. sistemi di gestione ambientale (SGA) redatti uniformemente allo standard internazionale UNI EN ISO 14001[37], ovvero conformemente al Regolamento europeo EMAS (Economanagement and Audit Scheme)[38].

Il sistema ISO 14001 attesta la conformità di una azienda alla norma internazionale UNI EN ISO 14001 che specifica i requisiti dell’organizzazione aziendale volti a migliorare le prestazioni ambientali, adempiere agli obblighi di conformità e raggiungere i propri obiettivi ambientali.

In particolare, tale norma – «destinata all’utilizzo da parte di un’organizzazione che cerca di gestire le proprie responsabilità ambientali in un modo sistematico, che contribuisca al pilastro ambientale della sostenibilità» – definisce il sistema di gestione ambientale come «parte del sistema di gestione utilizzata per gestire aspetti ambientali, adempiere gli obblighi di conformità e affrontare rischi e opportunità».

Analogamente, il citato regolamento EMAS, descrive il sistema di gestione ambientale come «la parte del sistema complessivo di gestione comprendente la struttura organizzativa, le attività di pianificazione, le responsabilità, le pratiche, le procedure, i processi e le risorse per sviluppare, mettere in atto, realizzare, riesaminare e mantenere la politica ambientale e per gestire gli aspetti ambientali»[39].

Laddove un’organizzazione intenda uniformarsi a tale standard, deve adottare alcune precise procedure che trovano attuazione attraverso una serie di fasi che si ripercorrono di seguito per sommi capi[40].

La prima fase prevede la redazione della c.d. politica ambientale, che consiste in un documento programmatico con cui l’ente si fa carico di una mission consistente nel rispetto della normativa ambientale e nel raggiungimento di obiettivi di miglioramento dell’impatto della propria attività sull’ecosistema.

Terminato tale adempimento, la ISO 14001 prescrive il compimento di un’attività di pianificazione nell’ambito della quale l’ente è tenuto ad identificare gli aspetti ambientali significativi dell’organizzazione, stabilendo attraverso una sorta di mappatura dei rischi, quali siano le attività o i processi che possano impattare negativamente sull’ecosistema. Una volta mappati gli aspetti ambientali significativi, l’ente deve poi procedere alla identificazione e all’adempimento degli obblighi giuridici che incombono sull’organizzazione (ad es. provvedimenti autorizzativi, leggi nazionali, etc.).

Occorre quindi procedere alla fase di attuazione. L’ente deve definire ruoli, autorità, responsabilità e destinare risorse relative al sistema di gestione ambientale, anche mediante l’individuazione del responsabile della gestione ambientale (RGA); definire, attuare e mantenere specifiche procedure affinché tutte le funzioni operino nel rispetto dei principi della politica ambientale; definire procedure per il riesame, la modifica e l’aggiornamento del sistema; provvedere alla formazione del personale in relazione alle problematiche ambientali inerenti ai rispettivi settori di attività.

Infine, una corretta attuazione del sistema di gestione presuppone la sottoposizione allo stesso ad un regime di verifica al fine di valutare eventuali carenze o non conformità di comportamenti al sistema stesso.

Tale fase prevede azioni di monitoraggio, la definizione di un sistema per la valutazione e il rispetto delle prescrizioni, la definizione di procedure con cui affrontare le non conformità al sistema e lo svolgimento di audit interni.

L’attività di audit ha come obiettivo quello di operare una valutazione periodica e documentata del sistema di gestione ambientale e dei processi da esso previsti, nonché di valutare la conformità delle procedure alla politica ambientale.

In base alla documentazione di audit interno, la direzione può procedere a riesaminare il sistema di gestione, valutando l’opportunità di una eventuale modifica degli obiettivi, della politica ambientale, delle procedure e, in generale, di tutto il sistema di gestione nel suo complesso.

Una volta attuate le predette fasi e una volta poste in essere eventuali azioni correttive, l’ente può richiedere la certificazione ISO 14001 o avviare la procedura di registrazione EMAS. Infatti, tutte le fasi e le procedure descritte per la certificazione ISO 14001 sono prescritte anche per l’adozione di un sistema di gestione ambientale ispirato al regolamento europeo EMAS[41].

Gli standard internazionali possono applicarsi in modo integrato, dando luogo ad un sistema di gestione integrato. Quest’ultimo, appunto, può definirsi come un modello di gestione che nasce dall’integrazione di due o più standard internazionali tra quelli sopra menzionati (Qualità, Ambiente, Energia, Sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, etc.).

Nonostante tutti i sistemi siano integrabili in un unico modello gestionale, storicamente l’integrazione a interessato soprattutto gli standard per la Qualità (ISO 9001), l’Ambiente (ISO 14001) e la Salute e sicurezza sul lavoro (UNI ISO 45001).

Grazie all’integrazione dei sistemi di gestione, le aziende possono godere di un sistema di gestione integrato che consente loro di migliorare non solo la loro reputazione all’esterno, dunque agli occhi di consumatori e fornitori, ma altresì di migliorare i processi interni di produzione.

Naturalmente, l’implementazione di un sistema di gestione e di un sistema di gestione integrato rappresenta un costo per l’azienda, soprattutto se si tratta di una realtà produttiva di piccole o medie dimensioni.

Se, da un lato, per le PMI – quali la maggior parte delle aziende italiane – tali sistemi possono risultare economicamente difficili da attuare, dall’altro il controllo di gestione rappresenta uno strumento indispensabile alle PMI per competere in un mercato globale sempre più competitivo e orientato allo sviluppo sostenibile.

La strada da percorrere, dunque, sembra essere proprio quella che si pone nella direzione di incentivare le PMI ad adottare sistemi di gestione, in quanto ad oggi imprescindibili per lo sviluppo, la crescita e talvolta la sopravvivenza dell’impresa[42].


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5. Gli adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili: l’inclusione dei rischi legati alla sostenibilità e il concetto di “successo sostenibile”. Una possibile integrazione con i Modelli Organizzativi ex D.Lgs. 231/2001?

In una società, come quella attuale, in cui la dimensione del rischio pervade ogni ambito di attività, le imprese sono state chiamate a rivedere i propri sistemi di governance per tutelarsi dalle molteplici tipologie di rischi presenti nella nostra società contemporanea (basti pensare, ad esempio, all’emergenza Covid -19 e al cambiamento climatico). Tale nuovo contesto ha messo a dura prova i sistemi tradizionali di Corporate Compliance, i quali sono stati rimodulati su soluzioni integrate.

Solo una gestione integrata dei rischi, infatti, può offrire una adeguata interconnessione tra procedure, principi, organi di controllo e flussi informativi idonea alla corretta gestione dei rischi in un ottica di continuità aziendale.

Tale approccio, come noto, è ritenuto fondamentale dalle stesse Linee Guida di Confindustria, secondo le quali, sebbene la gestione degli obblighi di compliance possa implicare l’adozione di una pluralità di processi, il passaggio ad una compliance integrata risulta necessaria per orientale le imprese all’adozione di un complesso davvero efficace di misure organizzative, procedure e protocolli volti a governare i vari rischi aziendali prevenendo la crisi di impresa.

Proprio a questa esigenza sembra rispondere la novella introdotta dal D.lgs. 14/2019, che ha introdotto il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza.

Come noto, l’art. 375 comma 1 c.c.i.[43], sostituisce la rubrica dell’art. 2086 c.c. con la seguente: «Gestione dell’impresa».

La novella riflette l’intenzione del Legislatore di facilitare la rilevazione tempestiva della crisi di impresa e di incentivare le azioni necessarie a tutelare la continuità aziendale.

In particolare, il c.c.i. introduce il secondo comma dell’art. 2086 c.c. che prevede l’obbligo, in capo all’imprenditore che opera in forma societaria o collettiva, di implementare adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili in relazione alle dimensioni dell’azienda e alla natura e alla complessità dell’attività svolta.[44]

Lo scopo del «principio di adeguatezza» consacrato dalla norma, è dunque quello di garantire la tempestiva rilevazione dei segnali di difficoltà aziendale, assicurando l’emersione anticipata delle situazioni di crisi – ovvero degli squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario ex 13 c.c.i. – al fine di adottare uno degli strumenti previsti dal Codice per il superamento della crisi in un ottica di continuità aziendale.

Per la verità, tale obbligo non si riferisce testualmente ad ogni imprenditore: la previsione normativa, infatti, non allude all’imprenditore individuale, ma solo a quello collettivo (società o altro ente). Ciò, tuttavia, non significa che il primo non sia tenuto a conformarsi al principio di adeguatezza: il motivo, con ogni probabilità, risiede nel fatto che le imprese individuali generalmente sono incentrate sulla persona dell’imprenditore stesso e, dunque, sono caratterizzate da una struttura organizzativa generalmente poco complessa. In ogni caso, essendo quello di adeguatezza un principio di portata generale, deve ritenersi che, qualora l’impresa, seppure riferibile ad una persona fisica, presenti una certa complessità, anche l’imprenditore individuale ha l’obbligo di istituire un assetto adeguato della struttura societaria[45].

In questo senso muove anche l’art. 3 c.c.i., rubricato «Adeguatezza delle misure e degli assetti in funzione della rilevazione tempestiva della crisi d’impresa», nel quale è fornito esplicito riferimento all’imprenditore individuale che «deve adottare misure idonee a rilevare tempestivamente lo stato di crisi e assumere le iniziative necessarie a farvi fronte». La formulazione della norma rende secondario il riferimento alla forma giuridica e alle dimensioni per rendere applicabili le condotte virtuose di buona gestione che consentono la prevenzione delle situazioni di crisi[46].

Il dovere introdotto con il novellato art. 2086 co. 2 c.c. è poi richiamato, ad opera dall’art. 377 c.c.i., in tutti le tipologie societarie (artt. 2257, 2380-bis, 2409-nonies e 2475 c.c.) attribuendo l’implementazione degli assetti organizzativi alla competenza dei singoli amministratori o dell’organo amministrativo[47].

L’estensione dell’obbligo di dotarsi di adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili a tutti gli imprenditori operanti in forma societaria e collettiva, attraendoli ai doveri originariamente previsti soltanto per le società per azioni, mette in luce chiaramente la volontà del Legislatore di rispondere all’esigenza imminente di una crescita culturale da provocare ai diversi livelli della struttura organizzativa delle imprese, in particolare di quelle di piccole e medie dimensioni, favorendo la rimozione o comunque la riduzione di alcuni fattori critici quali il sottodimensionamento, la debolezza degli assetti di corporate governance, le carenze nei sistemi operativi e l’assenza di monitoraggio e pianificazione[48].

Orbene, l’adeguatezza è richiesta per l’assetto organizzativo, amministrativo e contabile. Per quanto riguarda il primo, si intende «l’insieme delle regole e delle procedure finalizzate a garantire la corretta attribuzione del potere decisionale in relazione alle capacità e responsabilità dei singoli soggetti. Ad ogni funzione aziendale investita da responsabilità deve corrispondere la competenza necessaria e sufficiente ad assumere correttamente le decisioni in funzione del grado di potere di cui dispone. L’adeguatezza dell’assetto richiede che la struttura organizzativa risulti correttamente formalizzata»[49].

Dal punto di vista operativo, occorre, in primis, procedere all’articolazione della struttura organizzativa in unità produttive, per poi procedere all’identificazione delle singole funzioni, all’assegnazione delle responsabilità e all’individuazione delle relazioni tra i vari organi.

Strumento fondamentale per la rappresentazione dell’organizzazione gerarchica dell’ente – la cui validità è data dal grado di dettaglio e completezza – è l’organigramma aziendale. Esso, infatti, rappresenta l’allocazione delle responsabilità organizzative delle unità operative, evidenziando ruoli, i legami funzionali e gerarchici, la divisione dei compiti e le responsabilità dei soggetti inseriti nell’organico aziendale.

L’adozione di un idoneo assetto organizzativo, corredato dal corretto svolgimento dei controlli interni e della gestione dei rischi, è funzionale alla rilevazione tempestiva della crisi e della perdita di continuità aziendale, con conseguente adozione degli strumenti posti dall’ordinamento per rimediare a tali situazioni.

Gli standard di riferimento per la disciplina dei sistemi di gestione – quali ISO 9001 (Sistema per la gestione della qualità); ISO 14001 (Sistema di gestione ambientale) ect. – hanno reso centrale il c.d. Risk Based Thinking. Si è visto, infatti, che tali strumenti assegnano un ruolo fondamentale non solo alla pianificazione e all’attuazione dei processi necessari a garantire il raggiungimento di determinati livelli di compliance normativamente imposti, ma altresì alla predisposizione di procedure specifiche di verifica, volti alla misurazione dei processi stessi.

L’assetto amministrativo – contabile si può invece definire come «l’insieme di tutte le procedure e direttive poste in essere allo scopo di produrre un’informativa societaria di matrice economica, finanziaria e patrimoniale che sia completa, tempestiva e attendibile. L’appropriata adozione di un assetto di siffatta natura permette la precisa rilevazione contabile che, si fini dell’approccio forward -looking richiesto dalla nuova normativa, dovrà essere sostenuta anche dalle informazioni che derivano da un adeguato sistema di controllo di gestione»[50].

In sostanza, l’adeguatezza degli assetti richiede di assicurare che i fattori di produzione disponibili siano congrui rispetto al programma che l’imprenditore intende svolgere; che il procedimento decisionale interno all’impresa sia coerente in relazione alla complessità dell’iniziativa imprenditoriale; che i centri decisionali siano sorretti da un sistema informativo che sia idoneo a mettere nelle condizioni di assumere decisioni ponderate; che il sistema informativo sia in grado di rilevare segnali di crisi mettendo gli amministratori nelle condizioni di attivare tempestivamente gli strumenti offerti dall’ordinamento per affrontare tali situazioni. Il principio di fondo di tutto l’impianto del nuovo Codice della Crisi è proprio che la pronta e tempestiva attivazione di strumenti appropriati favorisce la possibilità di superare la crisi, consentendo il ripristino del normale svolgimento dell’impresa, evitando la necessità di una sua cessazione.

Il Legislatore, con il nuovo c.c.i. – che impone all’imprenditore l’adozione di assetti organizzativi aventi la funzione di prevenzione della crisi e dell’insolvenza – adotta un approccio in chiave preventiva, analogo a quello che impronta la disciplina di cui al D.lgs. 231/2001.

In questo senso – posto che gli assetti, se adottati efficacemente ed adeguati, aiuteranno l’impresa a rilevare tempestivamente eventuali carenze e adottare le misure correttive più adeguate – l’assetto organizzativo che venga adottato, aggiornato, implementato e diffuso all’interno dell’azienda, potrà assurgere a Modello Organizzativo.

Nel rinnovato contesto organizzativo, il Modello di Organizzazione e Gestione ai sensi del D.Lgs. 231/2001 diviene uno strumento necessario non solo per prevenire la commissione dei reati e scriminare l’ente da una possibile responsabilità, ma anche per evitarne la crisi e la cessazione. Ed infatti, l’adozione di un Modello Organizzativo può fungere da base d’appoggio per la costruzione di un adeguato assetto aziendale funzionale alla prevenzione e all’adeguata gestione di una eventuale crisi. Del resto, è frequente che in un contesto di crisi, l’ente sia maggiormente esposto al rischio di commissione di uno dei reati di rilevanza 231, così come è stato riscontrato che nei contesti aziendali caratterizzati da una prassi di costante violazione del Modello 231, sia maggiore il rischio di verificazione di situazioni di squilibrio economico – finanziario.

Il rapporto tra assetti organizzativi e Modelli Organizzativi è dunque sinergico (seppure non perfettamente coincidente): da un lato i protocolli e le procedure previste dal Modello forniscono una base d’appoggio per i contenuti degli assetti e forniscono risposte organizzative per adempiere agli obblighi di cui all’art. 2086 comma 2 c.c.; dall’altro lato, un efficace Modello Organizzativo non può prescindere da un adeguato assetto organizzativo e gli adempimenti imposti dall’art. 2086 c.c. sostengono le imprese a prevenire i reati di rilevanza 231, ad esempio i reati societario, tra cui proprio l’impedito controllo (nota??).

D’altronde un imprenditore che ad oltre vent’anni dall’entrata in vigore del D.lgs. 231/2001 non abbia ancora adottato un Modello organizzativo finalizzato alla prevenzione dei reati e non ha introdotto in azienda protocolli e procedure volte alla prevenzione del rischio, come potrà convincere l’autorità giudiziaria dell’adeguatezza degli assetti organizzativi in ipotesi di crisi?

E’ evidente che un’organizzazione che abbia adottato strumenti di risk approach per la prevenzione dei reati, sarà già pronta ad estendere la metodologia organizzativa aziendale anche alla prevenzione dalla crisi di impresa.

La creazione di un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato, proprio come l’implementazione di un Modello di Organizzazione e Gestione implica la necessità per l’imprenditore di analizzare in concreto il proprio contesto aziendale, operare una valutazione del rischio, identificare i soggetti apicali, i preposti ed i rispettivi ruoli all’interno dei sistemi di gestione, nonché definire il sistema delle deleghe.

Utili ai fini della definizione dell’assetto organizzativo, inclusivo del sistema di controllo interno e di quello di gestione dei rischi aziendali, sono le best practices contenute nel Codice di Corporate Governance per le società quotate, pubblicato dal Comitato per la Corporate Governance [51].

In particolare, all’art. 1, il Codice prevede tra i compiti dell’organo di amministrazione, quello di definire «il sistema di governo societario della società e la struttura del gruppo ad essa facente capo e valuta l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società e delle controllate aventi rilevanza strategica, con particolare riferimento al sistema di controllo interno e di gestione dei rischi». Pertanto, il riferimento al sistema di controllo interno e a quello di gestione dei rischi, portano a considerare adeguato l’assetto in presenza della puntuale individuazione dei principali fattori di rischio aziendale e delle conseguenti attività di buona gestione e monitoraggio.

Il richiamo alla funzione del sistema dei controlli interni e di gestione dei rischi è presente anche nell’art. 6, principio XVIII, che definisce tale sistema come «l’insieme delle regole, procedure e strutture organizzative finalizzate ad una effettiva ed efficace identificazione, misurazione, gestione e monitoraggio dei principali rischi, al fine di contribuire al successo sostenibile della società», quest’ultimo inteso quale «obiettivo che guida l’azione dell’organo amministrativo e che si sostanzia nella creazione di valore nel lungo termine a beneficio degli azionisti, tenendo conto degli interessi degli altri stakeholders rilevanti per la società».

Il concetto di «successo sostenibile» è proprio il centro nevralgico della novella del 2020. Esso diventa il cardine del nuovo sistema di autodisciplina che testimonia il grado di crescente attenzione che le società quotate devono riservare alla individuazione di strategie indirizzate alla sostenibilità dell’attività svolta.

Più in generale, si può affermare che il parametro del successo sostenibile diventa il cardine di un nuovo modo di fare impresa: per garantire il mantenimento e il rafforzamento della capacità dell’impresa di creare valore per gli azionisti e per gli stakeholders e la ricerca del successo sostenibile dell’attività svolta, diviene sempre più necessaria l’adozione di procedure specifiche per il contenimento del rischio.

Anche nel Codice della Crisi si rinvengono elementi del diritto d’impresa sostenibile e il novellato art. 2086 c.c. ne è un chiaro esempio. La continuità aziendale, nella sua accezione di dovere di improntare la gestione dell’impresa ad un equilibrio economico – finanziario di lungo termine, implica la necessità di approntare sistemi di rilevazione periodica dell’andamento della gestione e della profilatura dei rischi.

Il «business sostenibile», infatti, comporta un dovere organizzativo e di pianificazione: la gestione diligente dell’azienda è quella organizzata in modo tale da prevenire l’emersione della crisi mediante l’implementazione di procedure da adottare in determinate situazioni che possono avere un impatto negativo sull’andamento economico.

Sostenibilità, dunque, implica la gestione dei rischi mediante la programmazione della situazione della crisi di impresa, che si attua attraverso l’individuazione di funzioni e soggetti titolari di determinati compiti e redazione di codici di condotta da adottare nella fase di emersione della crisi (nota).

Tale gestione dei rischi, oggi, deve necessariamente adottare soluzioni integrate in un’ottica preventiva, volta alla salvaguardia della continuità aziendale, in grado di generale profitti a lungo termine: una gestione, dunque, orientata al successo sostenibile dell’impresa.

6. Responsabilità ambientale e sociale dell’impresa e Modelli di Organizzazione e Gestione ai sensi del D.lgs. 231/2001

Tra gli strumenti giuridici utili a garantire la vincolatività degli impegni assunti volontariamente dall’impresa in ambito sociale e ambientale, vi sono senz’altro i Modelli di Organizzazione e Gestione previsti dal D.lgs. 8 giugno 2001 n. 231.

Su impulso del legislatore comunitario, ciascuno Stato membro ha disciplinato la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche per la commissione di illeciti dipendenti da reato.

Il nostro legislatore, ha provveduto con il D.lgs. 231/2001, il quale prevede uno strumento innovativo in grado di prevenire la commissione di talune tipologie di reato tassativamente previste dal decreto stesso[52].

In particolare, la riforma – introducendo per la prima volta nel nostro ordinamento una responsabilità penale delle persone giuridiche – permette di punire non solo la persona fisica autrice materiale dell’illecito penale, ma anche le persone giuridiche allorquando tali reati siano stati commessi nel loro interesse o vantaggio[53].

La finalità della riforma è duplice: da un lato scongiurare il rischio di commissione di determinati reati nei settori di attività in cui opera l’ente; dall’altro rendere il più possibile trasparente l’azione delle società a vantaggio anche della loro immagine. Lo strumento introdotto dal legislatore, infatti, offre l’opportunità alle imprese non solo di fornire adeguate garanzie in relazione alla commissione di reati societari agli investimenti dei soci e degli azionisti, ma anche di aumentare il vantaggio competitivo della società basando la politica aziendale sui principi etici.

L’articolo 1 del D.lgs. 231/2001 delinea l’ambito di applicazione delle disposizioni ivi previste. In particolare, destinatari del Decreto sono gli enti forniti di responsabilità giuridica e società (anche unipersonali) e associazioni anche prive di personalità giuridica[54]. Sono invece esclusi lo Stato, gli enti pubblici territoriali e gli altri enti pubblici non economici, nonché gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale.

I soggetti la cui condotta penalmente rilevante può far scattare la responsabilità penale dell’ente (i c.d. soggetti interessati) sono indicati all’art.5 comma 1 del Decreto. Si tratta delle persone che si pongono in posizione apicale della struttura societaria (ovvero che hanno funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa finanziariamente e funzionalmente autonoma) e di quelle che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dell’ente, nonché delle persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti sopra menzionati[55].

La normativa richiede che l’ente si doti di un modello di organizzazione e gestione che – attraverso la predisposizione e l’attuazione di protocolli e procedure – attui soluzioni preventive rispetto alla commissione di talune tipologie di reato (c.d. reati presupposto).

In questo senso, l’ente sarà chiamato a rispondere non di un reato estraneo al suo agire, ma della propria condotta negligente e inidonea a prevenirlo. In sostanza, ciò che viene imputato all’ente è un difetto organizzativo, un’inerzia nel predisporre adeguate misure idonee a prevenire reati nell’ambito della propria attività, che si aggiunge, a titolo di responsabilità soggettiva, a quella personale dell’autore materiale del fatto di reato.

Un importante limite al rischio di una responsabilità indiscriminata degli enti è rappresentato dal fatto che la società è sanzionabile soltanto nel caso in cui abbia omesso di attivarsi preventivamente mediante la predisposizione e l’efficace attuazione di un Modello di Organizzazione e Gestione idoneo a scongiurare il pericolo di commissione di uno dei reati presupposto.

In altre parole, secondo quanto previsto dall’art. 6 del Decreto, l’ente non risponde penalmente del reato commesso dalla persona fisica se ha adottato e attuato un Modello di Organizzazione e Gestione idoneo a prevenire reati della stessa specie di quello commesso.

Alla luce di quanto esposto, dunque, dal combinato disposto degli artt. 2392 c.c. (in tema di responsabilità degli amministratori) e 6 D.lgs. 231/2001 (relativo all’adozione dei MOG da parte delle società), si evince che l’unico modo per gli amministratori di evitare la responsabilità civile per i danni cagionati alla società e quella penale per omesso impedimento di reati è quello di adottare e attuare efficacemente un Modello di Organizzazione e Gestione.

Come detto, il MOG, per assolvere alla propria funzione scriminante, deve superare il vaglio di idoneità operato da un pubblico ministero prima e da un giudice penale dopo. Affinché ciò si verifichi, esso deve anzitutto prevedere la c.d. mappatura dei rischi, ovvero individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi i reati e implementare specifici protocolli diretti ad orientare l’attività e le decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire. È proprio questo il cuore pulsante della costruzione del compliance program, ovvero la messa in pratica di tutte le attività di risk assessement e di risk management consistenti nella valutazione del rischio di commissione dei «reati presupposto» cui l’ente è esposto e nella individuazione, nei singoli protocolli di gestione, delle misure organizzative ed operative da adottare nell’ambito dell’attività dell’ente per mitigare tali rischi.

Nell’ambito delle attività di valutazione e gestione concreta del rischio-reato cui l’ente è esposto, dovranno essere valutati, in particolare, la tipologia di mercato e business di cui si tratta per identificare la tipologia di rischi connessi all’attività svolta dall’ente.

Deve inoltre elaborare modalità di gestione delle finanze, sempre nell’ottica di prevenzione dei reati; assicurare l’operatività di un obbligo di informazione nei confronti dell’Organismo di Vigilanza e prevedere un Codice Etico. Si tratta di un documento che esprime i principi, i valori e le regole comportamentali a cui devono attenersi tutti i «portatori di interessi», ovvero dipendenti, fornitori, clienti, Pubblica amministrazione e azionisti, i quali sono tenuti ad una condotta improntata alla legalità e alla trasparenza delle procedure.

La vincolatività del Codice Etico deve essere garantita da un sistema disciplinare interno all’ente con la funzione di sanzionare adeguatamente i comportamenti difformi dai protocolli e dalle procedure previste dal MOG.

Al fine di conferire piena efficacia ai modelli organizzativi, la legge impone che all’interno di ogni società sia costituito un organismo con autonomia funzionale, c.d. «Organismo di Vigilanza», con il compito di vigilare sul funzionamento e sull’osservanza delle procedure previste dal Modello. In particolare, l’ODV è titolare di obblighi informativi nei confronti del Consiglio di Amministrazione, con il compito di segnalare eventuali deficienze del Modello, nonché di aggiornarlo in seguito a modifiche organizzative e normative.

All’uopo, i modelli organizzativi devono prevedere efficaci flussi informativi sistematici e cadenzati nei confronti dell’Odv.

Con una organizzazione di questo tipo, le persone fisiche potranno commettere reati soltanto eludendo fraudolentemente il modello 231 e in tale ipotesi, avendo l’ente posto in essere tutte le prescrizioni previste dalla legge volte alla gestione trasparente dell’impresa, non potrà essergli imputata alcuna responsabilità in relazione all’illecito commesso. Il tutto dimostrando sempre che non vi sia stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo di vigilanza.

Per quanto riguarda l’impianto sanzionatorio, il D.lgs. 231/2001 espone l’ente alle sanzioni afflittive previste dalla Sezione II del decreto in questione (artt. 9 e ss.). Si tratta di sanzioni pecuniarie e/o interdittive, oltre alla confisca e alla pubblicazione della sentenza. Si segnala che la sanzione pecuniaria e la confisca sono obbligatorie, nel senso che in caso di condanna devono venire sempre irrogate.

Si è detto che soltanto taluni reati, se commessi dai soggetti di cui all’art. 5 del decreto, possono fungere da presupposto per la responsabilità dell’ente.

A tal proposito, il decreto prevede un elenco tassativo di reati c.d. «presupposto» in continua evoluzione e ampliamento.

I principali reati previsti sono quelli commessi a danno delle Pubbliche Amministrazioni: si tratta, a titolo esemplificativo, di illeciti quali la malversazione ai danni dello Stato, l’indebita percezione di erogazioni ai danno dello Stato, la truffa (anche quella aggravata dalla finalità di conseguire erogazioni pubbliche), concussione, corruzione, abuso d’ufficio, etc..

Vi sono poi i reati legati ad eversione e terrorismo, delitti di criminalità organizzata, delitti contro la persona, falsificazione di monete, reati transnazionali, delitti contro l’industria e il commercio, reati societari, abusi di mercato, omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse in violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, delitti in materia di violazione del diritto d’autore, ricettazione, riciclaggio, reati tributari e reati ambientali.

In particolare, in tema di reati ambientali, si segnala che soltanto in seguito all’emanazione del d.lgs. 7 luglio 2011 n. 12 il quale –  aggiungendo al catalogo dei reati presupposto l’art. 25-undecies – ha esteso la responsabilità da reato degli enti collettivi anche ad alcuni reati ambientali[56], le sanzioni pecuniarie e interdittive sono state estese agli enti anche in relazione ai reati ambientali commessi nel loro interesse o vantaggio.

In relazione al settore ambientale, l’implementazione della c.d. Parte speciale del modello risente del saldo ancoraggio alla disciplina amministrativa settoriale e del rilievo investito dai sistemi di gestione ambientale.

In primo luogo, nella costruzione dei protocolli di gestione del rischio reato previsti dalla normativa 231/2001, assume primario rilievo la conformità dell’organizzazione dell’ente alla normativa amministrativa di settore. Ciò significa che tutti i protocolli, le procedure e le misure di prevenzione predisposte dall’ente nel modello di Organizzazione e Gestione devono essere finalizzate ad accertare che l’ente – mediante il rispetto delle norme amministrative ambientali – l’ente non superi il livello di rischio consentito legato alla propria attività ambientale.

Tutto l’impianto normativo previsto dal D.lgs. 231/2001 è conforme ai canoni previsti dalle regole di Responsabilità sociale e ambientale delle imprese, in quanto è legato al tipo di attività svolta dall’ente e alle sue dimensioni.

A tal riguardo, peraltro, l’ente può giovarsi dei menzionati sistemi standardizzati di gestione ambientale (ISO 14001 e Regolamento EMAS)[57] i cui contenuti in punto di generale impatto sull’ambiente dell’attività di impresa garantiscono un punto di generale impatto ambientale dell’attività di impresa, garantiscono un punto di riferimento nella costruzione del Modello 231.

È chiaro che modelli organizzativi e sistemi di gestione perseguono finalità tra loro profondamente differenti. Mentre con il MOG l’ente

Ilaria Veronesi

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