Sospensione esecuzione della pena detentiva per incendio boschivo

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L’esecuzione della pena detentiva per il delitto di incendio boschivo può essere sospesa
(Riferimenti normativi: Cod. proc. pen., art. 656, co. 9, lett. a); Cod. pen., art. 423-bis)
Corte costituzionale -sentenza n. 3 del 23-11-2022

Indice

1. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Savona sollevava, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, «nella parte in cui prevede “423 bis del codice penale” senza specificazione del riferimento al solo primo comma ovvero all’ipotesi dolosa».
In particolare, il rimettente esponeva come fosse stata pronunciata nei confronti dell’imputato sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti per il delitto di incendio boschivo colposo di cui all’art. 423-bis, secondo comma, cod. pen..
Ciò posto, a sua volta il pubblico ministero, nell’emettere il relativo ordine di esecuzione, aveva contestualmente chiesto al giudice rimettente, in qualità di giudice dell’esecuzione, di sollevare questioni di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. nei termini poc’anzi indicati.
Il GIP aveva quindi sollevato le predette questioni di legittimità costituzionale, disponendo – con separata e contestuale ordinanza, presente nel fascicolo del procedimento a quo – la sospensione dell’ordine di esecuzione nelle more dell’incidente di illegittimità costituzionale.
Nel dettaglio, in punto di rilevanza, il rimettente osservava che, sulla base del tenore letterale della disposizione censurata, la sospensione dell’ordine di esecuzione non potrebbe essere disposta in alcuno dei casi previsti dall’art. 423-bis cod. pen., e dunque anche nell’ipotesi in cui il fatto sia stato commesso per colpa fermo restando però che tale esclusione dalla regola generale della sospensione dell’ordine di esecuzione di pene detentive non superiori a quattro anni creerebbe tuttavia, secondo il giudice a quo, una irragionevole disparità di trattamento tra il delitto di incendio boschivo colposo e altri reati colposi «parimenti e più gravi», come «l’omicidio stradale, l’omicidio sul lavoro, l’omicidio dovuto a colpa medica o l’incendio ferroviario [sic]».
In tal modo, dunque, secondo il giudice a quo, il legislatore avrebbe ingiustificatamente «considerato pericoloso e dunque meritevole della carcerazione chi ha commesso un reato di modesta gravità e ha riportato condanna ad una pena detentiva breve», sulla base di una «aprioristica presunzione di pericolosità che travalica il limite costituzionale della ragionevolezza».
La disposizione censurata violerebbe, peraltro, sempre secondo il giudice rimettente, anche il principio secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato dal momento che, se «tale finalità rieducativa rimarrebbe completamente frustrata con un sistema automatico di carcerazione immediata senza possibilità di valutazione individualizzata da parte del tribunale di sorveglianza», il legislatore avrebbe in tal modo «sabotato la finalità rieducativa della pena a fronte di una condotta non particolarmente grave».

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2. La soluzione adottata dalla Consulta

Nel merito, le questioni erano reputate fondate, tanto in riferimento all’art. 3, quanto all’art. 27, terzo comma, Cost..
In particolare, il giudice delle leggi faceva prima di tutto presente che il comma 9 dell’art. 656 cod. proc. pen. stabilisce una serie di eccezioni alla regola generale, fissata dal precedente comma 5, secondo cui l’ordine di esecuzione della pena detentiva, emesso dal pubblico ministero quando la sentenza di condanna divenga definitiva, deve essere sospeso allorché la pena inflitta, anche se costituente residuo di maggior pena, non sia superiore a quattro anni, ovvero a sei anni nei casi previsti dagli artt. 90 e 94 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) e, tra queste eccezioni, l’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. – oggetto delle censure del rimettente – stabilisce che la predetta sospensione non possa avere luogo nei confronti dei condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nonché dei condannati per una serie di ulteriori delitti, tra cui per l’appunto quello di incendio boschivo, di cui all’art. 423-bis cod. pen..
Premesso ciò, la Corte costituzionale notava come la disciplina della sospensione dell’ordine di esecuzione della pena di cui all’art. 656, commi 5 e 9, cod. proc. pen. sia già stata oggetto di una nutrita serie di pronunce della Consulta, di cui la recente sentenza n. 238 del 2021 ha dato conto analiticamente.
Orbene, secondo la Consulta, da tale giurisprudenza emerge l’idea secondo cui «[i]l tendenziale collegamento della sospensione dell’ordine di esecuzione con i casi di accesso alle misure alternative costituisce un punto di equilibrio ottimale» (sentenza n. 41 del 2018, punto 5 del Considerato in diritto) dal punto di vista del principio di eguaglianza-ragionevolezza; in altre parole, la soluzione ottimale sarebbe – in linea di principio – quella di prevedere la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva nei confronti di ogni condannato che non si trovi già in carcere in stato di custodia cautelare (ipotesi, questa, cui si riferisce l’art. 656, comma 9, lettera b, cod. proc. pen.), ogniqualvolta la pena che egli debba integralmente espiare, ovvero la pena residua, sia contenuta entro i limiti temporali compatibili con l’accesso a misure alternative alla detenzione, e ciò al fine di consentire al condannato di proporre – nei trenta giorni successivi all’emanazione dell’ordine di esecuzione – istanza di ammissione a una di tali misure al tribunale di sorveglianza, ed evitargli così l’ingresso in carcere nelle more della decisione.
L’ingresso in carcere per condannati che si trovano nelle condizioni di poter chiedere una misura alternativa è, in effetti, sempre ad avviso dei giudici di legittimità costituzionale, problematico tanto dal punto di vista del principio di eguaglianza-ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., quanto dal punto di vista della necessaria finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost., e ciò per una pluralità di ragioni.
Anzitutto, perché l’ingresso in carcere determina sempre una brusca frattura dei legami del condannato con il proprio contesto familiare, sociale e – soprattutto – lavorativo, ostacolandone un percorso di risocializzazione che potrebbe essere già iniziato durante il processo quando il condannato stesso si trovava in stato di libertà o era comunque sottoposto a misura cautelare non carceraria (sul punto, mutatis mutandis, sentenza n. 28 del 2022, punto 5.1. del Considerato in diritto).
In secondo luogo, perché – come già rammentato dalla sentenza n. 216 del 2019 (punto 4 del Considerato in diritto) – quando la pena da scontare sia breve, è assai probabile «che la decisione del tribunale di sorveglianza intervenga dopo che il soggetto abbia ormai interamente o quasi scontato la propria pena»; eventualità quest’ultima «purtroppo non infrequente, stante il notorio sovraccarico di lavoro che affligge la magistratura di sorveglianza, nonché il tempo necessario per la predisposizione della relazione del servizio sociale in merito all’osservazione del condannato in carcere».
Infine, perché – come posto in luce dalla menzionata sentenza n. 41 del 2018 (punto 6 del Considerato in diritto) – ogni disallineamento tra i limiti temporali della pena ai fini della sospensione dell’ordine di esecuzione, e quelli per l’accesso alle misure alternative concedibili sin dall’inizio dell’esecuzione della pena, rende di fatto impossibile la concessione di misure alternative prima dell’ingresso in carcere ogniqualvolta la condanna sia ancora contenuta nel limite che consentirebbe l’accesso alla misura ma sia superiore a quello fissato per la sospensione dell’ordine di esecuzione, il che finisce per frustrare lo stesso intento perseguito dal legislatore nel dettare la disciplina della misura alternativa.
In particolare sulla base di quest’ultima considerazione, la Corte evidenziava come la medesima sentenza n. 41 del 2018 abbia dichiarato costituzionalmente illegittimo il limite di tre anni di pena detentiva, originariamente previsto dall’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. per la sospensione dell’ordine di esecuzione: limite che la sentenza in parola ha evidenziato risultare irragionevolmente disallineato rispetto a quello, attualmente di quattro anni, fissato dall’art. 47, comma 3-bis, ordin. penit. ai fini dell’accesso alla misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, fermo restando che la giurisprudenza costituzionale ha, peraltro, riconosciuto la possibilità per il legislatore di individuare, nell’esercizio della propria discrezionalità, eccezioni al «punto di equilibrio ottimale» rappresentato dalla regola generale della corrispondenza tra il limite di pena stabilito per l’accesso alla misura alternativa e quello stabilito ai fini della sospensione dell’ordine di esecuzione e, al tempo stesso, sempre la Consulta ha tuttavia precisato che proprio la natura «ancillare della sospensione rispetto alle finalità delle misure alternative» deve rendere «particolarmente stretto» il controllo di legittimità costituzionale riservato a tali ipotesi (sentenza n. 41 del 2018, punto 5 del Considerato in diritto), tenuto conto altresì del fatto che, nella stessa sentenza n. 41 del 2018, si è osservato che l’eccezione prevista nei confronti dei condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis ordin. penit. riposa sulla considerazione secondo cui, in tali ipotesi, «l’accesso alla misura alternativa è soggetto a condizioni così stringenti da rendere questa eventualità meramente residuale, sicché appare tollerabile che venga incarcerato chi all’esito del giudizio relativo alla misura alternativa potrà con estrema difficoltà sottrarsi alla detenzione» (ancora punto 5 del Considerato in diritto).
Ebbene, proprio sulla base di questa considerazione, si rilevava come la recente sentenza n. 238 del 2021 abbia ritenuto non irragionevole il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della condanna per il delitto di contrabbando di tabacchi lavorati esteri commesso adoperando mezzi di trasporto appartenenti a persone estranee al reato previsto dall’art. 291-ter, comma 1, del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale), che rientra per l’appunto tra i delitti sottoposti allo speciale regime di preclusioni all’ordinario accesso alle misure alternative dettato dall’art. 4-bis ordin. penit., così come parimenti la sentenza n. 216 del 2019 ha ritenuto immune da censure sotto il profilo costituzionale la puntuale eccezione rappresentata dal divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione nei confronti dei condannati per il delitto di furto in abitazione di cui all’art. 624-bis, primo comma, cod. pen. e il fondamento giustificativo di tale eccezione è stato qui ravvisato, in particolare, nella «discrezionale, e non irragionevole, presunzione del legislatore relativa alla particolare gravità del fatto di chi, per commettere il furto, entri in un’abitazione altrui, ovvero in altro luogo di privata dimora o nelle sue pertinenze, e della speciale pericolosità soggettiva manifestata dall’autore di un simile reato» (punto 3.1.1. del Considerato in diritto), vale a dire una speciale pericolosità che il legislatore ha ritenuto, con valutazione non censurabile, per la medesima Corte, in sede di legittimità costituzionale, atta a costituire «ragione sufficiente per negare in via generale ai condannati per il delitto in esame il beneficio della sospensione dell’ordine di carcerazione, in attesa della valutazione caso per caso, da parte del tribunale di sorveglianza, della possibilità di concedere al singolo condannato i benefici compatibili con il suo titolo di reato e la durata della sua condanna» (punto 3.1.2. del Considerato in diritto).
Orbene, a fronte di tale quadro ermeneutico, il giudice delle legge denotava come la precedente sentenza n. 125 del 2016 avesse, invece, giudicato «incongru[o]» (punto 2 del Considerato in diritto) il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione rispetto ai condannati per il delitto di furto con strappo di cui all’art. 624-bis, secondo comma, cod. pen., essenzialmente sulla base della considerazione che tale divieto non opera rispetto alla rapina (non aggravata), nella quale il furto con strappo può facilmente sfociare, a fronte della prevedibile reazione della vittima, e con conseguente illogicità di una disciplina più sfavorevole per chi sia condannato per un reato meno grave, pur se contiguo dal punto di vista criminologico.
Precisato ciò, concluso siffatto excursus giurisprudenziale, la Consulta, a questo punto della disamina, evidenziava come fosse chiamata a valutare nel caso di specie se – al metro di quel “controllo stretto” di legittimità costituzionale evocato dalla sentenza n. 41 del 2018 – sussistano sufficienti ragioni per sottrarre anche i condannati per il delitto di incendio boschivo colposo alla regola generale della sospensione dell’ordine di esecuzione che vige per tutti i condannati a una pena contenuta in limiti che consentano l’accesso immediato a misure alternative alla detenzione, i quali non si trovino in stato di custodia cautelare in carcere al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna.
Orbene, per la Corte costituzionale, la risposta non poteva che essere negativa.
Anzitutto, si considerava che il richiamo integrale all’art. 423-bis cod. pen., compiuto dalla disposizione censurata, fa sì che esso comprenda anche l’ipotesi, disciplinata dal secondo comma dello stesso art. 423-bis, in cui l’incendio sia cagionato per mera colpa e, per effetto di tale indifferenziato richiamo, l’incendio boschivo colposo si presenta oggi come l’unico reato colposo tra quelli per i quali l’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. prevede il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione.
Ebbene, per la Consulta, questa anomalia non viene in alcun modo giustificata nei lavori preparatori del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 24 luglio 2008, n. 125, al cui art. 2, comma 1, lettera m), si deve l’inserimento del riferimento all’art. 423-bis cod. pen. nella disposizione censurata poiché, in tali lavori preparatori, ci si limita a generici riferimenti a gravi e allarmanti fenomeni criminosi rispetto ai quali le esigenze di sicurezza della collettività appaiono maggiormente bisognose di tutela; fenomeni criminosi tra i quali il legislatore ha ritenuto evidentemente di iscrivere anche il delitto di incendio boschivo, fermo restando però che dai lavori preparatori non si evince alcuna specifica illustrazione sulle ragioni che hanno indotto il legislatore a includere tra i reati per i quali non opera la regola della sospensione dell’ordine di esecuzione anche quel delitto nella sua forma colposa, e ciò che potrebbe addirittura condurre a dubitare che la mancata esclusione di tale ipotesi – disciplinata all’interno della medesima disposizione che prevede la corrispondente fattispecie dolosa anziché, come di solito accade, in una separata disposizione – sia frutto di una mera svista del legislatore.
Proprio la natura colposa del delitto in questione rende, d’altra parte, sempre secondo il giudice delle leggi, estremamente problematica una plausibile giustificazione di tale eccezione dal momento che, ferma l’indubbia gravità del reato dal punto di vista oggettivo, è davvero arduo affermare che – dal punto di vista soggettivo – l’autore di una condotta meramente colposa manifesti una speciale pericolosità, tale da giustificare la scelta del legislatore di assicurarne un “passaggio in carcere”, in attesa della valutazione da parte del tribunale di sorveglianza dei presupposti per l’ammissione a una misura alternativa alla detenzione, rilevandosi al contempo come, a tal proposito, convenga rammentare che la generalità degli istituti che, nel vigente sistema penale, comportano aggravamenti della pena o del suo regime esecutivo in relazione alla particolare pericolosità soggettiva dell’autore si basano sulla commissione, da parte sua, di reati dolosi, evidentemente ritenuti gli unici che consentono affidabili prognosi di ulteriore commissione di reati.
«[N]on colposo» è il precedente delitto, accertato con condanna definitiva, che giustifica l’applicazione al soggetto della circostanza aggravante della recidiva (art. 99, primo comma, cod. pen.), il cui fondamento radica tanto nella maggiore colpevolezza dell’autore, quanto – appunto – nella sua accentuata pericolosità (da ultimo, sentenza n. 230 del 2022, punto 3.3. del Considerato in diritto); di delitti «non colposi» parlano le norme dedicate all’abitualità, tanto se presunta dalla legge (art. 102 cod. pen.) quanto se ritenuta dal giudice (art. 103 cod. pen.); dolosi sono i delitti “ostativi” all’accesso ai benefici penitenziari (art. 4-bis ordin. penit.) e quelli, in materia di misure cautelari, rispetto ai quali operano le presunzioni di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere (art. 275, comma 3, cod. proc. pen.).
Il criterio utilizzato dal legislatore in tutte queste discipline, d’altronde, ha un solido fondamento razionale: se non può in assoluto escludersi che anche chi ha commesso il fatto per negligenza, imprudenza o imperizia possa nuovamente incorrere in un’analoga disattenzione o trascuratezza, è solo l’intenzionale violazione della legge penale che può essere posta alla base di presunzioni non arbitrarie, da parte del legislatore, di un pericolo significativo di reiterazione di condotte criminose, tale da giustificare discipline che in via generale aggravino il trattamento sanzionatorio dell’autore, o lo sottraggano a benefici concessi alla generalità dei condannati.
Precisato ciò, la Consulta riteneva oltre tutto come a ragione il rimettente avesse denunciato, poi, la disparità di trattamento – creata dalla norma censurata – tra l’incendio boschivo colposo (punito con la reclusione da uno a cinque anni) e la generalità degli altri delitti colposi, ancorché questi siano di pari o superiore gravità, come si evince dal raffronto tra i beni giuridici tutelati e le rispettive cornici edittali – generalmente considerate, queste ultime, espressive della valutazione della gravità del reato da parte dello stesso legislatore.
Infatti, nel caso in cui la pena inflitta non superi i quattro anni di reclusione, ad esempio, l’ordine di esecuzione della pena detentiva resta sospeso nei confronti di chi sia stato condannato per omicidio colposo aggravato (punito con la reclusione da due a sette anni nel caso previsto dal secondo comma dell’art. 589 cod. pen., e con la reclusione da tre a dieci anni in quello previsto dal terzo comma della medesima disposizione), per omicidio stradale di cui all’art. 589-bis cod. pen. (punito nella fattispecie base con la reclusione da due a sette anni, e con pene ancor più severe in tutte le altre ipotesi), nonché per tutti i disastri colposi (soggetti, ai sensi dell’art. 449 cod. pen., alla medesima cornice edittale della reclusione da uno a cinque anni).
Particolarmente illogica appare, in questo contesto, sempre per la Corte, la disparità di trattamento tra i condannati per il delitto in esame e i condannati per il delitto, strutturalmente affine, di incendio colposo, che è posto a tutela dell’incolumità pubblica – e cioè della vita e dell’incolumità di una pluralità indeterminata di persone, dunque di un bene ancor più importante rispetto al patrimonio boschivo – e che è comunque punito con il medesimo quadro edittale previsto per l’incendio boschivo colposo, così come l’impossibilità di presentare domanda di ammissione ai benefici penitenziari in stato di libertà determinata dalla disposizione censurata comporta un ostacolo alla funzione rieducativa della pena, che ridonda in questo caso in una violazione anche dell’art. 27, terzo comma, Cost. atteso che, laddove il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione abbia una sua ragionevole giustificazione, come nelle ipotesi esaminate dalle sentenze n. 216 del 2019 e n. 238 del 2021, tale ostacolo – creato dalla necessità di ingresso in un istituto carcerario per scontare una pena detentiva breve o molto breve, con le conseguenze negative summenzionate – appare bilanciato dalla necessità, non arbitrariamente apprezzata dal legislatore, di far fronte a una spiccata pericolosità del condannato rivelata dalla particolare natura del reato (doloso) commesso o, comunque, discende dalla necessità di prendere atto di uno speciale sistema di preclusioni che rende «residuale» (sentenza n. 41 del 2018, punto 5 del Considerato in diritto) l’accesso alle misure alternative per i condannati per determinati reati mentre non così, invece, allorché una simile ragionevole giustificazione difetti, come accade nel caso dei condannati per incendio boschivo colposo, per i quali la disciplina censurata comporta un sacrificio del tutto inutile – anche nell’ottica di un’efficace tutela della collettività – rispetto all’orientamento rieducativo della pena, imposto dall’art. 27, terzo comma, Cost..
Ebbene, da tutto ciò se ne faceva conseguire come la disposizione censurata dovesse essere dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui stabilisce che non può essere disposta, nei casi di cui all’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., la sospensione dell’esecuzione nei confronti dei condannati per il delitto di incendio boschivo colposo di cui all’art. 423-bis, secondo comma, cod. pen..

3. Conclusioni

Con la decisione qui in esame, la Consulta, dopo un articolato e ben ponderato ragionamento giuridico, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale nella parte in cui stabilisce che non può essere disposta la sospensione dell’esecuzione nei confronti dei condannati per il delitto di incendio boschivo colposo di cui all’art. 423-bis, secondo comma, del codice penale.
Pertanto, per effetto di questa pronuncia, l’avere riportato una condanna definitiva per questo illecito penale non rappresenta più una condizione di per sé ostativa ai fini della concessione della sospensione dell’esecuzione della pena detentiva come, in precedenza, prevedeva l’art. 659, co. 9, lett. a), cod. proc. pen..
Ciò posto, il giudizio in ordine a quanto formulato in codesta sentenza, proprio perché si pone nell’ottica di un allargamento dei diritti concessi al condannato, in relazione alla possibilità di potere conseguire dei benefici penitenziari, non può che essere che positivo.

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