Cassazione penale, Sez. Un., 26 novembre 2020 (ud. 26 novembre 2020, dep. 17 marzo 2021), n. 10381 (Presidente Cassano, Relatore Fidelbo)
(Annullamento con rinvio)
(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 384)
Il fatto
La Corte di appello di Cagliari confermava una sentenza emessa dal Tribunale di Cagliari con cui l’imputata veniva condannata alla pena di sei mesi di reclusione per il reato di favoreggiamento personale.
In particolare, dalla ricostruzione dei fatti ritenuta nelle sentenze di merito – ricostruzione peraltro non oggetto di contestazione risulta che l’imputata, al fine di aiutare un conducente di un’autovettura, aveva provocato un incidente stradale in cui erano state coinvolte altre due autovetture e aveva dichiarato falsamente ai Carabinieri di essere stata lei alla guida dell’auto su cui invece viaggiava come terzo trasportato.
La falsa dichiarazione era diretta a favorire la posizione dell’effettivo conducente che, oltre ad essere privo della patente di guida perché revocata, dopo l’incidente si era allontanato senza prestare assistenza alle persone coinvolte nel sinistro dallo stesso provocato.
Il Tribunale aveva quindi riconosciuto la sussistenza del favoreggiamento personale in quanto l’imputata, con le sue dichiarazioni, avrebbe aiutato il conducente dell’autovettura ad eludere le investigazioni dell’autorità in relazione al reato di cui al D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 189, comma 7, non avendo prestato assistenza alle persone ferite (il riferimento alla contravvenzione di guida senza patente è venuto meno trattandosi di reato depenalizzato).
La Corte d’appello, a sua volta, nel confermare tale impostazione, aveva tuttavia individuato come reato presupposto del favoreggiamento il diverso delitto previsto dal D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 189, comma 6, (che sanziona l’inottemperanza all’obbligo di fermarsi in presenza di un incidente con danni alle persone) e, soprattutto, aveva escluso che nella specie potesse trovare applicazione la causa di non punibilità di cui all’art. 384 c.p., invocata dall’imputata sul presupposto dell’esistenza di un rapporto di convivenza con l’effettivo autore del reato presupposto.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso il provvedimento emesso dai giudici di seconde cure, proponeva ricorso per Cassazione il difensore di fiducia dell’imputata deducendo i seguenti motivi: 1) vizio di motivazione e violazione dell’art. 603 c.p.p. per avere la Corte d’appello omesso di pronunciarsi sulla richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, finalizzata ad accertare l’esistenza di una convivenza more uxorio tra l’imputata e il conducente, rilevando un evidente errore nella motivazione della sentenza là dove escludeva che l’imputata avesse richiesto con l’appello tale rinnovazione istruttoria, istanza che, invece, era stata puntualmente proposta; 2) violazione della legge penale per aver escluso l’applicabilità della causa di non punibilità di cui all’art. 384 c.p. (assumendosi a tal riguardo che l’invocata causa di non punibilità può rilevare anche in presenza di convivenze di fatto, sebbene non regolate sul piano normativo, censurando la motivazione con cui la sentenza impugnata ne aveva negato l’applicazione ai rapporti di mera convivenza, caratterizzati da una relazione informale) e vizio di motivazione in quanto la Corte territoriale avrebbe comunque ritenuto non dimostrata la sussistenza di una relazione more uxorio, ignorando le prove prodotte, attestanti l’esistenza di una vera convivenza come coppia di fatto (certificato anagrafico, documenti di identità, notifiche relative al procedimento penale).
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Fabio PiccioniAvvocato del Foro di Firenze, patrocinante in Cassazione; LL.B., presso University College of London; docente di diritto penale alla Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali; coordinatore e docente di master universitari; autore di pubblicazioni e monografie in materia di diritto penale e amministrativo sanzionatorio; giornalista pubblicista.
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Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione
La Sesta Sezione, cui il ricorso era stato originariamente assegnato, aveva osservato, preliminarmente, come la questione alla base del ricorso riguardasse la possibilità di applicare la causa scriminante di cui all’art. 384 c.p., al convivente more uxorio, questione ritenuta pregiudiziale rispetto alla decisione sulla responsabilità dell’imputata, e su cui aveva rilevato l’esistenza di un contrasto di giurisprudenza sicché ne rimetteva il ricorso alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 618 c.p.p., comma 1.
Le ulteriori argomentazioni sostenute dal ricorrente
Una memoria veniva depositata dal difensore dell’imputata sostenendosi il fatto che il legislatore del 2016 si sia preoccupato di coordinare le norme penali solo con la nuova disciplina delle unioni civili, senza nulla prevedere per le convivenze di fatto, non poteva impedire in sede interpretativa di estendere anche a quest’ultime la disciplina che si ricava dal “quadro storico evolutivo della materia” giungendo alla unificazione, anche sul piano penale, tra famiglia di fatto e famiglia legittima.
In particolare, si assumeva che se la ratio dell’art. 384 c.p., comma 1, è costituita dalla inesigibilità di un comportamento conforme al precetto penale, così come parte della dottrina sostiene, risulta irragionevole affermare che il convivente di fatto non si trovi nella identica situazione di pressione psicologica del coniuge.
Sotto un distinto profilo si rappresentava come, nella specie, avrebbe trovato applicazione l’art. 384, comma 2, nel testo modificato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 416 del 1996.
Le argomentazioni sostenute dalla Procura generale presso la Corte di Cassazione
La Procura generale depositava una memoria in cui, ribadita la portata eccezionale della causa di non punibilità prevista dall’art. 384 c.p., comma 1, escludeva ogni possibilità di ricomprendere nella categoria di “coniugi” anche i conviventi more uxorio sottolineando come proprio la L. 20 maggio 2016, n. 76 (c.d. legge Cirinnà), nel regolamentare esclusivamente le unioni civili tra persone dello stesso sesso, avrebbe “seppellito” definitivamente ogni possibile interpretazione estensiva della nozione di coniuge finalizzata a ricomprendervi anche i conviventi.
Oltre a ciò, si sosteneva inoltre che l’aver lasciato immutata la disciplina penalistica delle convivenze di fatto, intervenendo invece con disposizioni di adeguamento relative alle unioni civili – ad esempio, modificando l’art. 307 c.p., – stava a significare che il legislatore non ha inteso realizzare alcuna parificazione dei conviventi ai coniugati.
Per di più, nella memoria si evidenziava come la stessa giurisprudenza costituzionale, soprattutto con le sentenze n. 8 del 1996 e n. 237 del 1986, negando che la mancata parificazione sia in contrasto con la Costituzione, avesse escluso ogni suo possibile intervento additivo funzionale a estendere la portata dell’art. 384 c.p., anche ai conviventi, escludendo altresì che vi fosse spazio per una interpretazione conforme da parte del giudice comune.
Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite
Le Sezioni Unite, prima di entrare nel merito della questione, procedevano a delimitarla nei seguenti termini: “se l’ipotesi di cui all’art. 384 c.p., comma 1, sia applicabile al convivente more uxorio”.
Premesso ciò, gli Ermellini evidenziavano come l’orientamento, allo stato prevalente, che esclude l’applicabilità dei casi di non punibilità previsti dalla norma in questione alle situazioni di convivenza more uxorio, giustifica tale soluzione in base ad almeno tre ordini di ragione.
Innanzitutto, si ritiene determinante l’espresso riferimento contenuto nell’art. 384 c.p., ai “prossimi congiunti” la cui definizione è offerta dall’art. 307 c.p., comma 4, disposizione generale all’interno del codice penale, che identifica la categoria dei prossimi congiunti esclusivamente nel coniuge, oltre che negli ascendenti, discendenti, fratelli, affini nello stesso grado, zii e nipoti, senza ricomprendervi il convivente.
In questo modo la nozione di prossimi congiunti viene ricondotta esclusivamente ai membri della famiglia fondata sul matrimonio negando ogni possibile parificazione della convivenza more uxorio (in questo senso, Sez. 2, n. 7684 del 09/03/1982; Sez. 6, n. 6365 del 20/02/1988; Sez. 1, n. 9475 del 05/05/1989; Sez. 6, n. 132 del 18/01/1991; Sez. 2, n. 20827 del 17/02/2009, Sez. 5, n. 41139 del 22/10/2010).
In secondo luogo, le decisioni, che formano oggetto di questo indirizzo interpretativo, escludono l’assimilabilità del rapporto di fatto al vincolo coniugale e, richiamando la giurisprudenza costituzionale che in più occasioni ha ritenuto infondate le questioni di costituzionalità dell’art. 384 c.p., sottolineano la diversità tra il rapporto coniugale, caratterizzato da stabilità e reciprocità di diritti e doveri, e la convivenza di fatto, fondata, invece, su una affectio che può essere revocata in ogni momento, evidenziando, inoltre, la differente tutela riservata alle due situazioni dalla stessa Costituzione che solo nell’art. 29 riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio mentre la famiglia di fatto viene presa in considerazione sulla base dell’art. 2 Cost. (cfr., Corte Cost. n. 8 del 1996 e n. 121 del 2004).
Proprio sulla base di questi argomenti, i giudici di piazza Cavour osservavano come la stessa Corte di Cassazione avesse ritenuto inammissibile la questione di costituzionalità dell’art. 384 c.p., sollevata in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost., tenendo conto della diversa copertura costituzionale del rapporto di convivenza e di quello coniugale rilevando come la piena assimilazione di tali situazioni rientri nelle scelte discrezionali del legislatore (Sez. 6, n. 35967 del 28/09/2006).
L’esclusione dell’equiparazione sul piano interpretativo del convivente al coniuge, in vista dell’applicabilità della causa di non punibilità ai sensi dell’art. 384 c.p., veniva motivata in tal senso evidenziando anche le conseguenze in malam partem di una tale operazione, conseguenze rinvenibili in tutti quei casi in cui il vincolo familiare rileva per la configurabilità di taluni reati come ad esempio quelli previsti dall’art. 570 c.p., art. 577 c.p., comma 2, n. 1, art. 605 c.p., comma 1, n. 1.
Infine, una terza ragione veniva fondata sull’esclusione della estensibilità che fa leva sulla qualificazione della norma come causa di non punibilità la quale, in quanto norma eccezionale, non può essere applicata analogicamente.
Orbene, si sosteneva a tal riguardo che spetterebbe sempre al legislatore prevedere l’estensione della non punibilità attraverso un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra ragioni diverse sicché andrebbe operato un confronto tra “l’esigenza della repressione di delitti contro l’amministrazione della giustizia, da un lato, e la tutela di beni afferenti la vita familiare, dall’altro” rilevando come non possa dirsi “che i beni di quest’ultima natura debbano avere necessariamente lo stesso peso a seconda che si tratti della famiglia di fatto o della famiglia legittima, per la quale sola esiste un’esigenza di tutela non solo delle relazioni affettive, ma anche dell’istituzione familiare come tale, di cui elemento essenziale e caratterizzante è la stabilità”.
Per queste ragioni si assumeva dunque che debbano ritenersi legittime soluzioni legislative differenziate con riferimento alla causa di non punibilità di cui all’art. 384 cit. (così, Sez. 5, n. 41139 del 22/10/2010, nonché Sez. 2, n. 20827 del 17/02/2009; in termini analoghi, Sez. 1, n. 9475, del 05/05/1989; Sez. 6, n. 6365 del 20/02/1988 e Sez. 2, n. 7684 del 09/03/1982) non essendo consentito al giudice ricercare cause ultralegali di esclusione della punibilità attraverso l’analogia (Sez. 3, n. 38593 del 23/01/2018).
Da ultimo, veniva sottolineato il rilievo che deve essere attribuito al recente intervento legislativo con cui, a seguito della riforma che ha disciplinato le unioni civili tra persone dello stesso sesso e regolamentato le convivenze (L. 20 maggio 2016, n. 76, c.d. legge Cirinnà), è stata espressamente ampliata la cerchia dei “prossimi congiunti” di cui all’art. 307 c.p., comma 4, ricomprendendovi i soggetti uniti civilmente ma non anche i conviventi di fatto (D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 6) rilevandosi al contempo che, secondo l’ordinanza di rimessione, si sarebbe trattato di una scelta ben precisa del legislatore e non di una semplice “svista“, dal momento che la legge delega non lasciava alcun margine per includere anche i conviventi di fatto nell’art. 307 cit..
Invece, l’orientamento favorevole all’estensione della causa di non punibilità anche al convivente more uxorio si era sviluppato più di recente ed annoverava un minor numero di decisioni.
La prima in ordine temporale è Sez. 6, n. 22398 del 22/01/2004, che però afferma il principio della applicabilità dell’art. 384 c.p., al convivente senza un particolare approfondimento prospettando una possibile applicazione analogica della causa di non punibilità.
Più articolato, viceversa, è il ragionamento condotto da Sez. 2, n. 34147 del 30/04/2015 atteso che, in questo caso, la Corte di Cassazione, disattendendo la soluzione offerta dalla precedente sentenza n. 22398/2004, riconosce che l’art. 384 c.p., in quanto causa speciale di non punibilità, ha natura di norma eccezionale che, quindi, non può ricevere un’applicazione analogica, e si basa, invece, su una lettura aperta delle nozioni di famiglia e di coniugio, sottolineando come oggi termini come “matrimonio” e “famiglia” hanno un significato diverso e più ampio rispetto a quello risalente all’epoca dell’entrata in vigore del codice penale evidenziando, inoltre, come “la stabilità del rapporto, con il venire meno dell’indissolubilità del matrimonio, non costituisce più una caratteristica assoluta e inderogabile ed anzi spesso caratterizza maggiormente unioni non fondate sul matrimonio”.
La sentenza in questione, inoltre, ad avviso delle Sezioni Unite, registrava una vistosa contraddizione nella stessa giurisprudenza di legittimità che, da un lato, nega l’equiparazione tra famiglia di fatto e famiglia legittima, dall’altro, invece, attribuisce rilievo alla convivenza: questa giurisprudenza ondivaga, anche quando è produttiva di effetti in malam partem, come è avvenuto ritenendo configurabile il reato di maltrattamenti anche nel caso in cui la condotta delittuosa sia commessa ai danni di una persona convivente (prima dell’ultima modifica dell’art. 572 c.p.), sempre per la Suprema Corte, ha fornito comunque una nozione “moderna” di famiglia intesa come un consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e di solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo (tra le tante, Sez. 6, n. 20647 del 29/01/2008) così come lo stesso è accaduto in tema di ammissione al patrocinio a spese dello Stato in cui la Corte di Cassazione ha preso in considerazione tra i redditi dei familiari anche quello del convivente more uxorio (cfr., nell’ambito di un orientamento consolidato, Sez. 4, n. 109 del 26/10/2005).
Allo stesso modo, si faceva presente come un’analoga tendenza a favore di una assimilazione tra le due tipologie di “famiglia” si fosse verificata, secondo la sentenza n. 34147/2015, nelle interpretazioni che hanno portato ad effetti in bonam partem, ad esempio, in materia di riconoscimento dell’attenuante della provocazione e dell’estensione della causa di non punibilità dell’art. 649 c.p., al convivente: anche in questi casi la giurisprudenza di legittimità ha valorizzato l’esistenza di un rapporto affettivo che può dar luogo ad una convivenza more uxorio.
Nei due esempi sopra indicati, notava il Supremo Consesso, l’attenuante della provocazione e la causa di non punibilità ex art. 649 c.p, hanno trovato applicazione con riguardo a soggetti legati da un vincolo non matrimoniale ma comunque caratterizzato da una convivenza duratura fondata sulla reciproca assistenza e su comuni ideali e stili di vita (cfr., Sez. 6, n. 12477 dl 18/10/1985 e Sez. 4, n. 32190 del 21/05/2009).
A sostegno di questa interpretazione estensiva la sentenza n. 34147/2015 aveva invocato anche la nozione di famiglia accolta dall’art. 8 Cedu, come interpretato dalla Corte di Strasburgo che vi fa rientrare anche i legami di fatto particolarmente stretti, fondati su una stabile convivenza (Corte EDU, 13/06/1979, Marchx c. Belgio; Corte EDU, 13/12/2007, Emonet c. Svizzera).
In conclusione, la sentenza in esame, in presenza della “mutevole rilevanza penale della famiglia di fatto emergente dalle applicazioni giurisprudenziali”, concludeva ritenendo che solo accogliendo una nozione di famiglia e di coniugio in linea con i mutamenti sociali avvenuti negli ultimi anni è possibile “ricondurre il sistema a coerenza, evitando soluzioni che contrastano – prima ancora che con una visione unitaria del tema – con il senso comune”.
Alle medesime conclusioni era pervenuta, più recentemente, Sez. 6, n. 11476 del 19/09/2018, che, per la prima volta, aveva esaminato la questione relativa alla estensibilità della causa di non punibilità alla luce della nuova normativa introdotta dalla L. 20 maggio 2016, n. 76, che, come è noto, ha istituito l’unione civile tra persone dello stesso sesso e ha, inoltre, offerto una regolamentazione anche per le convivenze di fatto.
La sentenza, preso atto che a seguito della L. n. 76 del 2016, il coordinamento circa le ricadute sul piano penale della nuova disciplina ha riguardato solo le unioni civili, prevedendo, in particolare, l’inclusione, ad opera del D.Lgs. n. 6 del 2017, di tale nuova formazione sociale nella nozione di “prossimi congiunti” attraverso la modifica dell’art. 307 c.p., comma 4, nonché l’introduzione, per mezzo dello stesso D.Lgs. cit., di una disposizione generale come il nuovo art. 574 ter c.p. – che riferisce, agli effetti penali, il termine matrimonio anche alla costituzione di un’unione civile tra persone dello stesso sesso -, senza operare alcun coordinamento dei profili penali con lo statuto delle convivenze more uxorio, aveva comunque escluso che i “silenzi” sulle convivenze di fatto attribuibili alla L. n. 76 del 2016, e ai provvedimenti successivi possano “costituire un insormontabile impedimento per estendere a ogni forma di convivenza la disciplina che si ricava, in tema di equivalenza della figura del convivente a quella del coniuge, dal complesso quadro storico-evolutivo della materia”.
In sostanza, secondo la Suprema Corte, il riferimento è soprattutto al quadro e ai principi cui è pervenuta quella giurisprudenza di legittimità che, seppure in limitati settori, ha riconosciuto la parificazione giuridica delle convivenze di fatto al coniugio.
Secondo la sentenza in esame, in effetti, “una diversa impostazione, fondata sul dato formale, obiettivamente significativo, ma, tuttavia, non conformata con il sistema normativo di riferimento (…) porta con sé il rischio di implicare quanto meno con riguardo agli effetti in “bonam partem” – profili di incerta compatibilità costituzionale in punto di diversificazione delle tutele offerte alla parte dell’unione civile rispetto al convivente di fatto”; in altri termini, si assumeva come la ricerca di una effettiva coerenza all’interno del sistema non potesse che condurre ad una parità di trattamento, anche sul terreno penale, della famiglia legittima e di quella more uxorio ed è la stessa sentenza a sostenere che, attraverso quella che definisce “interpretazione valoriale“, può essere superato il contrasto con la Costituzione e riconoscere applicabile l’istituto dell’art. 384 c.p., comma 1, ai rapporti di convivenza, anche dopo la L. n. 76 del 2016.
Seguiva l’impostazione della sentenza n. 40122 del 16/05/2019 con cui i giudici di legittimità ordinaria avevano affermato che, ai fini della verifica della sussistenza di un effettivo rapporto di convivenza, va richiamata la L. n. 76 del 2016, art. 1, comma 37, secondo cui per l’accertamento della stabile convivenza deve farsi riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui al D.P.R. 23 maggio 1989, n. 223, art. 4, e art. 13, comma 1, lett. b) fermo restando che possono essere ricomprese in questo secondo orientamento anche Sez. 4, n. 23118 del 21/03/2017 e Sez. 3, n. 6218 del 12/01/2018 che si sono limitate a ribadire, senza ulteriori argomentazioni, le conclusioni della sentenza n. 34147/2015.
Ad ogni modo, le Sezioni Unite denotavano come nell’ordinanza di rimessione questo orientamento fosse stato criticato riportando le perplessità della dottrina secondo cui il tentativo di operare il superamento della giurisprudenza consolidata rischia di porsi in “tensione con le regole generali dell’interpretazione estendendo oltre il dato letterale una norma eccezionale e tassativa quanto ai soggetti che la possono invocare, tanto da far prospettare (…) un necessario interpello del Giudice delle leggi o un più auspicabile intervento del legislatore”.
Precisato ciò, gli Ermellini ritenevano necessario verificare, prima di procedere all’esame della questione rimessa, se la fattispecie concreta possa essere comunque risolta attraverso l’applicazione dell’art. 384 c.p., comma 2, così come ipotizzato dalla difesa nella memoria da ultimo depositata.
Si evidenziava quindi a tal proposito prima di tutto che tale norma, che prevede una speciale causa di non punibilità in favore, tra l’altro, di soggetti che per legge avrebbero dovuto essere avvertiti della facoltà di astenersi dal rendere informazioni al pubblico ministero o dichiarazioni nel corso delle indagini difensive ovvero testimonianza al giudice, richiamando i corrispondenti reati di cui agli artt. 371 bis, 371 ter e 372 c.p., (oltre all’art. 373 c.p., che riguarda la falsa perizia), è stata, come noto, dichiarata costituzionalmente illegittima perché contraria al canone di razionalità delle scelte legislative (art. 3 Cost.), nella parte in cui non prevede l’esclusione della punibilità per false o reticenti informazioni fornite alla polizia giudiziaria da chi avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi a norma dell’art. 199 c.p.p. (Corte Cost. n. 416 del 1996).
Con l’aggiunta di questo nuovo caso di non punibilità, per effetto della sentenza costituzionale citata, sono state dunque oggi ricomprese nell’art. 384 c.p., comma 2, anche le condotte di favoreggiamento poste in essere attraverso false informazioni rese alla polizia giudiziaria da parte dei soggetti indicati nell’art. 199 c.p.p., tra cui è menzionato espressamente anche il convivente.
È quindi evidente, per il Supremo Consesso, che, se si dovesse ritenere applicabile il citato art. 384, comma 2, sarebbe stata superata la questione oggetto della rimessione posto che un tale esito non poteva trovare spazio nella fattispecie concreta in quanto deve escludersi, per la Corte, che l’imputata dovesse essere avvertita della facoltà di astenersi dal momento che, nel corso delle indagini preliminari, l’avvertimento della facoltà di astenersi di cui all’art. 199 c.p.p., che si riferisce alle c.d. dichiarazioni endo-processuali, non è dovuto ai prossimi congiunti – e ai conviventi – del soggetto che non abbia ancora assunto la qualità di indagato (cfr., Sez. 1, n. 41142 del 17/07/2017; Sez. 1, n. 16215 del 30/01/2008).
Orbene, nel caso di specie, la Cassazione osservava come l’imputata avesse reso informazioni alla polizia giudiziaria nell’immediatezza dell’incidente stradale, in una fase di primissimo accertamento, in cui non vi era alcun elemento indiziario o di mero sospetto che potesse far ritenere sussistente un reato, tanto è vero che le sue dichiarazioni non risultavano essere state formalmente verbalizzate dalla polizia giudiziaria bensì raccolte come “osservazioni delle parti interessate“, cioè come dichiarazioni rese ai fini della responsabilità civile da incidente stradale tenuto conto altresì del fatto che in quella fase non era emerso alcun elemento da cui la polizia giudiziaria avrebbe potuto desumere l’esistenza di un rapporto di convivenza tale da giustificare l’avvertimento di cui all’art. 199 c.p.p..
Una volta chiarito ciò, ad avviso delle Sezioni Unite, l’esame della questione posta dall’ordinanza di rimessione, che aveva il suo fulcro nell’ampiezza applicativa dell’art. 384 c.p., si intrecciava, necessariamente, con il tema della mancata equiparazione, nel nostro ordinamento, della convivenza more uxorio alla famiglia legittima sebbene la famiglia di fatto condivida con la famiglia legittima la scelta di una condivisione di un percorso di vita comune, basato sull’affectio, sulla stabilità, sulla convivenza e sulla responsabilità della cura ed educazione dei figli fermo restando che la differenza attiene alla formalizzazione del rapporto, un elemento che non assume una veste solo convenzionale ma rappresenta l’esteriorizzazione del diverso atteggiamento che caratterizza le due convivenze, la prima, quella matrimoniale, basata su una dichiarata volontà di assumere reciproci obblighi di “fedeltà, di assistenza morale e materiale e di collaborazione”, la seconda connotata dalla spontaneità di una scelta liberamente revocabile dalle parti.
A fronte di ciò, si notava come proprio la distinzione che impediva, nelle decisioni della giurisprudenza costituzionale (Corte Cost. n. 45 del 1980; n. 237 del 1986; n. 423 e n. 404 del 1988; n. 140 del 2009; n. 138 del 2010), che le due situazioni possano trovare uguale fondamento nell’art. 29 Cost. con la conseguenza che, pur riconoscendo “la rilevanza costituzionale del “consolidato rapporto” di convivenza”, occorresse tenerlo distinto dal rapporto coniugale riconducendo il primo nell’ambito della protezione, offerta dall’art. 2 Cost., dei diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali e il secondo nello schema del citato art. 29.
La Cassazione, inoltre, prendeva atto di come le due situazioni non differissero soltanto in ragione del dato estrinseco della sanzione formale del vincolo poiché, fermi in ogni caso i diritti e i doveri che ne derivano verso i figli e i terzi, nella dimensione della convivenza di fatto si tende a riconoscere spazio alla soggettività individuale mentre, in quella del rapporto di coniugio, si attribuisce maggior rilievo alle esigenze obiettive della famiglia come tale, intesa cioè come stabile comunità di persone legate da vincoli di solidarietà, di fedeltà e di condivisione su base paritaria.
L’indirizzo che porta a negare l’estensione della causa di non punibilità alle semplici convivenze di fatto, indirizzo a cui sembra ispirata anche l’ordinanza che ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, rilevavano le Sezioni Unite, trova forza nella giurisprudenza della Corte costituzionale che ha sempre escluso la irragionevolezza della mancata inclusione nell’art. 384 c.p., comma 1, dei conviventi more uxorio sostenendo, reiteratamente, che una tale questione fuoriuscisse dai limiti delle sue attribuzioni spettando al legislatore la scelta di operare una simile modifica rientrante nella materia penale (Corte Cost., n. 237 del 1986; n. 352 del 1989; n. 8 del 1996; n. 121 del 2004, n. 140 del 2009).
In sostanza, la giustificazione circa la diversa regolamentazione viene rintracciata nella maggiore “stabilità” della famiglia legittima – anche dopo che è venuta meno l’indissolubilità del vincolo coniugale -, considerando che il differente regime della famiglia more uxorio si fonda sulla volontà delle parti, che liberamente decidono di non contrarre matrimonio, optando per una tipologia di unione con minori vincoli giuridici ma in una comunione materiale e spirituale di vita che può coincidere in ciò che caratterizza il matrimonio stesso precisandosi al contempo che, “quando il legislatore ha inteso attribuire rilevanza giuridica al rapporto di convivenza, anziché intervenire sulla definizione generale della nozione di “prossimi congiunti” contenuta nell’art. 307 c.p., comma 4, includendovi anche il convivente, ha ritenuto operare scelte selettive e mirate a casi determinati” (così, Corte Cost. n. 140 del 2009) tenuto conto altresì del fatto che, sempre secondo la Corte costituzionale, “un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità, la quale assumesse a base la pretesa identità di posizione tra convivente e coniuge, rispetto all’altro convivente o coniuge, avrebbe effetti di sistema eccedenti l’ambito del singolo giudizio di costituzionalità” in quanto l’estensione al convivente del complesso delle norme penali che si riferiscono al rapporto di coniugio avrebbe forti ricadute sull’intero sistema – anche relativamente a disposizioni extrapenali – compresi possibili effetti in malam partem, con conseguenze che solo il legislatore potrebbe regolare attraverso una riforma organica (Corte Cost., n. 352 del 2000).
Oltre a ciò, veniva fatto altresì presente che le decisioni della Corte di Cassazione, favorevoli ad un allargamento della portata applicativa dell’art. 384 c.p. alle coppie di fatto, richiamano spesso la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo che, invece, dalle sentenze ascrivibili nell’orientamento contrario, tra cui la stessa ordinanza di rimessione, viene svalutata o, meglio, ritenuta scarsamente significativa visto che, anche la Corte EDU, così come la Corte costituzionale, riconosce la discrezionalità del legislatore nel prevedere diverse soglie di tutela dei vincoli discendenti dal matrimonio e dalla convivenza di fatto in relazione alla necessità di proteggere i contro-interessi in gioco e ciò dal momento che la Corte EDU, da un lato, riconduce nella sfera applicativa dell’art. 8 CEDU, nella parte in cui protegge la “vita familiare“, la tutela dei vincoli affettivi discendenti dalla convivenza di fatto, dall’altro lato, tuttavia, considera legittima la limitazione di tale diritto in ragione dell’esigenza di tutelare gli interessi connessi all’amministrazione della giustizia penale riconoscendo altresì la possibilità di bilanciamenti differenziati per le coppie sposate e le convivenze di mero fatto, secondo la discrezionale valutazione del legislatore (cfr., Corte EDU, 03/04/ 2012, Van der Heijdel c. Netherlands).
Detto questo, risultava, per la Corte, interessante rilevare come la vita dei conviventi di fatto rientri nella concezione di vita “familiare” ormai da tempo elaborata dalla Corte EDU in sede di interpretazione dell’art. 8, par. 1, CEDU (cfr., Corte EDU, 13/06/1979, Marckx c. Belgio; Corte EDU, 26/05/1994, Keegan c. Irlanda; Corte EDU, 05/01/2010, Jaremowicz c. Polonia; Corte EDU, 27/04/2010, Moretti e Benedetti c. Italia; Corte EDU, 24/06/2010, Schalk and Kopf c. Austria; da ultimo, Corte EDU, 21/07/2015, Oliari ed altri c. Italia).
Difatti, l’ambito soggettivo della nozione di “vita familiare” ai sensi dell’art. 8 CEDU include, secondo la giurisprudenza Europea, sia le relazioni giuridicamente istituzionalizzate (famiglia legittima), sia le relazioni fondate sul dato biologico (famiglia naturale), sia, infine, quelle che costituiscono “famiglia” in senso sociale alla condizione che sussista l’effettività di stretti e comprovati legami affettivi.
Una nozione, dunque, dalla portata applicativa assai ampia, senza dubbio più estesa rispetto a quella cui fa riferimento la diversa disposizione normativa dell’art. 12 CEDU (riferibile alla sola famiglia fondata sul matrimonio), che permette alla Corte Europea di ricomprendervi sia quest’ultima, sia quella basata sulla relazione di fatto tra conviventi (Corte EDU, 26/05/1994, Keegan c. Ireland; Corte EDU, 18/12/1986, Johnston c. Irlanda, § 55; Corte EDU, 13/06/1979, Marckx c. Belgio; v., inoltre, Corte EDU, 13/12/2007, Emonet ed altri c. Svizzera).
Tuttavia, la prospettiva seguita dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo – con le su citate disposizioni di cui agli artt. 8 e 12, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo – non presenta, ad avviso del Supremo Consesso, in relazione alla materia qui esaminata, sostanziali punti di divergenza rispetto alle linee direttrici del modello normativo disegnato nella Costituzione italiana (ex artt. 2 e 29 Cost.) poiché, sia nel sistema convenzionale, che in quello interno, sono riconosciuti, e costituiscono oggetto di tutela, i diritti dei singoli che nascono, si esprimono e si sviluppano all’interno di un nucleo familiare fatta salva la possibilità di un trattamento non omogeneo correlato alla diversità dei modelli di relazioni familiari alla luce di un giusto bilanciamento operato, a livello nazionale, fra le legittime istanze di tutela di interessi generali (ad es., sicurezza nazionale, protezione della salute o della morale, difesa dell’ordine e prevenzione dei reati, ecc.) e le esigenze di protezione dei diritti fondamentali della persona (Corte EDU, 07/07/ 1989, Soering c. Regno Unito).
Da ciò si giungeva alla conclusione secondo cui non è riconoscibile, allora, alcun contrasto nel panorama delle ragioni argomentative che sorreggono i moduli interpretativi utilizzati dalla Corte costituzionale e dalla Corte EDU poiché, sia nel sistema interno, che in quello convenzionale, le diverse tipologie di unioni familiari rappresentano fenomeni distinti l’uno dall’altro il cui pacifico riconoscimento fondato sulla non esclusività della specifica tutela garantita alla famiglia fondata sul matrimonio e, al contempo, sulla consapevolezza della pari dignità delle scelte legate all’avvio di una convivenza senza matrimonio, non determina l’effetto di una generale equiparazione fra modelli che restano comunque diversi e, come tali, non possono essere appiattiti l’uno sull’altro, nè fra loro integralmente assimilati.
Invece, sempre per la Suprema Corte, un significativo avanzamento nelle possibilità di tutela della molteplicità e varietà delle relazioni di tipo familiare si registra nella più recente previsione normativa dell’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, approvata dal Parlamento Europeo il 14 novembre 2000, formalmente proclamata a Nizza il 7-8 dicembre 2000 e divenuta giuridicamente vincolante (ex art. 6, par. 1, TUE) a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona.
In effetti, la su citata disposizione normativa – peraltro rafforzata dall’ulteriore previsione di garanzia dettata nell’art. 33, par. 1, della Carta (secondo cui “è garantita la protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale”) – pur ispirandosi al contenuto di altre norme internazionali (ad es., l’art. 12 CEDU, l’art. 23, comma 2, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato dall’Assemblea generale dell’ONU il 16 dicembre 1966, ratificato con L. n. 881 del 1977, nonché l’art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo), che regolano la materia enunciando in forma unitaria il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, presenta una formulazione letterale più ampia poiché, nel rinviare alle diverse legislazioni nazionali che ne disciplinano l’esercizio, riconosce e garantisce separatamente i due diritti isolando il diritto di fondare una famiglia dal vincolo matrimoniale stricto sensu inteso e in tal modo creando le condizioni per estenderne la tutela anche in favore di altre forme di relazione familiare dato che il “diritto di sposarsi” viene riconosciuto, tra le libertà fondamentali tutelate dal capo secondo, in modo disgiunto rispetto al “diritto di fondare una famiglia” così realizzando una significativa apertura nei confronti delle famiglie di fatto in quanto la meritevolezza degli interessi perseguiti attraverso la scelta, del tutto legittima, di convivere senza matrimonio viene riconosciuta e tutelata anche al di fuori della presenza di vincoli formali nei rapporti familiari.
Pertanto, al tradizionale favor per il matrimonio, come si è osservato in dottrina, per la Corte, si sostituisce in tal modo la pari dignità di ogni forma di convivenza alla quale una legislazione nazionale decida di dare la sua regolamentazione.
Chiarito ciò, una volta fattosi presente che, sia nell’ordinanza di rimessione, sia nella memoria dell’Avvocato generale, una delle critiche più “forti” alla possibile estensione dell’art. 384 cit., alle coppie di fatto riguardi la circostanza che il legislatore, con la L. 20 maggio 2016, n. 76 (c.d. legge Cirinnà), ha introdotto una disciplina per le unioni civili tra persone dello stesso sesso, dettando anche una minima regolamentazione relativa alle convivenze di fatto, senza tuttavia inserire nessuna disposizione riguardante una piena equiparazione tra le due diverse situazioni, riscrivendo l’art. 307 c.p., con l’inserimento tra i “prossimi congiunti” anche della “parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso” ma omettendo ogni riferimento alle coppie di fatto e senza “toccare” l’art. 384 c.p. assumendosi che, in questo modo, il legislatore avrebbe manifestato la sua volontà di non operare alcuna equiparazione delle convivenze di fatto escludendo definitivamente ogni possibile interpretazione estensiva della nozione di “coniuge” che ricomprenda anche il “convivente” come dire che non si è in presenza di una “lacuna” dell’ordinamento dal momento che il legislatore non vuole alcuna equiparazione, tanto meno ai fini dell’applicazione della scusante ex art. 384 c.p., si riteneva che, con la legge c.d. Cirinnà, il legislatore ha inteso offrire una tutela legale a situazioni affettive mai regolamentate prima offrendo una disciplina, di fatto, analoga a quella prevista per le famiglie legittime e prevedendo anche le necessarie ricadute penalistiche con il successivo D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 6 trattandosi, quindi, di un intervento volto ad occuparsi di situazioni del tutto diverse dalle convivenze di fatto, che basano la loro unione sulla spontaneità di una scelta liberamente revocabile dalle parti mentre la disciplina delle “unioni civili” si è basata, invece, proprio sulla richiesta di stabilità del rapporto, sul modello della famiglia legittima.
Pur tuttavia, il fatto che con la legge del 2016 il legislatore nulla abbia previsto per le convivenze, ad eccezione di un tentativo di definizione e della equiparazione alle coppie coniugate per una serie di profili analiticamente elencati, tra cui l’unico riguardante la materia penale è quello sulla parificazione dei diritti del convivente a quelli del coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario (L. n. 76 del 2016, art. 1, comma 38), per le Sezioni Unite, ciò non può certo significare una implicita contrarietà alla possibilità di riconoscere una serie di diritti in favore delle convivenze more uxorio, nè tanto meno alla estensibilità della scusante di cui all’art. 384 c.p., al convivente atteso che il legislatore, semplicemente, si è occupato di disciplinare le situazioni riguardanti le unioni tra persone dello stesso sesso avendo ben presente il percorso legislativo e giurisprudenziale che aveva condotto verso una tendenziale equiparazione tra la convivenza coniugale e quella more uxorio ferme restando le differenze di base delle due situazioni.
Ad ogni modo, per il Supremo Consesso, l’assenza di una legge, che disciplini organicamente il fenomeno della convivenza more uxorio, non significa, per la Corte di legittimità ordinaria, che tale modello di relazione ed i suoi effetti giuridici siano sforniti di tutela nel diritto positivo in quanto i numerosi interventi normativi e la stessa evoluzione degli orientamenti giurisprudenziali hanno consentito, sia pure frammentariamente, di riconoscere ai componenti la famiglia di fatto singole posizioni soggettive meritevoli di tutela analogamente a quelle proprie dei membri della famiglia legittima quale può essere, ad esempio, sul piano normativo, al tema della filiazione essendo stato stabilito, in questo delicatissimo settore, una completa identità tra la famiglia matrimoniale e quella non matrimoniale con riguardo al rapporto genitori-figli, che oggi risulta unitariamente disciplinato dall’art. 315 bis c.c. e ss., uniche essendo le regola in materia di diritti e doveri del figlio e di responsabilità genitoriale.
Fra le disposizioni normative espressamente riferite ai conviventi venivano poi menzionate, per la loro oggettiva rilevanza, quelle che consentono: a) di richiedere l’interdizione o la nomina di un amministratore di sostegno per il partner (art. 417 c.c.); b) di ammettere la coppia non coniugata ad avvalersi della procreazione assistita (L. 15 febbraio 2004, n. 40, art. 5); c) di astenersi dal rendere dichiarazioni nel processo penale (art. 199 c.p.p., comma 3, per il convivente dell’imputato); d) di presentare domanda di grazia al Presidente della Repubblica in favore del condannato (art. 681 c.p.p.).
Nella medesima linea venivano altresì richiamate, a mero titolo esemplificativo, le disposizioni normative che riguardano la possibilità di adottare ordini di protezione contro gli abusi familiari, pur se commessi da conviventi o in danno di conviventi (L. 4 aprile 2001, n. 154); quella che prevede la rilevanza del periodo di mera convivenza ai fini della verificazione della stabilità della coppia in vista dell’adozione (L. n. 149 del 2001, art. 6); quelle, infine, dettate dal legislatore in tema di disciplina dei congedi parentali (L. n. 53 del 2000; D.Lgs. n. 151 del 2001) e di assicurazione sulla responsabilità civile (L. n. 209 del 2005, ex art. 129, comma 2, lett. b)).
A fronte di tali riferimenti normativi, le Sezioni Unite facevano presente però come fosse rinvenibile soprattutto nella giurisprudenza, sia civile che penale, l’esistenza di una progressiva e continua tendenza a garantire analoghi diritti alle convivenze di fatto quale, ad esempio, la giurisprudenza civile che riconosce al convivente separato l’assegnazione della casa familiare, analogamente a quanto si prevede per il coniuge separato o divorziato, in presenza di prole (Sez. civ. 1, n. 10102 del 26/05/2004) fermo restando che l’assegnazione della casa familiare in favore del convivente separato è stata poi normativamente regolata ex art. 337 sexies c.c..
Oltre a ciò, veniva inoltre evidenziato anche l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il risarcimento del danno da uccisione di un prossimo congiunto spetta non soltanto ai membri della famiglia legittima della vittima ma anche a quelli della famiglia naturale, come il convivente “more uxorio” ed il figlio naturale non riconosciuto, a condizione che gli interessati dimostrino la sussistenza di un saldo e duraturo legame affettivo tra essi e la vittima assimilabile al rapporto coniugale (Sez. civ. 3, n. 12278 del 07/06/2011; Sez. civ. 3, n. 23725 del 16/09/2008; v., inoltre, Sez. civ. 3, n. 7128 del 21/03/2013).
Nella giurisprudenza penale, è stata a sua volta affermata un’esplicita equiparazione tra la convivenza coniugale e quella more uxorio a proposito della valutazione della sussistenza dei requisiti per l’ammissione al gratuito patrocinio per i non abbienti. (tra le tante, Sez. 4, n. 15715 del 20/03/2015; v., inoltre, Sez. 4, n. 44121 del 20/09/2012) così come un’analoga estensione è avvenuta in tema di costituzione di parte civile ove è stato precisato che la lesione di qualsiasi forma di convivenza, purché dotata di un minimo di stabilità tale da fondare una ragionevole aspettativa di un futuro apporto economico, rappresenta legittima causa petendi di un’azione risarcitoria proposta dinanzi al giudice penale competente per l’illecito che ha causato detta lesione (Sez. 4, n. 33305 del 08/07/2002; Sez. 4, n. 19487 del 05/11/2013,).
Ulteriori ampliamenti della tutela penale riconosciuta alla convivenza di fatto, inoltre, venivano ravvisati con riferimento al diritto all’inviolabilità del domicilio, con il riconoscimento anche al convivente dell’esercizio del diritto di esclusione (Sez. 5, n. 6419 del 05/04/1974).
Particolarmente rilevante, per le Sezioni Unite, doveva poi ritenersi l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità formatasi in merito ai presupposti di configurabilità del reato di cui all’art. 572 c.p. che, nel perseguire la condotta di colui che “maltratta una persona della famiglia“, considera famiglia – sulla base di una pacifica linea interpretativa – non soltanto quella legittima fondata sul matrimonio, ma anche quella di fatto, connotata da un rapporto tendenzialmente stabile, fondato su legami di reciproca assistenza e protezione.
Si è così affermato a tal proposito che sono da considerare persone della famiglia anche i componenti della famiglia di fatto fondata sulla reciproca volontà di vivere insieme, di generare figli, di avere beni in comune e di dare vita ad un nucleo stabile e duraturo (v., ex plurimis, Sez. 6, n. 21239 del 24/01/2007; Sez. 6, n. 20647 del 29/01/2008; Sez. 5, n. 24688 del 17/03/2010; Sez. 6, n. 31121 del 18/03/2014) pur trattandosi di una giurisprudenza risalente già agli anni settanta che questa volta, nell’equiparare la convivenza al rapporto coniugale vero e proprio, di fatto aveva operato una estensione in malam partem seppur finalizzata alla tutela della vittima del reato fino a quando il legislatore, con la novella del 1 ottobre 2012, n. 172, ha parzialmente riformato la previsione della norma incriminatrice in esame cambiando la rubrica da “maltrattamenti in famiglia” in “maltrattamenti contro familiari e conviventi” così precisando che soggetto passivo del reato non è soltanto “una persona della famiglia“, ma pure “una persona della famiglia o comunque convivente“.
Il legislatore del 2016, con la legge c.d. Cirinnà è, quindi, intervenuto in presenza di un quadro complessivo, normativo e giurisprudenziale, in cui risulta evidente l’interesse di salvaguardare la famiglia, sia legittima che di fatto, come pure, sotto altro e più specifico versante, tutelare l’interesse del soggetto passivo al rispetto della sua personalità nello svolgimento dei rapporti che lo legano, affettivamente, ma non solo, con altra persona con la quale ha istaurato uno stabile rapporto di convivenza e dalla quale può e deve pretendere assoluto rispetto verso condotte che risultino abitualmente lesive della propria integrità fisica o morale.
Si trattava dunque per la Corte di un quadro complesso, sicuramente disorganico che non poteva essere ignorato sicché il relativo “silenzio” sulle coppie di fatto acquista un significato neutro spiegabile con l’obiettivo principale della legge di occuparsi delle c.d. unioni civili e con la consapevolezza che le convivenze di fatto non sono certo prive di tutela, anzi sono oggetto di una regolamentazione dovuta, soprattutto, ma non solo, agli interventi della giurisprudenza.
L’ordinamento, dunque, sia pure all’infuori di una visione organica del fenomeno, e procedendo sempre attraverso interventi eterogenei e settoriali posti in essere nelle più varie direzioni, per le Sezioni Unite, avverte il rilievo delle implicazioni legate alla esigenza di preservare la sostanza delle strutture fondamentali della società non mancando di valorizzare, entro tale prospettiva, anche le numerose potenzialità applicative sottese alla progressiva introduzione di specifiche forme di garanzia della tendenziale continuità dei rapporti a vario titolo riconducibili al diverso modello della relazione familiare de facto.
Le forme di tutela sinora illustrate, assai spesso ricorrenti nella prassi, confermano dunque per il Supremo Consesso la rilevanza assunta dal riconoscimento del carattere “familiare” delle relazioni che si sviluppano all’interno della convivenza di fatto e delle connesse esigenze di protezione che, in quanto “relazioni di famiglia“, ad essa competono fermo restando però che l’assenza di una disciplina organica della materia, sempre ad avviso della Suprema Corte, lascia trasparire evidenti incoerenze del sistema, se non veri e propri “effetti paradossali“, alcuni dei quali, nei limiti dell’attività interpretativa, possono essere quantomeno ridotti.
Escluso pertanto che la disciplina introdotta dalla legge c.d. Cirinnà sulle unioni civili, con le successive, conseguenti integrazioni inserite nel codice penale, possano avere l’effetto di “impedire” un’interpretazione estensiva dell’art. 384 c.p., alle coppie di fatto e ricostruito il quadro normativo complessivo così come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale e anche da quella Europea nonché dalla giurisprudenza di legittimità, le Sezioni Unite rilevavano come entrambi gli orientamenti contrapposti, cui si era fatto riferimento nei paragrafi precedenti, sebbene con approcci diversi, dessero per scontato il carattere eccezionale della norma contenuta nell’art. 384 c.p., comma 1.
Così, la stessa ordinanza che aveva rimesso la questione, coerentemente, indicava come uno dei principali ostacoli all’estensione applicativa dell’art. 384, comma 1, la natura eccezionale della disposizione che ne preclude l’applicazione analogica in favore delle coppie di fatto rifacendosi peraltro alla stessa giurisprudenza costituzionale, secondo cui “l’estensione di cause di non punibilità, le quali costituiscono altrettante deroghe a norme penali generali, comporta strutturalmente un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra ragioni diverse confliggenti, in primo luogo quelle che sorreggono la norma derogatoria: un giudizio che è da riconoscersi ed è stato riconosciuto da questa Corte appartenere primariamente al legislatore” (Corte Cost., n. 140 del 2009).
Peraltro, anche le sentenze che propongono di estendere l’ambito applicativo dell’art. 384 facendo leva sull’evoluzione normativa, attraverso una lettura aperta dell’istituto della “famiglia” nella Costituzione e nella Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, per il Supremo Consesso, finiscono per riconoscere il carattere eccezionale della norma in questione (così, Sez. 2, n. 34147 del 30/04/2015).
Ebbene, per gli Ermellini, se si dovesse convenire che siamo in presenza di una disposizione avente natura di norma eccezionale, occorrerebbe riconoscere l’estrema difficoltà di operare un’estensione dell’”esimente” al di là del suo tenore letterale, perché si violerebbe il disposto dell’art. 14 preleggi mentre la questione, invece, deve essere affrontata verificando la natura dell’art. 384 c.p., comma 1, attraverso una lettura costituzionalmente orientata che valorizzi l’elemento della colpevolezza e, soprattutto, inserita nell’ambito delle disposizioni penali che regolamentano istituti analoghi.
Alla luce delle considerazioni sin qui esposto, per le Sezioni Unite, sembra pertanto definitivamente superato l’orientamento secondo cui l’art. 384 c.p., comma 1, contiene una causa di non punibilità in senso stretto in cui la rinuncia alla pena ubbidisce a ragioni di opportunità politica che sono del tutto estranee al tema del disvalore oggettivo del fatto o della “situazione esistenziale psicologica dell’agente” come pure l’altro, meno recente, che qualifica la disposizione come una causa di giustificazione in cui vengono bilanciati contrapposti interessi, istituto somigliante allo stato di necessità, in cui pure viene esclusa la responsabilità di colui che pone in essere una condotta costretto dalla necessità di evitare un grave nocumento mentre, invece, vanno condivise le riflessioni della dottrina più avvertita che ravvisa nella previsione in esame una causa di esclusione della colpevolezza, meglio una “scusante” soggettiva, che investe la colpevolezza.
Invero, come è noto, vengono ricomprese in questa definizione le ipotesi in cui l’agente pone in essere un fatto antigiuridico agendo anche con dolo, nella consapevolezza di violare la legge e in cui l’ordinamento si astiene dal muovergli un rimprovero prendendo atto che la sua condotta è stata determinata dalla presenza di circostanze peculiari, che hanno influito sulla sua volontà, sicché non si può esigere un comportamento alternativo.
In particolare, con riferimento all’art. 384 c.p., comma 1, i legami di natura affettiva che legano l’agente con il prossimo congiunto (sia esso il genitore o il figlio o i fratelli o il coniuge o lo zio o il nipote…) fanno sì, per la Suprema Corte, che l’ordinamento sceglie di non punire i reati considerati nella disposizione citata quando siano stati realizzati per salvare la libertà o l’onore di un prossimo congiunto fermo restando che a queste conclusioni è pervenuta anche la giurisprudenza di legittimità più recente che, in alcune decisioni, ha stabilito che l’art. 384 c.p., comma 1, esclude la colpevolezza, non l’antigiuridicità della condotta, trattandosi di una esimente “connessa alla particolare situazione soggettiva in cui viene a trovarsi l’agente, che rende inesigibile un comportamento conforme alle norme indicate dallo stesso art. 384, comma 1” (Sez. 5, n. 18110 del 12/03/2018, in un caso in cui si è negato che l’esimente in questione potesse essere applicata anche al concorrente nel reato commesso dal soggetto non punibile; nello stesso senso, Sez. 6, n. 34543 del 23/05/2019; Sez. 6, n. 15327 del 14/02/2019; Sez. 6, n. 51910 del 29/11/2019; Sez. 6, n. 34777 del 23/09/2020, che, proprio in tema di favoreggiamento personale, ha precisato che l’art. 384 c.p., quale causa di esclusione della colpevolezza e non di esclusione della antigiuridicità della condotta, opera solo nel caso in cui, tenuto conto delle circostanze del caso concreto, valutate secondo il parametro della massima diligenza esigibile, si presenti all’agente come l’unica in grado di evitare un grave pregiudizio per la libertà o per l’onore proprio o altrui; inoltre, v., Sez. 6, n. 11476 del 19/09/2018) trattandosi di sentenze che, seppure con motivazioni non sempre dedicate specificamente alla questione, prendono una posizione decisa sulla natura dell’esimente dando luogo ad un vero indirizzo giurisprudenziale fermo restando che un analogo orientamento lo si rintraccia anche in decisioni meno recenti che, nel considerare l’art. 384, comma 1, oltre a negarne la natura di causa oggettiva di esclusione dell’antigiuridicità, lo qualificano come un’esimente “basata sul principio dell’inesigibilità di un comportamento diverso, come tale da escludere la colpevolezza” (così, Sez. 1, n. 11855 del 03/07/1980; nonché Sez. 6, 25/10/1989; Sez. 6, 10/02/1997).
Infine, su questa stessa linea interpretativa si sono poste le Sezioni Unite (Sez. U, n. 7208 del 29/11/2007, dep. 2008, omissis, non massimata sul punto) le quali hanno asserito che “coglie certamente nel segno” quell’orientamento della giurisprudenza di legittimità (ad es., Sez. 6, n. 44761 del 04/10/2001) che afferma, concordemente con la dottrina, che l’art. 384 c.p. trova la sua giustificazione nell’istinto alla conservazione della propria libertà e del proprio onore (nemo tenetur se detegere) e nell’esigenza di tener conto, agli stessi fini, dei vincoli di solidarietà “familiare” in senso lato essendo l’intenzione del legislatore quella di riconoscere prevalenti e quindi tutelare i motivi di ordine affettivo.
In questa decisione, le Sezioni Unite avevano affermato che “deve darsi atto della sussistenza di una strettissima connessione tra l’istituto, di natura sostanziale, dell’art. 384 c.p., e la prescrizione processuale contenuta nell’art. 199 c.p.p.”, dal momento che a fondamento di tali disposizioni vi è la medesima giustificazione e perché la ratio dell’astensione dal rendere testimonianza in capo ai prossimi congiunti dell’imputato, riconosciuta dalla citata norma del codice di rito, va “unanimemente ravvisata proprio nella tutela del sentimento familiare (latamente inteso) e nel riconoscimento del conflitto che può determinare, in colui che è chiamato a rendere testimonianza, tra il dovere di deporre e dire la verità, e il desiderio o la volontà di non danneggiare il prossimo congiunto”.
Il riconoscimento alla disposizione di cui all’art. 384, comma 1, della valenza di causa di esclusione della colpevolezza, a sua volta, comporta che la ragione della non punibilità va ricercata nella “particolare situazione emotiva vissuta dal soggetto” tale da rendere “inesigibile” l’osservanza del comando penale.
Infatti, a differenza delle cause di giustificazione in cui la rinuncia alla pena avviene perché, in presenza di quelle situazioni considerate dal legislatore, l’ordinamento non riconosce più l’antigiuridicità della condotta, invece nelle cause di esclusione della colpevolezza (c.d. scusanti soggettive), il disvalore oggettivo della condotta non viene meno ma l’ordinamento prende in considerazione “i riflessi psicologici della situazione esistenziale che il soggetto si trova a vivere” ed è proprio in considerazione di questa particolare situazione che, come è stato efficacemente detto da autorevole dottrina, “l’ordinamento penale non se la sente di incrudelire con la sua sanzione“.
L’art. 384 c.p., in effetti, non si basa su considerazioni di mera opportunità che giustificano la non punibilità, nè appare fondato su un bilanciamento di interessi contrapposti, che lo farebbero qualificare come una causa di giustificazione, ma tipizza una situazione oggettiva in cui il procedimento motivazionale del soggetto risulta “alterato” tanto da poter escludere la colpevolezza attraverso la valorizzazione del coinvolgimento psichico visto che l’esimente prevede che il soggetto deve aver commesso il fatto perché costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un nocumento grave che attenti alla libertà o all’onore, presupposti e condizioni che danno rilievo a situazioni che, come già si è detto, determinano una alterazione della “motivabilità” della condotta realizzata dall’agente e alla condotta dell’agente, che risulti “motivata” secondo quanto prevede la norma, corrisponde un abbassamento della pretesa statuale, in base alla ratio dell’inesigibilità.
Il superamento di quelle posizioni che attribuiscono alla disposizione in questione natura di causa di non punibilità in senso stretto e il riconoscimento all’esimente in parola della natura di scusante a struttura soggettiva, quindi che investe direttamente la colpevolezza, inoltre, ha delle importanti ricadute sul piano ermeneutico quando si va a verificarne l’applicabilità ai casi non espressamente considerati.
Il tema, nel dettaglio, è quello della possibilità di applicazione analogica in bonam partem dell’art. 384 c.p., comma 1, una volta che sia stata esclusa la sua natura di causa di non punibilità in senso stretto.
Orbene, a seguito di un lungo dibattito, per le Sezioni Unite, oggi può dirsi superata l’opinione che attribuisce al divieto di analogia un carattere assoluto nel senso che sia rivolto tanto alle norme penali incriminatrici, quanto alle norme di “favore” funzionale ad assicurare la certezza del comando penale visto che il divieto di analogia è finalizzato ad assicurare, più che la certezza, l’esigenza di garantire le libertà del cittadino, libertà che vengono messe in pericolo se si riconosce al giudice il potere di applicare analogicamente – in senso sfavorevole – norme incriminatrici, mentre un tale pericolo non ricorre in presenza di una applicazione di norme di favore.
Il divieto di analogia in materia penale, ricondotto all’art. 25 Cost., del quale si sottolinea, appunto, la dimensione garantistica, non si riferisce quindi all’intera materia penale ma si rivolge alle sole disposizioni punitive: in sostanza, si esclude che vi siano impedimenti di carattere costituzionale che consentano operazioni di interpretazione analogica che operino nel senso di un restringimento dei confini di ciò che è penalmente rilevante ammettendo l’esperibilità di un intervento analogico in bonam partem; in altri termini, l’art. 25 Cost., comma 2, proibisce solo l’analogia in malam partem trattandosi di posizioni condivise dalla giurisprudenza di legittimità che considera l’interpretazione analogica in bonam partem pacificamente ammessa nel campo penale (tra le tante, Sez. 5, n. 10054 del 22/05/1980).
Ebbene, riconosciuto il carattere “relativo” del divieto di analogia riferito alla sola interpretazione delle norme penali sfavorevoli, per le Sezioni Unite, a questo punto della disamina, occorre verificare i limiti di un’interpretazione analogica in bonam partem, in presenza di una disposizione generale, come l’art. 14 preleggi, che esclude comunque l’applicazione analogica delle leggi eccezionali; in altre parole, si tratta di vedere se anche l’interpretazione analogica in bonam partem sia ostacolata in presenza di leggi eccezionali.
Per rispondere a questo quesito, si faceva prima di tutto presente come proprio il riconoscimento all’art. 384 c.p., comma 1, della natura di norma di carattere eccezionale abbia costituito una delle ragioni prevalenti per far negare alla Corte costituzionale (sent. n. 140 del 2009) la possibilità di applicazione dell’esimente alle coppie di fatto, impostazione seguita, in parte, dalla giurisprudenza di legittimità e ripresa in questo processo anche nell’ordinanza di rimessione nonché nella memoria dell’Avvocato generale.
In secondo luogo si notava come siano tradizionalmente ritenute eccezionali quelle norme che introducono discipline derogatorie rispetto alla portata di leggi generali sebbene in questo caso il rapporto che viene a stabilirsi è tra legge speciale e legge generale apparendo invece più corretta l’impostazione, suggerita da un’attenta e autorevole dottrina, che individua la disposizione eccezionale là dove deroga ad un principio generale dell’ordinamento fermo restando che dall’eccezionalità della norma deriva l’impossibilità di attivare il procedimento di interpretazione analogica.
Le cause di non punibilità in senso stretto, in quanto norme eccezionali, sono pertanto considerate escluse dall’applicazione analogica e, in questo caso, l’esclusione del ricorso all’analogia è affermato in quanto esse derivano il carattere eccezionale dal fatto che sono “riconducibili a valutazioni di opportunità estrinseche rispetto al fatto di reato“.
Al contrario, si ritiene che non abbiano carattere eccezionale le cause di giustificazione e quelle di esclusione della colpevolezza per le quali può riconoscersi uno spazio per l’applicazione analogica.
In particolare, per le scusanti si ritiene che possa negarsi la natura di norme eccezionali ogni qualvolta siano espressione di un principio generale dell’ordinamento, sebbene non manchino opinioni contrarie, secondo cui le “eventuali lacune in materia di scusanti possono essere colmate solo dal legislatore e non dal giudice in via analogica“, opinioni che, d’altra parte, non sono condivise da chi sottolinea come la stessa “inesigibilità” sia una causa generale di esclusione della colpevolezza.
Precisato ciò, una volta evidenziato che la disposizione dell’art. 384 c.p., comma 1, non può essere considerata come una causa di non punibilità in senso stretto ma piuttosto una scusante soggettiva che investe la colpevolezza impedendo la punizione in presenza di una condotta che viene percepita come inesigibile, si rilevava come queste caratteristiche portassero ad escludere la valenza eccezionale della norma – così come intesa dall’art. 14 preleggi – che non introduce una deroga alle norme generali e che può essere oggetto di un procedimento di applicazione analogica proprio perché espressione dei principi generali nemo tenetur se detegere e ad impossibilia nemo tenetur riconducibili al principio di colpevolezza di cui all’art. 27 Cost., comma 1, sotto il profilo della necessaria valutazione della possibilità per il soggetto di poter agire diversamente.
L’esimente in questione, quindi, costituisce manifestazione di un principio immanente al sistema penale, quello cioè della “inesigibilità” di una condotta conforme a diritto in presenza di circostanze particolari, tali da esercitare una forte pressione sulla motivazione dell’agente, condizionando la sua libertà di autodeterminazione.
A fronte di ciò, si denotava come nel nostro ordinamento sia ben presente il principio generale volto ad escludere che possa esservi una condotta colpevole in presenza di un precetto penale che non risulti esigibile fermo restando che la causa di esclusione della colpevolezza di cui al citato art. 384, è espressione del principio generale contenuto nell’art. 27 Cost. (Corte Cost. n. 364 del 1988) tale da giustificare un’applicazione analogica nei “casi simili“.
Orbene, una volta riconosciuta all’art. 384 c.p., comma 1, la natura di scusante soggettiva ed esclusa di conseguenza ogni valenza eccezionale della disposizione stessa, la sua applicazione anche alle coppie di fatto, per le Sezioni Unite, trova piena giustificazione la cui legittimazione trova forza non solo nel complessivo quadro normativo e giurisprudenziale cui si è fatto riferimento univocamente diretto a offrire una piena tutela alle situazioni di convivenza di fatto -, quanto piuttosto nella stessa struttura, funzione e natura della disposizione in esame.
Va dunque riconosciuto per la Corte che nella specie l’applicazione della scusante al “convivente” si pone in linea proprio con la ratio della causa di esclusione della colpevolezza trattandosi di operare una interpretazione di una norma di favore concernente la colpevolezza in piena conformità alla ratio della scusante stessa che determina a sua volta una lettura “analogica” della norma che le consente di esplicare tutta la sua portata con coerenza e razionalità visto che, in presenza di una scusante basata su una situazione soggettiva della persona chiamata a rendere una dichiarazione all’autorità giudiziaria ovvero a fornire indicazioni alla polizia giudiziaria contro un proprio parente, ci si trova dinanzi alla alternativa – che può risultare drammatica – tra l’adempimento di un dovere sanzionato penalmente e la protezione dei propri affetti, e risulta pertanto del tutto “incoerente” negare che non ricorra la medesima condizione soggettiva, sia che si tratti di persone coniugate, sia che si tratti di persone conviventi dato che, in entrambi i casi, da una parte, il conflitto interiore è identico, dall’altra, l’art. 384 cit. considera inesigibile la condotta oggetto della norma penale violata per mancanza della “colpevolezza” dell’agente.
D’altra parte, secondo le Sezioni Unite, l’art. 384 c.p., comma 1, più che funzionale alla tutela dell’”unità familiare“, appare volto a garantire il singolo componente che si trovi nell’alternativa di porre in essere un reato ovvero di non nuocere a un prossimo congiunto e, in questo senso, si è evidenziato come la disposizione sia posta a “tutela del singolo familiare sull’interesse della collettività e dello Stato alla punizione“.
La ratio corrisponde perfettamente a quella dell’art. 199 c.p.p., come hanno evidenziato le Sezioni Unite (sent. n. 7208 del 29/08/2007) riconoscendo che l’art. 384 c.p. si ricollega al principio generale dell’ordinamento nemo tenetur se detegere allo scopo di salvaguardare i vincoli di solidarietà “familiare“, scopo che ha di mira anche l’art. 199 cit., relativo alla facoltà di astensione dei prossimi congiunti dell’imputato dal rendere testimonianza poiché, anche nella disposizione processuale, l’oggetto della tutela è il “sentimento affettivo“, la motivabilità dell’agente, in presenza di un conflitto interiore tra rendere una dichiarazione pregiudizievole per il “parente” e non danneggiarlo.
Una simile lettura del rapporto tra le due norme citate e dell’inserimento di esse nella tematica della “famiglia“, del resto, trova conferma, per i giudici di piazza Cavour, anche nella sentenza n. 352 del 2000 della Corte costituzionale secondo cui “la disposizione del codice di rito sancisce la prevalenza delle relazioni affettive familiari sull’interesse della collettività alla punizione dei reati, ma in un’ottica di preminente salvaguardia del membro della famiglia, chiamato a rendere testimonianza, al quale è riconosciuta la facoltà (…) di sottrarsi al relativo obbligo e, così, all’alternativa fra deporre il falso o nuocere al congiunto”.
Può dirsi quindi, per la Corte, che l’art. 199 c.p.p., acquista una funzione di indirizzo interpretativo in ordine alla estensione della scusante prevista dall’art. 384 alle coppie di fatto considerato che la facoltà di astensione è riferita anche a chi, pur non essendo coniuge dell’imputato, conviva o abbia convissuto con lui mentre il mancato riconoscimento dell’estensione della scusante di cui all’art. 384 c.p., comma 1, anche al convivente determinerebbe un problematico rapporto con il comma 2 dello stesso articolo, dal momento che il convivente more uxorio, sebbene gli sia riconosciuto, come per il coniuge, il diritto all’avvertimento in funzione dell’astensione di cui all’art. 199 c.p.p., con conseguente non punibilità in caso di omissione, non sarebbe invece tutelato nell’ipotesi prevista dal comma 1 in cui abbia posto in essere un comportamento che sia ritenuto inesigibile.
Insomma, l’art. 384, comma 1, così come l’art. 199 c.p.p., è volto a tutelare la libertà del singolo componente della “famiglia” e ciò avviene valorizzando il coinvolgimento psicologico dell’agente, dando rilievo alla situazione di conflitto che altera “il procedimento di motivabilità” che coinvolge la sfera della “colpevolezza“.
Per il Supremo Consesso, di conseguenza, la struttura, la funzione e la natura della scusante dell’art. 384, comma 1, così come ricostruita, consente di concludere riconoscendo una assoluta parità delle situazioni in cui possono venirsi a trovare il coniuge e il convivente nel senso che l’esistenza di un conflitto determinato da sentimenti affettivi non può essere valutato differentemente a seconda che l’unione tra due persone sia fondata o meno sul vincolo matrimoniale.
Affermata la possibilità di applicare “analogicamente” la causa di esclusione della colpevolezza anche nei confronti di chi abbia commesso uno dei reati indicati nell’art. 384 c.p., comma 1, per “salvare” il convivente di fatto, per gli Ermellini, si giunge alla conclusione secondo cui la necessità che la situazione di “convivenza” deve risultare in base ad elementi di prova rigorosi nel senso che la dimostrazione della ricorrenza della situazione della convivenza potrà essere dimostrata anche dall’imputato attraverso allegazioni da cui risultino elementi specifici che pongano il giudice in condizione di accertarne l’esistenza.
Riguardo ai caratteri della “convivenza“, veniva osservato che la L. n. 76 del 2016, definisce conviventi due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, di fatto utilizzando i risultati di una consolidata giurisprudenza civile e anche penale, che richiede la sussistenza di un grado di stabilità e di continuatività del legame affettivo, in qualche modo assimilabile al rapporto coniugale fermo restando che, a seguito della citata legge del 2016, la stabilità della convivenza può oggi essere accertata anche attraverso la dichiarazione anagrafica di cui all’art. 4, e all’art. 13, comma 1, lett. b), del regolamento di cui al D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223, dichiarazione che, secondo alcuni, avrebbe istituito il nuovo genere di coppie di fatto “registrate“, sebbene sia discussa la valenza costitutiva di tale dichiarazione, tuttavia ai fini penali potrà costituire un forte elemento di prova ferma restando che la convivenza potrà comunque essere dimostrata attraverso qualsiasi mezzo di prova.
Le Sezioni Unite, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, postulavano il seguente principio di diritto: “l’art. 384 c.p., comma 1, in quanto causa di esclusione della colpevolezza, è applicabile analogicamente anche a chi ha commesso uno dei reati ivi indicati per esservi stato costretto dalla necessità di salvare il convivente more uxorio da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore“.
Conclusioni
La decisione in esame è assai interessante in quanto, risolvendo un contrasto giurisprudenziale, viene affermato il principio di diritto secondo cui l’art. 384 c.p., comma 1, in quanto causa di esclusione della colpevolezza, è applicabile analogicamente anche a chi ha commesso uno dei reati ivi indicati per esservi stato costretto dalla necessità di salvare il convivente more uxorio da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore.
Quanto al modo con cui si può provare tale convivenza, sempre in questo arresto giurisprudenziale, si afferma che ciò può avvenire sulla scorta di elementi di prova rigorosi nel senso che la dimostrazione della ricorrenza della situazione della convivenza potrà essere dimostrata anche dall’imputato attraverso allegazioni da cui risultino elementi specifici che pongano il giudice in condizione di accertarne l’esistenza fermo restando che, per quanto attiene la stabilità della convivenza, la prova di essa può avvenire producendo la dichiarazione anagrafica di cui all’art. 4, e all’art. 13, comma 1, lett. b), del regolamento di cui al D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta sentenza, proprio perché fa chiarezza su questi aspetti giuridici, dunque, non può che essere positivo.
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Fabio PiccioniAvvocato del Foro di Firenze, patrocinante in Cassazione; LL.B., presso University College of London; docente di diritto penale alla Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali; coordinatore e docente di master universitari; autore di pubblicazioni e monografie in materia di diritto penale e amministrativo sanzionatorio; giornalista pubblicista.
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