La decadenza per il diritto al danno da trasfusione decorre dalla consapevolezza (Cass. n. 19811/2013)

Redazione 28/08/13
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Svolgimento del processo

Con sentenza del 27 settembre 2007 la Corte di appello di Palermo ha confermato la sentenza di primo grado che aveva dichiarato improponibile l’azione proposta da P.G.A., avente ad oggetto il riconoscimento dell’indennizzo da epatite post- trasfusionale.

La Corte territoriale, per quanto rileva in questa sede, ha motivato tale decisione ritenendo tardiva la domanda, per avere la ricorrente agito oltre il termine triennale di decadenza di cui alla L. n. 210 del 1992, art. 3, comma 1, come modificato dalla L. n. 238 del 1997, art. 1, comma 9: la conoscenza della menomazione era avvenuta nel mese di (omissis), data in cui era stata diagnosticata l’epatite cronica da HCV; dunque, la ricorrente avrebbe dovuto proporre la domanda, ai sensi della L. n. 210 del 1992, art. 3, u.c., entro il 28 luglio 2000; la domanda era stata invece presentata solo nel mese di dicembre 2000, oltre la scadenza del termine. Ha poi ritenuto non condivisibile la tesi dell’appellante, secondo cui l’unica menomazione che poteva dare luogo all’indennizzo era l’epatopatia cronica (nella specie accertata nel mese di ottobre 2000); al riguardo ha osservato che, secondo l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità nella sentenza n. 10214/2007, l’indennizzo spetta anche a chi, contagiato da trasfusione infetta, presenti una c.d. epatite silente, in cui non sono presenti sintomi e pregiudizi funzionali attuali.

Avverso tale sentenza propone ricorso P.G.A. sulla base di tre motivi.

Resiste con controricorso il Ministero della Salute.

Motivi della decisione

Con i primi due motivi si censura la sentenza per violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla L. 25 febbraio 1992, n. 210, art. 3, comma 1, come modificata dalla L. 25 luglio 1997, n. 238, art. 1, comma 9 (art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 5).

In particolare, si deduce che il danno epatico, per essere indennizzabile, deve essere ascrivibile ad una delle otto categorie previste dalla tabella A allegata al D.P.R. 30 dicembre 1981, n. 834;

solo dal momento in cui si abbia la conoscenza qualificata della malattia mediante manifestazioni cliniche e l’entità della lesione abbia determinato una menomazione permanente del soggetto, è configurabile quella conoscenza del danno, intesa come conoscenza qualificata della consapevolezza degli effetti dannosi, da cui prende a decorrere il termine di decadenza. Nella specie, tale momento non poteva coincidere con la scoperta del virus, posta con la prima diagnosi di epatite C, che indicava solo il momento in cui il virus aveva iniziato ad essere attivo e a produrre un danno; questo si è manifestato solo con la diagnosi di epatopatia, avutasi con la biopsia del 7.10.2000; la domanda di indennizzo, presentata il 13 dicembre 2000, dopo appena tre mesi dall’acquisizione della consapevolezza del danno, era dunque tempestiva.

Con un secondo ordine di censure ci si duole che la Corte di appello abbia rilevato d’ufficio la decadenza senza un’eccezione di parte volta a contestare il momento della conoscenza del danno quale indicato dalla parte ricorrente.

Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 11, 12 e 14 disp. **** (art. 360 cod. proc. civ., n. 3) per avere la sentenza applicato il termine triennale di decadenza ad una fattispecie di epatite post-trasfusionale verificatasi prima dell’entrata in vigore della L. n. 238 del 1997. L’originario testo della L. n. 210 del 1992, art. 3, comma 1, non prevedeva alcun termine per i soggetti che avessero contratto l’epatite a seguito di trasfusioni di sangue; da qui, l’applicazione per essi, in mancanza di una espressa e diversa previsione, del termine ordinario di prescrizione decennale. Dunque, anche a volere seguire la tesi che porta a far coincidere la consapevolezza del danno con la scoperta di positività del virus – come ritenuto dalla Corte di appello -, per le epatiti sorte prima della L. n. 25 luglio 1997, n. 238, doveva trovare applicazione il termine decennale, con la conseguenza che nella fattispecie, essendo la scoperta della positività avvenuta nel 1995, la ricorrente aveva termine fino al 24.11.2005 per presentare la domanda amministrativa.

Il primo motivo è fondato, restando assorbito, nell’accoglimento della relativa censura, l’esame dei restanti.

In via generale, va osservato che l’indennizzo di cui alla L. n. 210 del 1992, si configura come diritto soggettivo ad una prestazione economica a carattere assistenziale (Cass., sez. un., 8 maggio 2006, n. 10418) per il fatto di essere ad esso sottese ragioni di solidarietà (art. 2 Cost.) e di contrasto del bisogno (art. 38 Cost., comma 2) che giustificano una parziale “socializzazione” del danno, affinchè non gravi solo sul soggetto che si trova a subire un pregiudizio permanente alla sua integrità fisica, non altrimenti risarcibile, a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati” (Cass. S.U. n. 12538 del 9.6.2011).

E’ tuttavia rimessa all’ampia discrezionalità al legislatore ordinario sia l’an che il quantum dell’indennizzo, anche in ragione della compatibilita con le risorse disponibili (art. 81 Cost.).

La L. n. 210 del 1992, art. 3, comma 1, stabiliva – nel testo originario, che: “1. I soggetti interessati ad ottenere l’indennizzo di cui all’art. 1, comma 1, presentano domanda al ministro della sanità entro il termine perentorio di tre anni nel caso di vaccinazioni o di dieci anni nei casi di infezioni da HIV. I termini decorrono dal momento in cui, sulla base della documentazione di cui ai commi 2 e 3, l’avente diritto risulti aver avuto conoscenza del danno”;

– nel testo modificato dal primo D.L. 30 agosto 1996, n. 450, che: “la L. 25 febbraio 1992, n. 210, art. 3, comma 1, è sostituito dal seguente:” 1. I soggetti interessati ad ottenere l’indennizzo di cui all’art. 1, comma 1, presentano domanda al ministro della sanità, tramite la usi territorialmente competente, entro il termine perentorio di tre anni nel caso di vaccinazioni o di epatiti post- trasfusionali o di dieci anni nei casi di infezioni da hiv. I termini decorrono dal momento in cui, sulla base della documentaz ione di cui ai commi 2 e 3, l’avente diritto risulti aver avuto conoscenza del danno. La usi provvede all’istruttoria delle domande e all’acquisizione del giudizio di cui al successivo art. 4, sulla base di direttive del ministero della sanità”;

– nel testo definitivo, come modificato dalla L. n. 238 del 1997, che: “la L. 25 febbraio 1992, n. 210, art. 3, comma 1, è sostituito dal seguente: “1. I soggetti interessati ad ottenere l’indennizzo di cui all’art. 1, comma 1, presentano alla usi competente le relative domande, indirizzate al ministro della sanità, entro il termine perentorio di tre anni nel caso di vaccinazioni o di epatiti post trasfusionali o di dieci anni nei casi di infezioni da hiv, i termini decorrono dal momento in cui, sulla base delle documentazioni di cui ai commi 2 e 3, l’avente diritto risulti aver avuto conoscenza del danno. La usi provvede, entro novanta giorni dalla data di presentazione delle domande, all’istruttoria delle domande stesse e all’acquisizione del giudizio di cui all’art. 4, sulla base di direttive del ministero della sanità, che garantiscono il diritto alla riservatezza anche mediante opportune modalità organizzative”.

Quanto alla soglia minima di indennizzabilità del danno permanente alla salute in caso di danni irreversibili da epatiti post- trasfusionali, la soluzione adottata dalla Corte di appello in tema di rilevanza delle ed, epatiti silenti prestava adesione ad un precedente giurisprudenziale di questa Corte (Cass. n. 10214 del 2007), che tuttavia è stato superato dalla successiva giurisprudenza delle Sezioni unite di cui alla sentenza 1 aprile 2010, nn. 8064 (conf. Cass. ord. 8 novembre 2010, n. 22706 e sent. 3 febbraio 2012 n. 1635). Tale pronuncia ha affermato che, in tema di indennizzo in favore di soggetti danneggiati da epatite post-trasfusionale, la L. 25 febbraio 1992, n. 210, art. 1, comma 3, letto unitamente al successivo art. 4, comma 4, deve interpretarsi nel senso che prevede un indennizzo in favore di coloro che presentino danni irreversibili da epatiti post-trasfusionali, sempre che tali danni possano inquadrarsi – pur alla stregua di un mero canone di equivalenza e non già secondo un criterio di rigida corrispondenza tabellare – in una delle infermità classificate in una delle otto categorie di cui alla tabella B annessa al testo unico approvato con D.P.R. 23 dicembre 1978, n. 915, come sostituita dalla tabella A allegata al D.P.R. 30 dicembre 1981, n. 834, rientrando nella discrezionalità del legislatore, compatibile con il principio di solidarietà (art. 2 Cost.) e con il diritto a misure di assistenza sociale (art. 38 Cost.), la previsione di una soglia minima di indennizzabilità del danno permanente alla salute nel caso di trattamenti sanitari non prescritti dalla legge o da provvedimenti dell’autorità sanitaria.

Si era, difatti, verificato un contrasto di giurisprudenza, riassumibile nel quesito se la valutazione dei “danni irreversibili” causati da infezione da HCV in occasione di emotrasfusione (epatite post-trasfusionale) implicasse necessariamente la classificazione degli stessi in una delle otto categorie previste dalla tabella A annessa al testo unico approvato con D.P.R. 23 dicembre 1978, n. 915, come sostituita dalla tabella A allegata al D.P.R. 30 dicembre 1981, n. 834, e quindi se sussistesse, o meno, una soglia minima, costituita dalla categoria (l’ottava), recante le infermità e minorazioni meno gravi, della tabella suddetta; soglia il cui superamento condizioni, come presupposto, l’insorgenza del diritto all’indennizzo previsto dall’art. 1, comma 3 cit..

La questione si poneva “perchè, se da una parte l’art. 1 cit. parla di danno permanente tout court (id est: “menomazione permanente della integrità psico-fisica” ex art. 1, comma 1, “danni permanenti alla integrità psico-fisica” ex art. 1, comma 2, “danni irreversibili” ex art. 1, comma 3), dalla cui conoscenza peraltro decorre (ex art. 3, comma 1) il termine di decadenza (di tre e dieci anni) per la domanda di indennizzo, l’art. 4 invece introduce un elemento di valutazione di tale requisito….” (sent. S.U. cit.); “…mentre il comma 1 di tale disposizione demanda il “giudizio sanitario” ad una commissione medico-ospedaliera (quella per le pensioni di guerra di cui al D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, art. 165) ed il comma 3 specifica che la commissione deve esprimere un “parere” sul nesso causale tra malattia e danno permanente (le “lesioni”), il successivo comma 4 aggiunge un “giudizio di classificazione” richiamando la tabella A annessa al t.u. delle pensioni di guerra (D.P.R. n. 1092 del 1973 cit.)” (sent. S.U., cit.).

Le Sezioni Unite hanno osservato che il parametro di valutazione di questa “classificazione” è la richiamata tabella A (come sostituita dalla corrispondente tabella A allegata al D.P.R. 30 dicembre 1981, n. 834, di riordino delle pensioni di guerra) che cataloga le “infermità” in otto categorie, dalla più grave (in particolare, mutilazioni di arti) a quella meno grave – l’ottava – che comprende anche malattie croniche (del tipo bronchite o gastrite o cistite); non è invece richiamata, dall’art. 4, comma 4 cit., la tabella B del cit. t.u. delle pensioni di guerra che cataloga infermità minori, non rientranti in nessuna delle otto categorie nella tabella A e non di meno indennizzate (pur non con la pensione di guerra, bensì) con un’indennità una tantum.

Il legislatore ha dunque voluto che il danno permanente fosse catalogabile in una delle otto categorie della richiamata tabella A che, seppure riferita a danni alla salute cagionati da eventi bellici traumatici (tant’è che il danno permanente tabellato più ricorrente è quello della mutuazione fisica), mentre tale connotazione certamente non ha il danno permanente causato dai trattamenti sanitari in questione, obbligatori e non, costituisce un riferimento lasciato inalterato dal legislatore che più volte successivamente è intervenuto in materia.

Ben può esservi un danno permanente che risulti essere al di sotto dell’ottava categoria; l’ipotesi tipica è quella della malattia silente o asintomatica. Tuttavia, mentre il sistema del D.P.R. n. 915 del 1978 (t.u.) è mirato a coprire tendenzialmente tutti di danni da eventi bellici, anche quelli lievi e a tal fine è la tabella B che, incrementata con il criterio dell’equivalenza, costituisce una sorta di clausola di chiusura del sistema delle pensioni di guerra, nel sistema dell’indennizzo del danno permanente di cui alla L. n. 210 del 1992, la tabella B non è richiamata dall’art. 4, comma 4, che – come rilevato – fa riferimento solo alla tabella A. “Il mancato richiamo della tabella B ed il rinvio alla sola tabella A comporta, sul piano degli ordinari canoni interpretativi, che c’è una soglia di danno permanente minimo, al di sotto della quale non c’è l’indennizzo ex L. n. 210 del 1992, fino a quando la malattia, ancora silente ed asintomatica, non si manifesti superando la soglia suddetta” (sent. S.U., cit.).

E’ stato così osservato che l’affermazione di una soglia minima di indennizzabilità comporta anche che “il termine di decadenza di tre (e dieci) anni, di cui all’art. 3, comma 1, si sposta in avanti nel senso che comincia da decorrere dal momento della consapevolezza, da parte di chi chiede l’indennizzo, del superamento della soglia” (sent. cit.). Applicando tali principi alla fattispecie in esame, risulta che il momento rilevante ai fini della decorrenza del termine di decadenza triennale è quello in cui il soggetto contagiato abbia avuto conoscenza di essere portatore di una infermità classificabile in una delle categorie della più volte menzionata tabella A;

l’integrazione del medesimo danno costituisce titolo per il riconoscimento del beneficio in questione.

Tale accertamento è mancato nella fattispecie, avendo la Corte di appello ritenuto rilevante, ai fini della decorrenza del termine di decadenza, in adesione ad un indirizzo interpretativo successivamente superato, il momento della conoscenza dell’esistenza di una positività al virus, mentre occorreva fare riferimento al momento della acquisita consapevolezza dell’esistenza di un danno epatico, ossia di una patologia riconducibile (secondo un parametro di riferimento) ad una della malattie della tabella A annessa al D.P.R. 1981, con manifestazione del danno clinico.

Nel consegue l’accoglimento del ricorso e la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio, anche per le spese, alla Corte di appello di Palermo, in diversa composizione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Palermo, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 14 maggio 2013.

Redazione