Fruire della agevolazioni prima casa senza possedere la residenza anagrafica è elusione fiscale (Cass. n. 17957/2012)

Redazione 19/10/12
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Svolgimento del processo

L’agenzia delle entrate di Legnago notificava alla *****************, per gli anni 1995 e 1996, alcuni avvisi di accertamento basati sulle risultanze di un verbale di constatazione della g.d.f..

Il verbale aveva evidenziato il rinvenimento di documentazione extracontabile e di contabilità informatica parallela presso i locali aziendali, e il rinvenimento di documentazione del pari extracontabile presso l’abitazione di uno dei soci.

La società impugnava gli avvisi eccependo, per quanto interessa, la carenza dei presupposti per il rilascio dell’autorizzazione all’accesso domiciliare da parte del competente p.m..

Il rilievo, disatteso dalla commissione tributaria provinciale di Verona, veniva accolto, su gravame della contribuente, dalla commissione tributaria regionale del Veneto, la quale – assorbita ogni diversa questione – in proposito osservava che non era stata prodotta la copia della richiesta inoltrata dalla g.d.f. agli specifici fini dell’ottenimento dell’autorizzazione all’accesso presso l’abitazione privata del socio amministratore della s.a.s.; per cui non era stato possibile stabilire se, al momento della concessione dell’autorizzazione detta, erano o meno esistenti gli indizi di violazione di norme tributarie di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52. Aggiungeva che in ogni caso l’accesso dovevasi considerare illegittimo anche perchè attuato presso locali diversi da quelli cui l’autorizzazione era stata riferita; e segnatamente presso l’abitazione di un soggetto estraneo alla società, quale la nonna dell’amministratore. Per la cassazione di questa sentenza ricorre l’agenzia delle entrate articolando quattro motivi, ai quali l’intimata resiste con controricorso e successiva memoria.

Motivi della decisione

1. – Col primo motivo l’agenzia delle entrate deduce la nullità della sentenza: (a) per omessa motivazione ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, n. 4; e (b) per omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112 c.p.c.. Il motivo, concluso da duplice quesito di diritto, è infondato.

La ricorrente si duole del fatto di avere la commissione qualificato come assorbente – in fattispecie caratterizzata da plurime riprese fiscali – la questione relativa alla illegittima acquisizione della documentazione rinvenuta in occasione dell’accesso presso le abitazioni private, dell’amministratore di fatto della s.a.s. e della nonna di questi.

Ascrive alla decisione di non avere illustrato a quale delle differenti pretese impositive, scaturite dall’indagine della g.d.f., dovevasi ritenere pertinente la documentazione detta, nè di aver spiegato perchè l’illegittimità dell’acquisizione fosse tale da travolgere tutti gli avvisi impugnati.

Una simile carenza costituisce, tuttavia, un vizio logico della motivazione, eventualmente denunciabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, sotto il profilo della motivazione insufficiente e contraddittoria su fatti controversi decisivi.

Ma non giustifica, invece, il (duplice) rilievo di nullità della sentenza.

Non lo giustifica sotto il profilo della mancanza di motivazione, in quanto la motivazione, quale elemento contenutistico essenziale dell’atto-sentenza, si rinviene proprio nell’affermazione censurata, rappresentativa della ratio decidendi, secondo la quale dalla illegittimità dell’acquisizione documentale presso le private abitazioni dovevasi far seguire il travolgimento dell’ intera pretesa fiscale.

Non lo giustifica sotto il profilo dell’omissione di pronuncia, chiaro essendo che una pronuncia v’è stata su tutti i motivi dell’avverso appello, tra i quali la commissione regionale ha semplicemente ritenuto decisivo e assorbente quello dianzi mentovato.

L’omessa pronuncia, quale vizio della sentenza, può invero essere utilmente prospettata solo con riguardo alla mancanza di una decisione da parte del giudice in ordine a una domanda, che, ritualmente e incondizionatamente proposta, richiede una pronuncia di accoglimento o di rigetto. Il vizio, di contro, va escluso in relazione alla questione implicitamente o esplicitamente dichiarata assorbita in altre statuizioni della sentenza (cfr., ex plurimis, Cass. n. 9545/2001; n. 830/1997; n. 6248/1991).

2. – Col secondo motivo la ricorrente denunzia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Chiede che la sentenza sia cassata in congruente risposta al quesito se incorra in violazione della norma, ripartendo in modo erroneo l’onere probatorio, il giudice tributario che, affermata la necessità di verificare l’esistenza dei gravi indizi di violazioni di norme tributarie di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 2, dichiari illegittimi gli avvisi impugnati per la ritenuta inesistenza di detti indizi, “argomentando dal fatto che la richiesta di autorizzazione avanzata dalla polizia tributaria all’autorità giudiziaria non è stata acquisita agli atti di causa”. Il motivo è infondato.

L’autorizzazione del procuratore della Repubblica, prescritta dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, commi 1 e 2, ai fini dell’accesso degli impiegati dell’amministrazione finanziaria (o della guardia di finanza, nell’esercizio dei compiti di collaborazione con gli uffici finanziari a essa demandati) a locali adibiti anche ad abitazione del contribuente o a locali diversi (cioè adibiti esclusivamente ad abitazione), è sempre necessaria. Essa rimane subordinata alla presenza di gravi indizi di violazioni tributarie in quest’ultimo caso, vale a dire per l’accesso in locali “diversi” in quanto solo abitativi (cfr. per utili riferimenti Cass. n. 16570/2011; n. 2444/2007; n. 10664/1998).

E’ pacifico che l’autorizzazione all’accesso da parte dell’autorità giudiziaria, in quanto diretta a tutelare l’inviolabilità del domicilio privato, e quindi, indirettamente, lo spazio di libertà del contribuente, rileva alla stregua di candido sine qua non per la legittimità dell’atto e delle relative conseguenti acquisizioni (cfr. Cass. n. 6908/2011). Giacchè il principio di inutilizzabilità della prova illegittimamente acquisita si applica anche in materia tributaria, in considerazione della garanzia difensiva accordata, in generale, dall’art. 24 Cost. (v. Cass. n. 8181/2007; n. 19689/2004).

Il giudice tributario, pertanto, in sede di impugnazione dell’atto impositivo basato su libri, registri, documenti e altre prove reperite mediante accesso domiciliare autorizzato dal procuratore della Repubblica, ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 52 (in tema di imposta sul valore aggiunto, ma reso applicabile anche ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi dal richiamo operato dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 33), ha il dovere (in ossequio al canone ermeneutico secondo cui va privilegiata l’interpretazione conforme ai precetti costituzionali, nella specie agli artt. 14 e 113 Cost.), oltre che di verificare la presenza, nel decreto autorizzativo, di una motivazione – sia pure concisa o per relationem mediante recepimento dei rilievi dell’organo richiedente – circa il concorso di gravi indizi del verificarsi dell’illecito fiscale, anche e soprattutto di controllare la correttezza in diritto del relativo apprezzamento; e quindi di verificare che codesto abbia fatto riferimento a elementi cui l’ordinamento attribuisca effettiva valenza indiziaria.

Questa Corte per esempio ha stabilito che, nell’esercizio di tale compito, il giudice deve negare la legittimità dell’autorizzazione emessa esclusivamente sulla scorta di informazioni anonime, valutando conseguentemente il fondamento della pretesa fiscale senza tenere conto di quelle prove (v. Cass. n. 21974/2009).

Logica conclusione di codesti consolidati principi è che, laddove (come nella specie risulta incontroverso) nel giudizio tributario non sia dall’amministrazione prodotta la richiesta di accesso degli organi accertatori, cui sia stata correlata l’autorizzazione del pubblico ministero, non viola la disposizione di cui all’art. 2697 c.c. il giudice tributario che reputi in tal modo impedita la verifica della effettiva esistenza di gravi indizi a presidio dell’autorizzazione concessa.

Nè d’altronde la ricorrente ha evidenziato, rendendo sul punto il ricorso autosufficiente, quali fossero gli indizi al riguardo considerati nel provvedimento di autorizzazione.

2. – Il terzo motivo denunzia la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 3, imputando alla commissione regionale di aver omesso di avvalersi dei poteri ivi previsti quanto alla documentazione non prodotta in giudizio.

Il motivo è infondato dal momento che contrasta col consolidato orientamento di questa Corte secondo cui, in tema di contenzioso tributario, l’acquisizione d’ufficio dei documenti necessari per la decisione costituisce una facoltà discrezionale, attribuita alle commissioni tributarie dall’art. 7, comma 3 cit. (oggi abrogato dal D.L. n. 203 del 2005, art. 3-bis, comma 5, conv. in L. n. 248 del 2007); il cui esercizio, quindi, non può sopperire al mancato assolvimento, a opera delle parti, del rispettivo onere della prova (Cass. n. 4617/2008; n. 905/2006; n. 8439/2004).

4. – Il quarto mezzo denunzia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, un’omessa motivazione su fatti controversi e decisivi per il giudizio.

In particolare lamenta che la commissione non abbia motivato in ordine a due circostanze: (a) l’identificazione dell’immobile oggetto di asserito contratto di comodato, dalla sentenza affermata come impossibile sulla base delle risultanze probatorie raccolte, e (b) la compatibilità, rispetto alla struttura dell’immobile oggetto di accesso, dell’ipotesi che il locale (un ripostiglio protetto da porta blindata), contenente la documentazione extracontabile, costituisse un’area non rientrante nel domicilio del socio. Il motivo è generico e come tale inammissibile. Manca invero di indicare quali fatti controversi decisivi – vale a dire quali specifiche risultanze – avrebbero dovuto essere considerati dal giudice del merito per addivenire a un convincimento diverso da quello espresso in sentenza.

5. – Conclusivamente, il ricorso dell’amministrazione è rigettato.

La peculiarità della fattispecie, tenuto conto degli elementi di fatto comunque emergenti dall’impugnata sentenza, induce a ravvisare l’esistenza di giusti motivi di compensazione delle spese processuali.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese processuali.

Redazione