Quando non può essere ritenuta in sentenza dal giudice la fattispecie aggravata del reato di falso in atto pubblico, ai sensi dell’art. 476, comma 2, cod. pen.

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(Annullamento senza rinvio)

(Riferimento normativo: Cod. pen. art. 476, c. 2).

Il fatto

La Corte di appello dell’Aquila, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Lanciano del 17 luglio 2014, aveva confermato l’affermazione di responsabilità della S. per il reato di falso ideologico in atto pubblico di fede privilegiata di cui agli artt. 479 e 476, comma 2, cod. pen., commesso il 19 giugno 2006, così riqualificato in primo grado il reato originariamente contestato nella violazione dell’art. 476, comma 1, cod. proc. pen., riconoscendo in favore della stessa circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, rideterminando la pena e concedendo alla S. i benefici di legge.

La responsabilità dell’imputata era stata in particolare affermata per la falsa attestazione, quale presentatore di tre titoli cambiari emessi da P. C. in favore di P. T. e successivamente protestati, di essersi recata presso il domicilio indicato nei titoli e di avervi provveduto alle ricerche del debitore.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso questo provvedimento proponeva ricorso per cassazione, a mezzo del suo difensore, l’imputato adducendo i seguenti motivi: a) violazione di legge sul rigetto dell’eccezione di nullità della sentenza di primo grado per violazione del principio di correlazione fra l’imputazione e la condanna rilevando in particolare che: 1) l’ipotesi aggravata del falso commesso in un atto di fede privilegiata, per la quale il Tribunale riteneva l’imputata responsabile, non era stata contestata nell’imputazione laddove nella stessa l’atto oggetto del falso non era specificato e comunque, nel momento in cui si precisava che i titoli venivano protestati solo successivamente, era indicato in un atto diverso da quello di protesto, e quindi necessariamente nell’attività di ricerca del debitore e di ricezione delle dichiarazioni dello stesso; 2) la motivazione della sentenza impugnata era meramente apparente, nel riferimento alla contestazione della commissione del falso nell’attività di presentatore delle cambiali, a fronte dell’argomentazione dell’appello con la quale si contestava che l’atto di cui all’imputazione fosse quello di protesto e che, comunque, si trattasse di un atto di fede privilegiata; 3) la riqualificazione in tal modo operata violava il contraddittorio secondo i principi stabiliti dalla giurisprudenza comunitaria; b) violazione di legge sulla ritenuta qualità di pubblico ufficiale dell’imputata atteso che: I) tale qualità non era stata accertata e non ricorreva comunque nella figura del presentatore di titoli cambiari, considerato che l’equiparazione di tale figura al pubblico ufficiale è prevista dall’art. 2 della legge 12 giugno 1973, n. 349 ai limitati fini delle disposizioni di cui al secondo titolo del secondo libro del codice penale, che non comprende i reati di falso; II) l’argomentazione della sentenza impugnata, per la quale nel predetto titolo è incluso l’art. 357 cod. pen. che detta la nozione di pubblico ufficiale, non considerava il chiaro rinvio dell’art. 2 legge n. 349 del 1973 alle sole norme incriminatrici presenti nel titolo in esame, introducendo erroneamente un secondo rinvio per effetto dell’art. 357, che ha carattere esclusivamente definitorio; c) vizio motivazionale sulla sussistenza dell’elemento psicologico del reato stante il fatto che: 1) secondo la stessa ricostruzione dei fatti accolta nella sentenza impugnata, l’imputata eseguiva un accertamento telefonico parlando con la moglie del C. e apprendendo dalla stessa che il marito non aveva la disponibilità economica necessaria per onorare i titoli; 2) la prova del dolo era ritenuta in violazione del principio del ragionevole dubbio; d) violazione di legge sulla qualificazione giuridica del fatto che, difettando nell’imputata la posizione di pubblico ufficiale per quanto detto in precedenza, doveva essere ricondotta all’ipotesi di cui all’art. 483 cod. pen., per la quale il termine di prescrizione era decorso precedentemente alla sentenza impugnata; d) intervenuta prescrizione del diritto risarcitorio della parte civile visto che: I) il rinvio a tali fini dell’art. 2947, comma 3, cod. civ. alla prescrizione prevista per il reato doveva intendersi riferito ai soli termini previsti dall’art. 157 cod. pen. e non anche al prolungamento di detti termini per effetto degli atti interruttivi stabilità dall’art. 160 cod. pen., essendo pertanto il termine prescrizionale pari nella specie a sei anni, sia che il fatto fosse riqualificato ai sensi dell’art. 483 cod. pen. per quanto detto al punto precedente, sia che lo stesso fosse mantenuto nell’originaria imputazione non aggravata dalla natura dell’atto; II) il termine di cui sopra era decorso al momento in cui la costituzione di parte civile era presentata all’udienza preliminare il 17 settembre 2012; e) vizio motivazionale sulla ritenuta sussistenza del danno risarcibile dato che: 1) l’esistenza quanto meno di un danno morale non era provata e neppure allegata dalla parte civile essendo la motivazione della sentenza impugnata apparente nel riferimento alla ravvisabilità in re ipsa di un danno siffatto; 2) altrettanto apparente era la motivazione per cui un danno all’immagine e un principio di danno patrimoniale potevano essere individuati nella documentazione prodotta dalla parte civile con riguardo al rifiuto di linee di credito e di forniture commerciali derivanti dall’inserimento del C. nell’elenco dei soggetti protestati, a fronte della deduzione difensiva di insufficienza di detta documentazione.

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La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione

Con ordinanza del 4 dicembre 2018 la Quinta Sezione penale della Corte di Cassazione, investita della decisione sul ricorso, rilevava l’esistenza di due opposti indirizzi giurisprudenziali sulla questione, che si considerava posta con il primo motivo di impugnazione, relativa alla legittimità di una contestazione in fatto della circostanza aggravante della natura fidefacente dell’atto oggetto della condotta di falso, prevista dall’art. 476, comma 2, cod. pen..

Si osservava in particolare che, per il primo di tali indirizzi, l’aggravante non può essere ritenuta ove la stessa non sia esplicitamente contestata, quanto meno mediante sinonimi o formule equivalenti; e che invece, per il secondo orientamento, l’aggravante deve ritenersi validamente contestata ove la natura fidefacente dell’atto, pur se non espressamente indicata, emerga inequivocabilmente dalla tipologia dell’atto stesso.

Questa sezione, pertanto, rimetteva il ricorso alle Sezioni Unite per la soluzione del contrasto.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Le Sezioni Unite, prima di entrare nel merito del tema devoluto al loro vaglio giudiziale, delimitavano il quesito proposto nei seguenti termini: “Se possa essere ritenuta in sentenza dal giudice la fattispecie aggravata del reato di falso in atto pubblico, ai sensi dell’art. 476, comma 2, cod. pen., qualora la natura fide facente dell’atto considerato falso non sia stata esplicitamente contestata ed esposta nel capo di imputazione“.

Premesso ciò, si faceva presente come l’oggetto della questione, così come appena prospettata, potesse essere indicato in forma essenziale nella ammissibilità o meno di una contestazione in fatto della circostanza aggravante prevista dall’art. 476, comma 2, cod. pen. ove per «contestazione in fatto» veniva intesa dal Supremo Consesso – in conformità ai principi costantemente affermati dalla giurisprudenza di legittimità con particolare riguardo alle circostanze aggravanti – una formulazione dell’imputazione che non sia espressa nell’enunciazione letterale della fattispecie circostanziale o nell’indicazione della specifica norma di legge che la prevede, ma riporti in maniera sufficientemente chiara e precisa gli elementi di fatto che integrano la fattispecie, consentendo all’imputato di averne piena cognizione e di espletare adeguatamente la propria difesa sugli stessi (Sez. 1, n. 51260 del 08/02/2017, omissis, Rv. 271261; Sez. 6, n. 4461 del 15/12/2016, dep. 2017, omissis, Rv. 269615; Sez. 2, n. 14651 del 10/01/2013, omissis, Rv. 255793; Sez. 6, n. 40283 del 28/09/2012, omissis, Rv. 253776; Sez. 5, n. 38588 del 16/09/2008, omissis, Rv. 242027).

Posto ciò, veniva specificato altresì come si trattasse di una questione sottesa ai due primi motivi del ricorso, anche se per il vero non esplicitamente dedotta negli stessi, incentrati sull’eccezione di nullità della sentenza di primo grado per violazione del principio di correlazione fra l’imputazione e la condanna visto che le censure proposte sul punto investivano, in primo luogo, la stessa configurabilità di una contestazione dell’aggravante in esame, sia pure in fatto, nell’imputazione formulata a carico della S. che la ricorrente escludeva, sia per la riferibilità della condotta descritta in detta imputazione ad atti non specificati o comunque diversi dal protesto delle cambiali, sia, in ogni caso, per l’impossibilità di ricondurre tale condotta ad un falso commesso in atti fidefacenti pur rilevandosi al contempo come su questa tematica, tuttavia, il ricorso non si fosse confrontato con le argomentazioni complessivamente svolte nelle due sentenze di merito in ordine alla descrizione della condotta contestata ed alle relative implicazioni giuridiche.

Si metteva in risalto a tal riguardo il fatto che, nella sentenza impugnata, in particolare, richiamato il tenore letterale dell’imputazione ove la stessa addebitava all’imputata di avere «in qualità di presentatore dei titoli cambiari […] ricevendo un atto nell’esercizio delle sue funzioni di pubblico ufficiale, attestato falsamente di essersi recata nel luogo e nel domicilio indicati nei suddetti effetti nonché di aver proceduto alle ricerche del debitore», si osservava che alla S. era stata puntualmente contestata una condotta di falso realizzata nello svolgimento dell’attività di presentatore degli effetti cambiari, segnatamente nei compiti relativi alle ricerche da effettuarsi presso il domicilio del debitore, e si richiamavano i principi giurisprudenziali sull’attribuzione di fede privilegiata agli atti formati nell’espletamento di tali funzioni e, per quest’ultimo aspetto, la decisione della Corte territoriale, ad avviso della Corte, doveva ritenersi integrata dalle considerazioni della sentenza di primo grado sulla qualificazione giuridica delle attestazioni del presentatore degli effetti cambiari in ordine alle ricerche eseguite presso il domicilio del debitore ed alle dichiarazioni dallo stesso rese in quella sede atteso che il Tribunale ricostruiva la posizione del presentatore, in conformità a quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità, quale concorrente con quella del notaio nella formazione dell’atto di protesto, nelle attività rispettivamente attribuite dalla legge al presentatore quanto alla richiesta di pagamento ed all’acquisizione delle dichiarazioni del debitore, ed al notaio quanto all’accertamento del mancato pagamento e all’elevazione del protesto derivandone, con riguardo alla figura del presentatore, che le attestazioni dello stesso acquisiscono autonoma rilevanza nell’ambito dell’atto di protesto (Sez. 5, n. 8303 del 17/06/1986, omissis, Rv. 173590).

Si denotava oltre tutto come questa conclusione fosse del resto conforme al chiaro contenuto della normativa speciale sulla funzione del presentatore degli effetti cambiari atteso che l’art. 4, secondo comma, legge 12 giugno 1973, n. 349 (Modificazioni alle norme sui protesti della cambiali e degli assegni bancari), prevede infatti testualmente che l’atto di protesto «fa piena prova, ai sensi dell’articolo 2700 del codice civile, anche delle dichiarazioni del debitore e degli altri fatti che il presentatore riferisce avvenuti in sua presenza o da lui compiuti» affermandosi ciò dopo aver coerentemente premesso che l’atto deve essere sottoscritto anche dal presentatore e, pertanto, la dichiarazione di quest’ultimo ha una sua propria funzione attestativa, evidenziata dall’autonoma sottoscrizione del dichiarante, e tuttavia costituisce parte integrante dell’atto di protesto al quale la norma attribuisce direttamente la piena funzione probatoria di quanto riportato dal presentatore.

Tal che si giungeva alla considerazione alla stregua della quale detta dichiarazione partecipa della natura fidefacente che dell’atto di protesto è indiscutibilmente propria secondo quanto affermato dalla Corte Suprema (per tutte v. Sez. 5, n. 5274 del 20/02/1996, omissis, Rv. 205064), con la conseguente ravvisabilità del reato di falso ideologico in atto pubblico di fede privilegiata là dove, come nel caso di specie, il presentatore attesti, contrariamente al vero, di aver svolto le proprie ricerche presso il domicilio del debitore e pertanto, alla luce di ciò, se ne faceva discendere l’infondantezza dell’affermazione della ricorrente per la quale alla S. non sarebbe stata contestata in fatto l’ipotesi aggravata di cui all’art. 476, comma 2, cod. pen. attraverso l’indicazione nell’imputazione di una condotta di falso commessa in un atto fidefacente e, in particolare, nell’atto di protesto, emergendo viceversa tale indicazione dal riferimento alla realizzazione del falso in un’attività, quella del presentatore degli effetti cambiari, che dell’atto di protesto è per quanto detto una componente essenziale fermo restando come gli ermellini ritenevano oltre a ciò opportuno sottolineare che a tali conclusioni, con riguardo alla sussistenza di una contestazione in fatto dell’aggravante ed alla stessa configurabilità della circostanza, si giungeva all’esito di un’articolata ricostruzione giuridica della figura e delle funzioni del presentatore dei titoli cambiari, attraverso l’esame della normativa speciale in materia.

Chiarito ciò, si evidenziava come il tema della legittimità della contestazione in fatto dell’aggravante in discussione fosse invece implicitamente dedotto, fra i motivi di ricorso sull’eccepita nullità della sentenza di primo grado, nell’ultima censura svolta sul punto con riguardo alla lamentata violazione del contraddittorio nella riqualificazione del fatto ai sensi dell’art. 476, comma 2, cod. pen., disposta con detta sentenza.

A tal proposito si faceva presente in via preliminare come fosse opportuno premettere che i termini indiretti, con i quali la questione era stata posta nel testuale riferimento alla modifica dell’imputazione, fossero conseguenza dell’improprietà del riferimento della decisione del Tribunale ad una riqualificazione del giuridica del fatto.

Nella sentenza di primo grado, premesso che l’imputazione originariamente contestata individuava espressamente, quale norma di legge violata, l’art. 476, comma 1, cod. pen., e rilevata di contro la chiara riconducibilità della condotta descritta nel corpo dell’imputazione ad un falso realizzato in un atto pubblico di fede privilegiata, per quanto detto in precedenza, si concludeva che la menzione del comma 1 della norma incriminatrice era il risultato di un errore, dovendosi ritenere che il fatto concretamente addebitato integrasse invece l’ipotesi aggravata di cui al comma 2.

Orbene, secondo la Corte, la soluzione processuale, adottata dal Tribunale per porre rimedio a tale errore, era in effetti indicata, sia nel dispositivo che nella motivazione della sentenza, come riqualificazione del fatto nella fattispecie aggravata rilevandosi però al contempo come, tuttavia, la decisione era nel diverso senso del riconoscimento della avvenuta contestazione in fatto di detta fattispecie posto che il fatto testualmente addebitato era stato ritenuto già in sé descrittivo di un falso commesso in atto pubblico fidefacente considerandosi l’imputazione carente solo nell’indicazione delle norme violate, in quanto limitata alla menzione del comma 1 dell’art. 476 cod. pen., con il quale è incriminata l’ipotesi semplice del falso in atto pubblico, e non estesa anche a quella del comma 2, in cui è specificamente prevista l’aggravante in esame.

Da ciò se ne faceva derivare come l’affermazione di responsabilità non avesse ad oggetto un’ipotesi criminosa difforme da quella contestata, pur se tale da potervi ricondurre il fatto materialmente descritto nell’imputazione, ma era piuttosto riferita ad una fattispecie aggravata ritenuta in fatto già contestata, anche se non esattamente identificata nei richiami normativi in detta imputazione formalmente indicati e, dunque, il punto, sul quale conclusivamente finiscono per convergere i motivi di ricorso, dedotti sulla sussistenza dell’aggravante del falso in atto fidefacente, era quello dell’ammissibilità della contestazione in fatto di tale aggravante tanto rendendo rilevante, per la decisione del ricorso, la questione rimessa alle Sezioni Unite.

Premesso ciò, il Supremo Consesso dava atto come su tale questione vi fosse effettivamente il contrasto giurisprudenziale evidenziato nell’ordinanza di rimessione.

In particolare, secondo un primo orientamento, la contestazione meramente in fatto dell’aggravante in discussione non è consentita, occorrendo che l’addebito dell’ipotesi aggravata risulti nell’imputazione dall’indicazione specifica della violazione dell’art. 476, comma 2, cod. pen. o, in mancanza di essa, quanto meno dall’uso di sinonimi o di formule linguistiche equivalenti al contenuto della previsione normativa (Sez. 3, n. 6809 del 08/10/2014, dep. 2015, omissis, Rv. 262550; Sez. 5, n. 12213 del 13/02/2014, omissis, Rv. 260209), ovvero chiaramente evocative dell’efficacia fidefacente dell’atto ritenuto falso (Sez. 5, n. 30435 del 18/04/2018, omissis, Rv. 273807) e, alla base di tali pronunce e di altre di segno analogo (Sez. 5, n. 24643 del 13/04/2018, omissis, Rv. 273339; Sez. 5, n. 8359 del 05/02/2016, omissis) vi era la considerazione del diritto dell’imputato, affermato anche in sede comunitaria (Corte EDU, 11/12/2007, Drassich c. Italia), di essere tempestivamente e dettagliatamente informato non solo dei fatti materiali posti a suo carico, ma anche della qualificazione giuridica ad essi attribuiti; da cui deriva la necessità, perché l’esercizio dei diritti di difesa possa dirsi pienamente garantito, che la natura fidefacente dell’atto, oggetto del falso, sia adeguatamente e correttamente esplicitata nell’imputazione;  l’opposto indirizzo, nel senso dell’ammissibilità della contestazione in fatto dell’aggravante, muove invece dai principi già rammentati in tema di legittimità, in generale, della contestazione in tale forma delle circostanze aggravanti (Sez. 5, n. 38588 del 16/09/2008, omissis, Rv. 242027) sviluppandosi nella ritenuta sufficienza, ai fini del corretto esercizio espletamento dei diritti di difesa dell’imputato, della cognizione di quest’ultimo in ordine agli elementi fattuali della circostanza, consentita dalla indicazione dell’atto in relazione al quale la condotta di falso è contestata (Sez. 5, n. 2712 del 14/09/2016, dep. 2017, omissis, Rv. 268864; Sez. 1, n. 24870 del 12/03/2015, omissis) deducendosi contemporaneamente che, a sostegno di questa conclusione, era stato fatto particolare richiamo, in tema di legittimità della diversa qualificazione giuridica del fatto, in talune pronunce ai principi generali sulla rilevanza della prevedibilità di detta riqualificazione ai fini della compatibilità della stessa con le garanzie difensive (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, omissis, Rv. 264438), sottolineando come la natura fidefacente dell’atto, ove emerga dalla descrizione di quest’ultimo riportata nell’imputazione, renda per l’appunto prevedibile per la difesa che l’inespressa riconducibilità del fatto all’ipotesi aggravata sia ritenuta dal giudice (Sez. 5, n. 55804 del 20/09/2017, omissis, Rv. 271838) così come, in altre, ci si riferiva alla decisività del dato dell’assistenza tecnica garantita all’imputato nel nostro ordinamento, riconosciuta anche nella giurisprudenza comunitaria (Corte Edu, 14/04/2015, Contrada c. Italia) in considerazione delle ampie possibilità che ciò consente nella previsione di questo esito processuale alla luce delle caratteristiche dell’atto indicato nella contestazione (Sez. 5, n. 23609 del 04/04/2018, omissis, Rv. 273473; Sez. 5, n. 33843 del 04/04/2018, omissis, Rv. 273624) fermo restando che, comune alla decisioni citate, è la precisazione che la natura fidefacente dell’atto deve risultare inequivocabilmente come propria della tipologia dell’atto indicato nell’imputazione (condizione ribadita da Sez. 5, n. 38931 del 02/04/2015, omissis, Rv. 265501).

Chiarito in cosa consistono questi due diversi indirizzi ermeneutici, le Sezioni Unite stimavano condivisibile il primo degli orientamenti summenzionati alla luce delle seguenti considerazioni.

Si reputava a tal riguarda coerente, nell’ambito dell’orientamento indicato, il richiamo ai principi giurisprudenziali già affermati sulla legittimità di una contestazione in fatto per la generalità delle circostanze aggravanti fermo restando che tali principi non sono tuttavia applicabili in modo indifferenziato con riguardo a tutte le fattispecie circostanziali, prescindendo dalle particolari connotazioni con le quali le stesse sono costruite nelle norme che le prevedono. Ed a questo proposito, posto che la questione attiene per quanto detto alla materia processuale della contestazione dell’accusa, la Corte valutava opportuno prendere le mosse dai dati normativi che regolano tale materia.

Posto ciò, si faceva a tal proposito presente che l’art. 417, lett. b), cod. proc. pen., difatti, include, fra gli elementi contenuti nella richiesta di rinvio a giudizio, «l’enunciazione in forma chiara e precisa» non solo del fatto, ma anche delle circostanze aggravanti; previsione ribadita negli stessi termini dall’art. 429, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. per il decreto dispositivo del giudizio — a sua volta richiamato dall’art. 450, comma 3, cod. proc. pen. per la citazione a giudizio direttissimo dell’imputato libero e dall’art. 456, comma 1, cod. proc. pen. per il decreto dispositivo del giudizio immediato — e dall’art. 552, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. con riguardo al contenuto del decreto di citazione diretta a giudizio dinanzi al tribunale in composizione monocratica, a chiusura di un sistema processuale in cui tale enunciazione assume il rilievo di una componente essenziale e indefettibile della contestazione dell’accusa tanto essendo del resto conforme alla previsione dell’art. 6, comma 3, lett. a) CEDU per la quale «ogni accusato ha diritto soprattutto ad essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico», ove il riferimento alla informazione dettagliata sulla natura dell’accusa non può che comprendere le circostanze aggravanti nella loro incidenza sull’entità del fatto contestato e sulle conseguenze sanzionatorie che ne derivano.

Si sottolineava oltre tutto che, nel conformarsi a queste inderogabili prescrizioni normative, lo stesso indirizzo giurisprudenziale ammissivo della contestazione in fatto delle circostanze aggravanti consente tale forma di contestazione descrivendola, e quindi delimitandone la legittimità, nei termini in cui l’imputazione riporti in maniera sufficientemente chiara e precisa gli elementi di fatto che integrano la fattispecie circostanziale, permettendo all’imputato di averne piena cognizione e di espletare adeguatamente la propria difesa sugli stessi, e dunque la precisazione degli elementi fattuali costitutivi dell’aggravante può dirsi indiscutibilmente riconosciuta quale condizione perché la contestazione in questa forma possa essere ritenuta valida, pure in una prospettiva sostanzialistica fondata, come le stesse Sezioni Unite avevano avuto modo di affermare con riguardo alla correlazione fra l’accusa e la decisione, sulla concreta possibilità per l’imputato di difendersi sull’oggetto dell’addebito (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, omissis, Rv. 248051).

Da questa condizione se ne fa discendere la considerazione secondo la quale l’ammissibilità della contestazione in fatto delle circostanze aggravanti deve essere verificata rispetto alle caratteristiche delle singole fattispecie circostanziali e, in particolare, alla natura degli elementi costitutivi delle stesse posto che questo aspetto determina inevitabilmente il livello di precisione e determinatezza che rende l’indicazione di tali elementi, nell’imputazione contestata, sufficiente a garantire la puntuale comprensione del contenuto dell’accusa da parte dell’imputato.

Nella prospettiva appena delineata, è evidente, ad avviso della Corte, come la contestazione in fatto non dia luogo a particolari problematiche di ammissibilità per le circostanze aggravanti le cui fattispecie, secondo la previsione normativa, si esauriscono in comportamenti descritti nella loro materialità, ovvero riferiti a mezzi o oggetti determinati nelle loro caratteristiche oggettive posto che, in questi casi, l’indicazione di tali fatti materiali è idonea a riportare nell’imputazione la fattispecie aggravatrice in tutti i suoi elementi costitutivi, rendendo possibile l’adeguato esercizio dei diritti di difesa dell’imputato fermo restando che diversamente avviene con riguardo alle circostanze aggravanti nelle quali, in luogo dei fatti materiali o in aggiunta agli stessi, la previsione normativa include componenti valutative; risultandone di conseguenza che le modalità della condotta integrano l’ipotesi aggravata ove alle stesse siano attribuibili particolari connotazioni qualitative o quantitative ed, essendo tali, dette connotazioni sono state ritenute o meno ricorrenti nei singoli casi in base ad una valutazione compiuta in primo luogo dal pubblico ministero nella formulazione dell’imputazione, e di seguito sottoposta alla verifica del giudizio.

Veniva in particolar modo osservato che, ove il risultato di questa valutazione non sia stato esplicitato nell’imputazione, con la precisazione della ritenuta esistenza delle connotazioni di cui sopra, la contestazione risulterà priva di una compiuta indicazione degli elementi costitutivi della fattispecie circostanziale né può esigersi dall’imputato, pur se assistito da una difesa tecnica, l’individuazione dell’esito qualificativo che connota l’ipotesi aggravata in base ad un autonomo compimento del percorso valutativo dell’autorità giudiziaria sulla base dei dati di fatto contestati trattandosi per l’appunto di una valutazione potenzialmente destinata a condurre a conclusioni diverse.

La necessità dell’enunciazione in forma chiara e precisa del contenuto dell’imputazione, prevista dalla legge processuale, ad avviso della Corte, impone che la scelta operata dalla pubblica accusa, fra tali possibili conclusioni, sia portata a conoscenza della difesa non potendosi pertanto ravvisare una valida contestazione della circostanza aggravante nella mera prospettazione in fatto degli elementi materiali della relativa fattispecie.

Precisato ciò, gli ermellini, venendo all’esame della circostanza aggravante oggetto della questione rimessa alle Sezioni Unite, denotavano come la stessa sia prevista dall’art. 476, comma 2, cod. pen. nel caso in cui «la falsità concerne un atto, o parte di un atto, che faccia fede fino a querela di falso».

Ebbene, una volta dedotto che la struttura della fattispecie comprende un elemento materiale, costituito dal compimento della condotta su un atto che, nell’implicito riferimento alla disposizione incriminatrice del precedente comma 1, è oggettivamente determinato nelle sue caratteristiche pubblicistiche in quanto formato o comunque manipolato da un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni, si stimava evidente come detta fattispecie includesse anche un elemento valutativo, dato dalla possibilità di qualificare l’atto come facente fede fino a querela di falso o, nella sintesi terminologica comunemente adottata, fidefacente evidenziandosi al contempo come la peculiarità di questa ipotesi fosse data dal fatto che la componente valutativa concerne un profilo normativo, relativo all’efficacia fidefacente dell’atto atteso che tale efficacia è idescritta dall’art. 2700 cod. civ. nel fare l’atto «piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti», ed è attribuita dalla stessa norma all’atto pubblico indicato dal precedente art. 2699 cod. civ. come «il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l’atto è formato».

Di talchè se ne faceva discendere che la qualità di atto fidefacente sia affidata, come riconosciuto anche dalla giurisprudenza penalistica di legittimità, alla ravvisabilità di due elementi essenziali, rispettivamente relativi alla titolarità, in capo al pubblico ufficiale, del potere di conferire all’atto l’efficacia fidefacente, ed all’oggetto di tale efficacia atteso che, per il primo aspetto, l’atto deve provenire da un pubblico ufficiale autorizzato dalla legge, da regolamenti o dall’ordinamento interno della pubblica amministrazione ad attribuire all’atto pubblica fede; per il secondo, la fede privilegiata deve investire le attestazioni del documento su quanto fatto o rilevato dal pubblico ufficiale, o su quanto avvenuto in sua presenza (Sez. 3, n. 15764 del 13/12/2017, dep. 2018, omissis, Rv. 272589; Sez. 5, n. 39682 del 04/05/2016, omissis, Rv. 267790; Sez. 6, n. 25258 del 12/03/2015, omissis, Rv. 263806; Sez. 5, n. 48738 del 14/10/2014, omissis, Rv. 261298) trattandosi, all’evidenza, di profili che sono oggetto di una pluralità di giudizi valutativi con riguardo, in primo luogo, all’interpretazione ed all’applicazione di norme anche extrapenali, e di seguito, sulla base di tali riferimenti normativi, all’accertamento dell’efficacia probatoria di fede privilegiata dell’atto in quanto proveniente da un pubblico ufficiale facoltizzato ad attribuire all’atto stesso tale efficacia, e quindi alla sussistenza di tale facoltà in capo a quel pubblico ufficiale, nonché alla riconducibilità del contenuto dell’atto alla rappresentazione di operazioni compiute dal pubblico ufficiale o di fatti dallo stesso constatati.

Alla luce dell’argomentazione appena esposta, i giudici di piazza Cavour addivenivano a postulare che la qualificazione dell’atto come fidefacente, che costituisce il risultato di queste valutazioni, non può ritenersi debitamente contestata con la mera indicazione dell’atto stesso nell’imputazione atteso che, riducendosi alla descrizione dell’elemento materiale della fattispecie aggravatrice, tale indicazione non consente che sia portata ad effettiva conoscenza dell’imputato la componente valutativa costituita dall’attribuzione all’atto della qualità di documento fidefacente e, di conseguenza, ciò rileva con riguardo in generale alle circostanze aggravanti che comprendono connotazioni qualitative il cui riconoscimento è risultato di valutazioni rimesse all’autorità giudiziaria, escludendosi la validità di una contestazione nei termini sopra indicati, ossia, per come è definita, di una contestazione in fatto così come ciò si verifica, a maggior ragione, in presenza di una componente valutativa dell’aggravante per la quale, essendo particolarmente articolata, si accentuano le ragioni di inesigibilità della previsione del loro possibile esito da parte della difesa, o comunque di insufficienza di tale previsione perché la contestazione dell’accusa possa dirsi compiutamente realizzata.

Tale compiuta contestazione richiede, di contro, secondo il Supremo Consesso, che la valutazione accusatoria, nel senso della ritenuta natura fidefacente dell’atto oggetto della condotta di falso, sia esplicitata mediante almeno una delle modalità di seguito descritte, e ciò anche perché, con l’indicazione nell’imputazione della norma di cui al comma 2 dell’art. 476 cod. pen., che, essendo detta norma specificamente ed esclusivamente riferita alla previsione della circostanza aggravante, identifica inequivocabilmente quest’ultima come inclusa nella contestazione: o con l’espressa qualificazione dell’atto come fidefacente ovvero con l’adozione di formulazioni testuali che descrivano in termini equivalenti la natura fidefacente dell’atto, nel riferimento alla fede privilegiata dello stesso o alla necessità della querela di falso perché la sua funzione probatoria sia esclusa.

I giudici di legittimità ordinaria, pertanto, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, giungevano a formulare il seguente principio di diritto: “Non può essere ritenuta in sentenza dal giudice la fattispecie aggravata del reato di falso in atto pubblico, ai sensi dell’art. 476, comma 2, cod. pen., qualora la natura fide facente dell’atto considerato falso non sia stata esplicitamente contestata ed esposta nel capo di imputazione con la precisazione di tale natura o con formule alla stessa equivalenti, ovvero con l’indicazione della norma di legge di cui sopra”.

Conclusioni

La sentenza in questione riveste un considerevole interesse in quanto chiarisce quando non può essere ritenuta in sentenza dal giudice la fattispecie aggravata del reato di falso in atto pubblico ai sensi dell’art. 476, comma 2, cod. pen..

La risposta che è stata data a questo quesito, ossia che non può ritenersi sussistente in sentenza questa fattispecie qualora la natura fide facente dell’atto considerato falso non sia stata esplicitamente contestata ed esposta nel capo di imputazione con la precisazione di tale natura o con formule alla stessa equivalenti, ovvero con l’indicazione dell’art. 476, c. 2, c.p., dunque, non può non essere presa nella dovuta considerazione ogniqualvolta si verifichi una situazione di questo genere.

La decisione in commento, dunque, si ribadisce, è di notevole importanza in quanto conferisce la dovuta certezza del diritto a casi di questo genere.

 

 

 

 

Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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