Corte di Cassazione Civile Sezione lavoro 17/7/2009 n. 16776; Pres. Sciarelli G.

Redazione 17/07/09
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FATTO

Con ricorso al Tribunale, giudice del lavoro, di Melfi, in data 4.10.2003, D.C., dipendente della I. Italia s.p.a. quale addetto alle pulizie, impugnava il licenziamento intimatogli nel (omissis), nell’ambito della procedura ai sensi della L. n. 223 del 1991 (licenziamento collettivo per riduzione di personale), chiedendo dichiararsene "l’inefficacia e la nullità" per violazione della procedura e dei criteri di scelta previsti dalla legge, con la reintegra nel posto di lavoro ed il risarcimento del danno a norma della L. n. 300 del 1970, art. 18.

Con sentenza in data 27.2.2007 il Tribunale adito rigettava la domanda.

Avverso tale sentenza proponeva appello il D. lamentandone la erroneità sotto diversi profili e chiedendo l’accoglimento delle domande proposte con il ricorso introduttivo.

La Corte di Appello di Potenza, con sentenza in data 26.4.2007, accoglieva il gravame e per l’effetto dichiarava l’inefficacia del licenziamento intimato al dipendente dalla società appellata ordinando la immediata reintegra dello stesso nel posto di lavoro.

Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione la I. s.p.a. con tre motivi di impugnazione.

Resiste con controricorso il D., che propone a sua volta ricorso incidentale subordinato affidato ad un motivo di gravame.

La ricorrente ha presentato memoria ex art. 378 c.p.c..

DIRITTO

Preliminarmente va disposta la riunione ai sensi dell’art. 335 c.p.c., dei due ricorsi perchè proposti avverso la medesima sentenza.

Col primo motivo di gravame la società ricorrente lamenta violazione dell’art. 112 c.p.c., con collegato difetto di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5.

In particolare rileva la ricorrente che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto l’inefficacia del licenziamento intimato al D. assumendo che la società predetta aveva violato la L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, per non avere adempiuto all’obbligo di informazione previsto da tale norma sotto forma di esplicitazione, in maniera precisa, delle ragioni ostative all’adozione di misure alternative al licenziamento; in tal modo la Corte di merito aveva violato il principio di correlazione tra il chiesto ed il pronunciato atteso che il lavoratore, nell’appello proposto, aveva in realtà lamentato la violazione della procedura di mobilità sotto un diverso profilo, e cioè per non avere la società datoriale specificato i motivi che la avevano indotta ad avviare la procedura di mobilità.

Pertanto il lavoratore aveva posto a fondamento del proprio gravame specifiche ragioni dirette a comprovare la mancanza di una effettiva causale di detto licenziamento, di talchè la conseguente statuizione del giudice doveva riscontrare esclusivamente le singole e specifiche censure proposte, restando escluso ogni sindacato giurisdizionale in relazione ad ulteriori profili della procedura non specificamente contestati, stante la inammissibilità di un sindacato complessivo da parte del giudice di appello sulla bontà di tale procedura.

Col secondo motivo di gravame la società ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, con collegato difetto di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

In particolare rileva la ricorrente che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto che, nella comunicazione di apertura della procedura in data 8.10.2002, non vi fosse una enunciazione delle ragioni ostative a misure diverse da programma di esubero, bensì una mera dichiarazione di disponibilità "a valutare con le OO.SS. ulteriori soluzioni alternative ai licenziamenti"; ed invero, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di merito, la comunicazione suddetta faceva espressamente riferimento alla urgenza di procedere ad un ridimensionamento dell’Azienda, anche al fine di salvaguardare l’occupazione, essendo il personale chiaramente in esubero rispetto alle nuove esigenze produttive.

E rileva altresì come nel procedimento della L. n. 300 del 1970, ex art. 28, incoato dal sindacato Uiltucs/Uil sotto il profilo della antisindacalità del comportamento della società in relazione alla violazione dell’art. 4, comma 3, legge predetta, il giudice di Menfi, nel rigettare con decreto il suddetto ricorso, aveva escluso la carenza di informazioni da parte della società, rilevando che, per come testualmente riscontrato nel verbale della riunione del 13.12.2002 tenutasi presso l’Ufficio del Lavoro della Regione Basilicata, era stato accertato che il mancato accordo tra le parti dipendeva dalla riscontrata assenza delle condizioni per raggiungere un’intesa, e quindi era addebitabile ad una diversa valutazione dei dati. Pertanto sul punto si era formato un vero e proprio giudicato esterno rispetto alla identica prospettazione di violazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, fornita dal D. al diverso fine di veder accertata l’illegittimità del licenziamento intimatogli.

Col terzo motivo di gravame la società ricorrente lamenta difetto di motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, riguardo la presunta violazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9.

In particolare rileva la ricorrente che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto l’assenza di contestualità della duplice comunicazione prevista nei confronti dei dipendenti licenziati e nei confronti dei competenti Uffici del lavoro ed associazioni di categoria, atteso che fra le predette comunicazioni esisteva uno scarto di pochi giorni e non certo di quindici giorni siccome ritenuto nell’impugnata sentenza; e rileva altresì che il suddetto limite di quindici giorni era stato assunto dal decidente in maniera assolutamente apodittica ed immotivata. In ordine alla comunicazione integrativa del 20.3.2007, rileva che la stessa si appalesava assolutamente non necessaria stante la sufficienza della precedente comunicazione inoltrata il 7 marzo.

Con il ricorso incidentale il D. chiede, in via subordinata, in caso di accoglimento del ricorso principale proposto da controparte, l’accoglimento degli altri motivi di appello proposti alla Corte territoriale e dalla stessa non esaminati in quanto ritenuti assorbiti nei motivi accolti.

Osserva il Collegio che con il ricorso principale la società datoriale ha lamentato violazione di legge in relazione alla applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3 (1^ e 2^ motivo), e violazione di legge in relazione alla applicazione dell’art. 4, comma 9, della stessa legge (3^ motivo).

Il ricorso non è fondato.

Prendendo le mosse da quest’ultimo rilievo, osserva innanzi tutto il Collegio che la pronuncia di questa Corte n. 4970 dell’8.3.2006, citata dalla società ricorrente a sostegno del proprio assunto circa la non necessaria contestualità delle comunicazioni previste, non si discosta dalle precedenti decisioni laddove questa Corte aveva rilevato che "in tema di licenziamenti collettivi, la lettera della disposizione di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, e la sua "ratio" – che è quella di rendere visibile e, quindi controllabile dalle organizzazioni sindacali (e tramite queste dai singoli lavoratori) la correttezza del datore di lavoro in relazione alle modalità di applicazione dei criteri di scelta – portano a ritenere che la comunicazione dei recesso al singolo lavoratore e quella all’Ufficio regionale del lavoro e della massima occupazione competente (e alla Commissione regionale dell’impiego e alle Associazioni di categoria) hanno, rispettivamente, contenuto e finalità differenti. La prima comunicazione, infatti, per la sua validità deve essere soltanto redatta in forma scritta e contenere unicamente la notizia del recesso, senza che risulti necessaria alcuna motivazione; la "contestuale" comunicazione all’Ufficio regionale del lavoro, invece, deve includere "l’elenco dei lavoratori collocati in mobilità, con l’indicazione per ciascun soggetto del nominativo, del luogo di residenza, della qualifica, del livello di inquadramento, dell’età, del carico di famiglia", nonchè "la puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta di cui all’art. 5, comma 1" della stessa legge" (Cass. sez. lav., 19.3.2004 n. 5578; Cass. sez. lav., 10.6.1999, n. 5718).

Posto ciò osserva il Collegio che nella citata sentenza n. 4970 dell’8.3.2006 questa Corte ha posto in rilievo che "la norma, non specificando la misura cronologica della contestualità fra le comunicazioni, non esige che le comunicazioni avvengano nello stesso giorno. E’ sufficiente che, anche sul piano cronologico, fra le due comunicazioni si conservi il rapporto che sussiste "fra le parti costituenti un complesso organico" (ciò determinerebbe, indirettamente, anche la tutela del – pur non espresso – interesse del lavoratore a conoscere in tempo adeguato i dati non comunicatigli)"; ed è pervenuta alla cassazione dell’impugnata sentenza sotto il profilo che la distanza temporale di un giorno fra le comunicazioni predette non consentiva di ritenere l’assenza della prevista "contestualità".

Tali pronunce, al pari di numerose altre (fra cui Cass. sez. lav., 24.3.2004 n. 5942; Cass. sez. lav., 28.7.2005 n. 15898), si ricollegano a quell’orientamento ripetutamele rappresentato dalla giurisprudenza della Suprema Corte e che vede nella sentenza n. 13457/00 il suo punto di riferimento, ove ha affermato che "la contestualità anche se non intesa come contemporaneità, va considerata come obbligo di immediatezza, di talchè una comunicazione tardiva alle organizzazioni sindacali ed agli uffici del lavoro, in quanto al di fuori dei tempi previsti per la procedura culminante col licenziamento collettivo, è preclusa" (Cass. sez. lav., 9.10.2000 n. 13457).

Ma sul punto occorre evidenziare che con sentenza n. 1722 del 23.1.2009 questa Sezione ha ritenuto di dover escludere qualsiasi interpretazione elastica del requisito della contestualità, atteso che siffatta interpretazione finirebbe col contraddire la funzione di garanzia da attribuire alle comunicazioni predette, e si porrebbe in posizione non coerente con il complessivo disegno legislativo; ed argomentando da tali rilievi ha affermato il principio di diritto, così massimato, secondo cui "in tema di licenziamenti collettivi, la lettera della disposizione di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, e la sua "ratio" – che in funzione di garanzia dei licenziati, è quella di rendere visibile e quindi controllabili dalle organizzazioni sindacali (e tramite queste dai singoli lavoratori) la correttezza del datore di lavoro in relazione alle modalità di applicazione dei criteri di scelta – portano a ritenere che il requisito della contestualità della comunicazione del recesso ai competenti uffici del lavoro (e ai sindacati) rispetto a quella al lavoratore – comunicazioni entrambe richieste a pena di inefficacia del licenziamento – non può non essere valutato, in una procedura temporalmente cadenzata in modo rigido e analitico, e con termini ristretti, nel senso di una necessaria contemporaneità la cui mancanza vale ad escludere la sanzione della inefficacia dei licenziamento solo se dovuta a giustificati motivi di natura oggettiva da comprovare da parte del datore di lavoro".

Chiarito ciò in punto di diritto, osserva il Collegio che senz’altro corretta appare la determinazione della Corte territoriale circa l’insussistenza nel caso di specie del requisito della "contestualità" fra le diverse comunicazioni, dovendosi sul punto altresì evidenziare che la valutazione operata dalla Corte territoriale in ordine al carattere integrativo e quindi necessario della ulteriore comunicazione agli uffici del lavoro ed alle associazioni di categoria del 20.3.2003, in quanto diretta a colmare il silenzio della precedente comunicazione del 7.3.2003 ai medesimi destinatari circa le modalità applicative dei criteri di scelta dei lavoratori licenziati, nonchè la valutazione in ordine alla inconciliabilità della prevista "contestualità" con il lasso di tempo intercorso fra la suddetta comunicazione del 20.3.2003 e la comunicazione di licenziamento inoltrata al D. con nota dell’1.3.2003, involge in realtà specifiche questioni di fatto, il cui accertamento è demandato al giudice di merito e non è sindacabile in sede di legittimità se sorretto, come nel caso di specie (laddove la Corte territoriale ha dato specifica contezza dei motivi che rendevano necessaria la comunicazione del 20.3.2003 stante il silenzio della precedente comunicazione sulle indicazioni previste dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, nonchè in ordine alla violazione dell’obbligo di immediatezza essendo stata tale comunicazione effettuata in epoca marcatamente successiva) da motivazione esauriente ed immune da vizi logici.

Il suddetto motivo di ricorso non è pertanto fondato, e tale rilievo assume carattere decisivo ed assorbente ai fini della inefficacia del licenziamento intimato.

Per completezza di esposizione osserva il Collegio che anche i primi due motivi di ricorso sono infondati.

Ed invero, in relazione al primo motivo, se pur corretto si appalesa il rilievo che l’appellante ha l’onere, ai sensi dell’art. 342 c.p.c., di indicare specificamente i motivi di gravame al fine di delimitare l’ambito della cognizione del giudice dell’impugnazione e di consentire un esame puntuale delle censure mosse alla sentenza impugnata, atteso che nel sistema processualcivilistico vigente l’appello non costituisce un giudizio nuovo ma una revisio prioris istantiae, la censura deve ritenersi tuttavia nel caso di specie infondata atteso che, contrariamente a quanto rilevato dal ricorrente, il D. nell’atto di appello aveva espressamente dedotto e censurato il comportamento datoriale non solo con riferimento al mancato assolvimento nella lettera di apertura della procedura di mobilità dell’8.10.2002 dell’obbligo di indicare i motivi specifici che avevano indotto la società ad avviare la procedura suddetta, ma anche con riferimento alla mancata esplicitazione della ragioni ostative alla adozione di misure alternative al licenziamento.

Ed invero nel ricorso in appello il D. ha espressamente richiamato quella giurisprudenza di merito e di legittimità che aveva evidenziato come le informazioni dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, dovevano essere tali da consentire all’interlocutore sindacale di esercitare un effettivo controllo sulla programmata riduzione del personale, anche al fine di valutare eventuali misure alternative al programma di esubero; di talchè appare evidente che l’appellante aveva censurato la condotta datoriale anche sotto questo specifico profilo, siccome ritenuto dalla Corte territoriale che consequenzialmente aveva dichiarato l’inefficacia del licenziamento intimato al D. sotto il profilo della mancata esplicitazione, in maniera precisa, delle ragioni ostative alla adozione delle predette misure alternative. Sul punto questa Corte ha avuto modo di evidenziare lo stretto collegamento esistente fra i motivi che hanno determinato l’avvio della procedura di mobilità (e quindi fra la situazione di esubero strutturale) e le ragioni che impediscono il ricorso a soluzioni alternative ai licenziamenti, atteso che tali ragioni sono particolarmente idonee a rappresentare qual è, secondo l’imprenditore, l’assetto che necessariamente deve assumere l’azienda a fronte di fattori che non consentono di mantenere immutata la forza lavoro: e pertanto la comunicazione preventiva di tali ragioni risulta particolarmente idonea a contribuire alla conoscenza che il sindacato deve avere per esercitare efficacemente il proprio ruolo (Cass. sez. lav., 9.9.2003 n. 13196).

Ritiene il Collegio di dover altresì evidenziare, siccome più volte ribadito da questa Corte, che nel rito del lavoro l’interpretazione dell’atto introduttivo del giudizio ovvero del ricorso in appello è riservata al giudice di merito, con la ulteriore precisazione che spetta al giudice di merito, al di là del petitum formale, la individuazione del contenuto sostanziale quale si evince dal contesto dell’atto e dalla correlazione delle varie proposizioni ed argomentazioni articolate.

Alla stregua di quanto sopra non può dubitarsi che la Corte territoriale abbia compiutamente e correttamente proceduto alla interpretazione del contenuto del ricorso in appello, individuando le specifiche censure mosse dall’appellante alla sentenza impugnata in relazione alla vicenda processuale in questione, di talchè sotto tale profilo la decisione impugnata si sottrae ai rilievi ed alle censure mosse con il proposto gravame.

Deve pertanto escludersi l’asserita violazione dell’art. 112 c.p.c., per mancata correlazione fra il chiesto ed il pronunciato.

Del pari infondato è il secondo motivo di gravame.

Ed invero l’assunto della società ricorrente secondo cui la I. s.p.a. aveva compiutamente specificato nella comunicazione dell’8.10.2002 i motivi che la avevano indotta ad avviare la procedura di mobilità, avendo evidenziato nella comunicazione suddetta "l’urgenza di procedere ad un ridimensionamento" dell’azienda "anche al fine di salvaguardare l’occupazione, essendo il personale chiaramente in esubero rispetto alle nuove esigenze produttive", si appalesa non condivisibile.

Osserva in proposito il Collegio che le informazioni prescritte dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, devono essere tali da consentire all’interlocutore sindacale di esercitare un effettivo controllo sulla programmata riduzione di personale, e tali requisiti di specificità e di concretezza non possono di certo ravvisarsi nel contenuto della comunicazione suddetta che, in maniera chiaramente tautologica, ha in buona sostanza individuato i motivi che avevano determinato la situazione di eccedenza nella urgenza di procedere ad un ridimensionamento essendo il personale in esubero.

Nè alcun rilievo assume la circostanza, evidenziata dalla società ricorrente a riprova della effettività delle trattative con le organizzazioni sindacali e della bontà della comunicazione in questione, che nel verbale della riunione del 13.12.2002 le parti, dopo ampia discussione, avevano preso atto della inesistenza delle condizioni necessarie per raggiungere una intesa.

Ha avuto modo invero questa Corte di rilevare a più riprese che, non essendo richiesto, per la legittimità del licenziamento collettivo, la giusta causa od il giustificato motivo, l’effettiva garanzia per il lavoratore licenziato è proprio di tipo procedimentale, nel senso che il datore di lavoro è tenuto a comunicare i motivi che determinano la situazione di eccedenza, le ragioni per le quali ritiene di non potere adottare misure diverse atte a porre rimedio alla predetta situazione, il numero, la collocazione aziendale ed i profili personali del personale eccedente. Pertanto, se il datore di lavoro omette di effettuare tale comunicazione ovvero pone in essere una comunicazione superficiale o incompleta che non consente al sindacato di effettuare alcun consapevole controllo sulle ragioni della programmata riduzione del personale, il licenziamento è inefficace, siccome correttamente ritenuto dalla Corte Territoriale.

In ordine alla ulteriore censura, di cui al predetto motivo di gravame, concernente l’esistenza di giudicato esterno a seguito della statuizione sul punto adottata dal giudice di Melfi in sede di procedimento per la repressione della condotta sindacale L. n. 300 del 1970, ex art. 28, osserva il Collegio che correttamente la Corte territoriale ha omesso di tenerne conto.

In proposito occorre innanzi tutto evidenziare che la normativa in tema di comunicazioni di apertura della procedura di mobilità posta dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, è finalizzata ad assolvere ad una duplice funzione, essendo diretta, per un verso, a porre le organizzazioni sindacali in grado di verificare l’esistenza delle condizioni che legittimano la procedura di mobilità e, per un altro verso, ad assicurare la tutela degli interessi dei singoli lavoratori in relazione alla dedotta situazione di eccedenza che legittima la dichiarazione di mobilità.

Posto pertanto che, avuto riguardo alla duplice funzione sopra delineata, vi è un doppio piano di tutela – quello delle prerogative sindacali e quello delle garanzie individuali -, si deve rilevare che la violazione dell’obbligo della comunicazione (e, del pari, l’esistenza di vizi inerenti al contenuto di tale obbligo), da un lato, integra una vera e propria ipotesi di condotta antisindacale, che può formare oggetto dell’azione prevista dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 28 e, dall’altro, investendo un elemento essenziale (e non meramente formale o marginale) della complessa fattispecie, è causa diretta di illegittimità del provvedimento finale, che la legge dichiara espressamente inefficace (L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 12), perchè preclude la verifica del corretto esercizio del potere del datore di lavoro e impedisce il perseguimento dello scopo previsto dalla legge (la suddetta tutela della posizione dei singoli lavoratori coinvolti nella procedura).

Deve di conseguenza ritenersi che una violazione delle regole del procedimento incida direttamente sulla legittimità del provvedimento finale adottato nei confronti dei singoli lavoratori, essendo in gioco specifici diritti soggettivi individuali e non potendosi delegare al sindacato la verifica di una garanzia procedimentale posta a presidio di una situazione individuale di diritto soggettivo concernente ciascun singolo lavoratore.

L’azione esercitatile dai sindacati ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 28, è pertanto distinta ed autonoma rispetto alle azioni che possono esercitare i lavoratori a tutela dei propri diritti individuali eventualmente colpiti dagli stessi comportamenti antisindacali denunciati dal sindacato, essendo diversi sia la causa petendi sia, almeno ontologicamente, il petitum.

Da tale diversità ontologica delle due azioni deriva che il decreto di rigetto dell’azione proposta dal sindacato non può avere alcuna efficacia di giudicato esterno nella diversa azione proposta dal lavoratore, a tutela di un proprio diritto soggettivo. L’azione collettiva del sindacato e l’azione individuale del lavoratore, stante la diversità degli interessi tutelati, si pongono invero su un piano, sostanziale e processuale, di reciproca indifferenza, con la conseguenza che l’esperimento e l’esito di una di esse non può incidere sulle vicende e sulla sorte dell’altra.

Alla stregua di quanto sopra il ricorso proposto dalla I. s.p.a. non può trovare accoglimento.

Per quel che riguarda il ricorso incidentale subordinato proposto dal D., osserva il Collegio che lo stesso è inammissibile essendo stato avanzato dalla parte totalmente vittoriosa in appello.

Stante il rigetto del ricorso proposto dalla I. Italia s.p.a., vanno poste a carico della stessa le spese relative al presente giudizio di legittimità, che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale; dichiara inammissibile il ricorso incidentale; condanna il ricorrente principale alla rifusione delle spese del presente giudizio di cassazione, che liquida in Euro 24,00 oltre Euro 2.000,00 (duemila) per onorari, ed alle spese generali, IVA e CPA come per legge.

Redazione