Ammissibilità dei danni punitivi: le argomentazioni delle Sezioni Unite

Marco Stufano 19/09/17
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Abstract

Con la sentenza n. 16601 del 5 luglio 2017 la Corte di Cassazione, riunita nella sua massima composizione, ha espresso un principio di diritto dall’imponente impatto dogmatico.

In termini generali, la pronuncia è destinata a rimanere agli annali della giurisprudenza come un fondamentale tassello del mosaico che ritrae il vero volto della responsabilità civile.

Il tenore argomentativo della sentenza disvela agli occhi del lettore l’adozione di una decisione dalla portata ermeneutica innovativa.

In tal senso, infatti, il principio di diritto affermato dalla Suprema Corte si pone a conclusione di un percorso argomentativo altrettanto audace.

Del resto, un esito decisionale così originale non può che costituire la diretta conseguenza di premesse altrettanto innovative.

Ed invero, in tal senso si apprezza la svolta dogmatica sulla quale si fondano tali presupposti argomentativi. Le Sezioni Unite, al fine di poter ammettere in via astratta la categoria dei danni punitivi (conclusione), hanno dovuto aderire ad una moderna e sovversiva impostazione metodologica (premessa).

L’adesione alla teoria plurifunzionale della categoria della responsabilità civile ha consentito alla Corte di Cassazione di pervenire ad esiti interpretativi inediti.

In tale prospettiva, per addivenire a conclusioni opposte a quelle derivanti dalle consolidate e tradizionali premesse teoriche, il Supremo Consesso non avrebbe potuto percorrere altra strada se non quella di sovvertire tali rigorosi presupposti dogmatici.

Del resto, le considerazioni espresse impongono un adattamento al caso concreto. In tal senso esse vanno applicate in relazione riconoscimento degli effetti della sentenza emessa dall’autorità giurisdizionale estera. L’indagine ermeneutica va impostata in termini ipotetici:

  1. Premessa di fatto: la pronuncia straniera fa applicazione di un istituto rimediale civilistico (c.d. “punitive damages”) non previsto dal nostro ordinamento ed astrattamente ascrivibile alla categoria della responsabilità civile;
  2. Presupposto dogmatico: i “punitive damages” esplicano una funzione sanzionatoria, tradizionalmente estranea alla ratio meramente compensativa che informa la responsabilità civile;
  3. Conclusione: l’unica via interpretativa percorribile consta nella demolizione del presupposto dogmatico attraverso il superamento della concezione monofunzionale (compensativo-riparatoria) della responsabilità civile.

Il delineato programma argomentativo rinviene una precisa e disinvolta dimostrazione nelle affermazioni di principio adottate dalla Suprema Corte, delle quali è opportuno dar conto nel prosieguo della presente trattazione.

 

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Il fatto

Il dibattito giuridico del quale si è data una breve illustrazione, costituisce il terreno sul quale proliferano numerosi casi di vita quotidiana.

Durante una gara svoltasi negli Stati Uniti, un motociclista riportò delle lesioni di grave entità a causa di un difetto di fabbricazione del casco protettivo.

Il centauro, esperì, quindi un’azione giudiziaria diretta al risarcimento del danno da parte delle due società che avevano contribuito all’evento dannoso: l’azienda fornitrice (di nazionalità americana) e quella produttrice (di nazionalità italiana) dell’accessorio da gara.

Nelle more del procedimento l’azienda americana stipulò, sulla base di un giudizio sommario di responsabilità (c.d. “potential liability test”), un accordo transattivo con il quale essa si impegnava ad adempiere ad una obbligazione pecuniaria volta a colmare le conseguenze della condotta illecita.

L’entità del credito stabilito dall’accordo era tale da lasciar presagire l’assolvimento di una funzione non soltanto compensativa ma anche sanzionatoria.

Alla cessazione della contesa giudiziale e al conseguente adempimento dell’obbligazione di origine pattizia da parte della società fornitrice seguì la correlativa azione di manleva di quest’ultima, nei confronti dell’azienda italiana produttrice.

Il District Court of Appeal of the State of Florida, confermando in appello la pronuncia di primo grado, condannò la società italiana all’integrale rimborso del capitale erogato.

L’inadempimento dell’obbligazione pecuniaria di rimborso indusse la società fornitrice ad esperire ricorso presso il Tribunale di Venezia per ottenere il riconoscimento degli effetti della sentenza straniera (art. 64 L. 218/1995).

La difesa dell’azienda italiana si incentrò sull’incompatibilità tra l’istituto applicato e l’ordinamento italiano dal momento che la sentenza del giudice americano aveva previsto un conguaglio comprensivo dei danni puntivi.

Secondo la parte resistente la comminazione di misure sanzionatorie sarebbe stata contraria al principio di ordine pubblico che sancisce la monofunzionale funzione compensativo-riparatoria della responsabilità civile.

Il percorso giudiziale ha rinvenuto il proprio capolinea con l’accoglimento del ricorso esperito dall’azienda fornitrice e la conseguente rimessione della questione alle Sezioni Unite da parte Sez. I della Corte di Cassazione.

Il giudice remittente, ripercorrendo l’iter giurisprudenziale in materia, ha emesso un’ordinanza diretta a suscitare l’intervento dirimente del giudice della nomofilachia in ordine alla ammissibilità dei danni punitivi, attraverso il varco presidiato dall’ordine pubblico internazionale di cui all’art. 64 l. 218/1995.

 

Le ragioni giuridiche a sostegno dell’ammissibilità

La descrizione degli eventi consente di valutare con maggior consapevolezza l’iter argomentativo seguito dalla Suprema Corte.

L’ordinanza di rimessione rappresenta il primo passo verso la soluzione di una questione dalla pregnante rilevanza giuridica.

In questa prospettiva, le Sezioni Unite si sono soffermate sull’ammissibilità degli effetti sortiti da una sentenza straniera applicativa dell’istituto, di origine anglosassone, dei “punitive damages”.

Il vaglio di legittimazione effettuale si fonda su un giudizio dal duplice risvolto.

Esso, intatti, se da un lato è diretto ad astrarre i principi sui quali si fonda la figura giuridica straniera, dall’altro postula una valutazione ricognitiva dei valori interni all’ordinamento nazionale.

In tale prospettiva, la duplice valutazione si fonde in un giudizio che copre di legittimazione giuridica gli effetti stabiliti da sentenze applicative di fattispecie esterne all’ordinamento.

Sul piano concreto, la Suprema Corte dà conto della consolidata funzione sanzionatoria che informa i “punitive damages”, rendendo, così, priva di ogni utilità le riflessioni intese a minare la fondatezza di tali postulati ermeneutici.

Sulla base di tali considerazioni, la sentenza “punitiva” può sortire effetti interni all’ordinamento previo accertamento favorevole della compatibilità tra quest’ultimo e i principi sui quali si fonda l’istituto.

In via di prima approssimazione, le Sezioni Unite danno conto delle pronunce giurisprudenziali che si sono recentemente avvicendate nel risolvere la questione.

L’orientamento tradizionale professa da sempre una concezione monofunzionale della responsabilità civile. L’affermazione della ratio esclusivamente compensatoria è stata ribadita dalla giurisprudenza di legittimità con le sentenze nn. 1183 del 2007 e 1781 del 2012.

In effetti, quest’ultima ha espressamente preso posizione sul punto, aderendo all’impostazione consolidata: la funzione non sanzionatoria costituisce il risvolto negativo del principio di ordine pubblico che sancisce la natura esclusivamente compensativo-riparatoria della responsabilità civile.

Sul fronte opposto milita invece l’impostazione più moderna. Quest’ultima ha rinvenuto una prima enunciazione giurisprudenziale nella sentenza 9100 del 2015 della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, intervenuta in materia di responsabilità degli amministratori per lo sbilancio patrimoniale della società. La sentenza in questione ha operato una disamina ricognitiva del diritto positivo, dando atto delle norme che applicano il regime di responsabilità in una percepibile prospettiva afflittiva. In quest’ottica, secondo la Suprema Corte, purchè non esondi dagli argini valoriali che ne limitano la correlativa potestà, la funzione sanzionatoria “non appare più così incompatibile con i principi generali del nostro ordinamento”.

A ben riflettere, infatti, la potestà sanzionatoria non può rinvenire una generalizzata legittimazione. Tutt’al più essa può considerarsi ammessa nei soli e particolari casi espressamente previsti dalla legge. In tal senso militano i principi di matrice costituzionale e subcostituzionale di cui agli artt. 23 e 25, co. 2, Cost. e 7 C.E.D.U.

Il graduale affermarsi dell’impostazione moderna ha rinvenuto una battuta di arresto nell’episodica e meramente argomentativa enunciazione espressa dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 15350 del 22 luglio 2015, intervenuta per affermare la non ammissibilità del danno tanatologico.

In tal senso, l’adesione alla concezione monofunzionale della responsabilità civile ha consentito alla Suprema Corte di disconoscere, senza troppe difficoltà, l’assenza di dignità giuridica della figura risarcitoria di nuova emersione giurisprudenziale.

Tuttavia, con la sentenza che in questa sede si sta esaminando Sezioni Unite hanno precisato come l’adesione alla impostazione dogmatica tradizionale espressa dalla Suprema Corte in materia di danno tanatologico svolgesse una mera funzione di supporto argomentativo.

L’adesione alla concezione monofunzionale in una logica meramente argomentativa (“ad adiuvandum”) consente di escludere un’espressa presa di posizione assiologica. Tutt’al più tale presa di posizione, proprio per l’assenza di una autorevolezza dogmatica può essere letta alla stregua di un “obiter dictum”. In tale quadro ricostruttivo essa sembra, dunque, deporre per la preservazione della tenuta logica ed assiomatica dell’indirizzo moderno in ascesa.

Tornando alle argomentazioni che militano a favore della impostazione plurifunzionale, il punto di svolta dell’iter logico seguito dalla Suprema Corte consta in un approccio casistico.

Le Sezioni Unite, accolgono le sollecitazioni dell’ordinanza di rimessione, optando per una disamina di carattere ricognitivo, volta alla individuazione delle manifestazioni di diritto positivo della potestà sanzionatoria.

In tal senso, la pronuncia identifica numerose fattispecie normative dalla chiara indole afflittiva. Evitando di riportare meccanicamente il passo della sentenza, in questa sede appare sufficiente dar conto delle ipotesi più significative.

In quest’ottica milita l’art. 140, co. 7, del codice del consumo; l’art. 709 ter c.p.c., nn. 2 e 3, inerente all’adempimento delle obbligazioni legali di affidamento della prole; l’art. 614-bis c.p.c. che contempla il potere giudiziale di previsione dell’obbligazione pecuniaria volta a sanzionare ogni ritardo o violazione ulteriore nell’esecuzione del provvedimento, parametrandolo in relazione al “valore della controversia” nonché alla “natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile“; l’art. 114 c.p.a., che traspone le “astreintes” nel giudizio di ottemperanza, secondo parametri diversi da quelli prescritti dall’art. 614-bis c.p.c.; l’art. 125 del codice della proprietà industriale in materia di retroversione degli utili; l’art. 96, comma 3, c.p.c., e l’art. 26, co. 2, c.p.a che conferiscono al giudice il potere di condannare il soccombente al pagamento di una somma intesa a sanzionare l’abuso del processo; gli artt. 3 e 5 del D. Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7 che nel disciplinare la depenalizzazione di numerose fattispecie di reato ha optato per la loro sostituzione con sanzioni civili di natura pecuniaria.

L’operata ricognizione apre un varco a considerazioni carattere sistematico che rinvengono un saldo referente giurisprudenziale nelle enunciazioni espresse dal Giudice delle leggi.

La sentenza n. 152 del 2016 rappresenta il manifesto dell’adesione della Corte Costituzionale all’impostazione polifunzionale della categoria della responsabilità civile.

Intervenuta in materia processuale, la Corte si è soffermata sulla ratio sottesa all’istituto di cui all’art. 96 co. 3 c.p.c.

In quest’ottica, il giudice delle leggi ha colto la combinazione funzionale che informa lo strumento processuale secondo una ratio sia deflattiva (ex ante) che sanzionatoria (ex post).

Del resto, dal riconoscimento della “capacità” sanzionatoria delle fattispecie che popolano la categoria della responsabilità civile non può automaticamente desumersi una sua generalizzata funzione afflittiva.

Tutt’al più, tale ratio rileva sul piano della mera attitudine: una potenzialità che ne circoscrive i profili applicativi entro gli argini valoriali e le “intermediazioni legislative” che tradizionalmente vincolano la potestà punitiva (artt. 23 e 25 Cost.).

Sulla base della disamina effettuata, la Suprema Corte tira le somme argomentative, conducendo l’intero ragionamento al cospetto del filtro ordinamentale dell’ordine pubblico di cui all’art. 64 l. 218/1995.

Del resto, il passo più importante di questa seconda parte della pronuncia consiste nella individuazione del senso da attribuire alla clausola generale dell’ordine pubblico. Quest’ultima non va interpretata attraverso una chiave di lettura isolante, che ne astragga e generalizzi la sua portata applicativa.

Come ogni clausola generale, l’ordine pubblico va letto in una prospettiva concreta e contestualizzante rispetto all’impianto normativo nel quale viene in rilievo. Queste coordinate ermeneutiche consentono di raccordare il concetto giuridico indeterminato in esame alla dimensione internazionale nella quale esso viene in rilievo.

In tale prospettiva interpretativa, la Suprema Corte richiama l’art. 67 TFUE in forza del quale l’Unione realizza uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia nel rispetto dei diritti fondamentali nonchè dei diversi ordinamenti giuridici e delle diverse tradizioni giuridiche degli Stati membri.

L’instaurazione di una relazione dialogica tra Carte fondamentali costituisce l’architrave della concezione internazionale dell’ordine pubblico.

La veste ermeneutica assunta dalla clausola generale appare, quindi, in grado di colorarne l’assetto razionale.

La ratio che informa l’ordine pubblico muove, non soltanto in una direzione conservativa di quel minimo di coerenza interna che garantisce la complessiva tenuta dell’ordine giuridico, ma anche verso una funzione promozionale e propulsiva dei valori condivisi dalla Comunità Internazionale.

In quest’ottica illustrativa, la compatibilità tra l’effetto sortito dall’istituto straniero e l’ordinamento deve essere sancita non soltanto dall’osservanza del “portato della Costituzione e di quelle leggi che, […] inverano l’ordinamento costituzionale” ma anche dal rispetto dei principi europei ed internazionali consolidati nei rapporti tra gli Stati appartenenti alla Comunità.

In quest’ottica assumono pregnante rilievo i principi costituzionali di cui agli artt. 23 e 25 Cost che vincolano la potestà punitiva alla tipizzazione legislativa.

Sulla stessa lunghezza d’onda militano i principi di affermazione internazionalistica che affiancano alla tipicità un altro corollario della legalità, ossia la prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie.

Un simile assunto consente di cogliere il requisito minimo sul quale si fonda il ridetto meccanismo: la legittimazione degli effetti della sentenza straniera all’interno dell’ordinamento italiano non può prescindere dalla tipizzazione della fattispecie.

Del resto, preme precisare come il presupposto della necessaria formulazione legislativa venga riadattato dalla Suprema Corte in una prospettiva internazionale.

In tale quadro ermeneutico il principio di tipicità andrebbe inteso non soltanto nella sua classica veste di corollario della legalità formale nazionale che professa il principio della necessaria previsione legislativa interna ma anche in una dimensione comunitaria.

Intesa in questo senso, la tipicità degli effetti puntivi sarebbe legittimata dalla mera esistenza di una previsione legale a prescindere dalla sua “lingua d’origine”, sia essa italiana o straniera.

La direzione espansiva ed armonizzante dell’ordine pubblico appare, del resto, consacrato dallo stesso art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, il quale sancisce l’adesione al canone della proporzionalità della sanzione in una logica deflattivo-deterrenziale oltre che repressivo-sanzionatoria.

L’impostazione possibilista della Suprema Corte trova, tuttavia, un preciso freno inibitore nella ratio che deve regolare il funzionamento della clausola dell’ordine pubblico: la conservazione della coerenza sistematica.

L’enunciazione di principio espressa dalle Sezioni Unite non sancisce il principio di astratta ammissibilità dei danni punitivi.

Una simile affermazione spetterebbe soltanto al legislatore (o al diritto vivente, ove ne sussistano i margini interpretativi).

La pronuncia si limita ad affermare la compatibilità degli effetti sortiti dalla sentenza che fa applicazione di un istituto sanzionatorio con un ordinamento che tradizionalmente negava alla categoria della responsabilità civile una funzione afflittiva.

In tal senso, il giudice nazionale è chiamato ad operare, caso per caso, un giudizio di conformità fondato su una valutazione diagnostica che disveli la congruità, in concreto, tra il diritto positivo e dei valori ordinamentali. Le Sezioni Unite, quindi, raccordano il principio dell’ordine pubblico al giudizio inerente al calcolo degli effetti “che la pronuncia del giudice straniero può avere in Italia, con tutta l’ampiezza di verifica che si deve praticare nel recepimento, con le pronunce straniere, di un istituto sconosciuto, ma in via generale non incompatibile con il sistema”.

Sentenza collegata

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