Sentenza gdp Salerno del 09/11/2009: interruzione energia elettrica risarcimento danni non patrimoniali presunzione ed equità

sentenza 12/11/09
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Si segnala alla cortese attenzione dei lettori una recentissima, articolata  sentenza del Giudice di Pace di Salerno dr.L. ******** in tema di interruzione di energia elettrica ad un’abitazione per la durata di otto giorni.
Nella decisione segnalata, il Giudicante ha affrontato ampiamente la questione della "sopravvivenza" del c.d. danno esistenziale a seguito delle ultime  decisioni  della Corte di Cassazione (cfr. Cass. civ., SS. UU. , 11 novembre 2008, n. 26972
e chiarito le condizioni per la sua liquidazione equitativa utilizzando, se del caso  le presunzioni., 26973, 26974, 26975)
La vicenda riguardava un professionista che per un mero errore di trascrizione dell’indirizzo si era visto effettuare il distacco dell’energia elettrica dalla propria abitazione e che nonostante il tempestivo pagamento ed i numerosi solleciti inoltrati all’azienda fornitrice dell’energia elettrica aveva dovuto aspettare ben otto giorni per riottenere il ripristino dlela fornitura.
Il Giudice ha ritenuto insufficiente l’indennità di trenta euro prevista dalla Carta servizi del gestore, ed ha condannato l’ente convenuto anche al risarcimento dei danni non patrimoniali.
  
avv. ************* 
 
 
 
UFFICIO DEL GIUDICE DI PACE SALERNO
Repubblica Italiana
In nome del Popolo Italiano
 
Il Giudice di ********** ************** ha emesso la seguente
 
SENTENZA
 
nella causa civile iscritta al R.G.A.C. n. «RG» riservata all’udienza del «disc»
TRA
«attore», rapp.to e difeso dall’avv. «studio»           «avv_Attore»con studio in
                                                                                                            ATTORE
E
«compagnia»in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa giusta procura in atti, dall’avv. «avv_compagnia» presso cui è elettivamente domiciliata in «studio_2»
CONVENUTA
CONCLUSIONI: come da verbale di causa .
 
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
 
Con atto di citazione ritualmente notificato il «notifica» , «attore», premettendo di essere titolare del contratto di utenza energia elettrica,  conveniva in giudizio la «compagnia». per sentirla condannare al pagamento del risarcimento danni quantificato nei limiti della competenza per valore dell’adita giustizia , a seguito dell’illegittima sospensione della fornitura e per il tardivo riallaccio avvenuto dopo otto giorni.
Si costituiva la società convenuta eccependo, preliminarmente, l’improcedibilità della domanda e l’infondatezza della domanda per carenza di prova , chiedendo il rigetto della domanda con ogni conseguenza di legge.                                                   
Risultato infruttuoso il tentativo di bonario componimento, acquisita la documentazione ,la causa veniva rinviata per la precisazione delle conclusioni .
Successivamente , in presenza delle parti costituite , all’udienza del «disc» la causa veniva riservata per la decisione con termine per note .
 
MOTiVI DELLA DECISIONE
La domanda è fondata e merita accoglimento.                         
Della legittimazione delle parti
Sempre in via preliminare va rilevato che non vi sono contestazioni in ordine alla legittimazione delle parti ed in ordine all’entità delle somme versate nel periodo controverso.  Comunque , parte attrice ha dimostrato, in maniera incontrovertibile, la sua legittimazione ad agire desunta dalla documentazione allegata, nella quale, la società convenuta, indica la medesima quale utente a cui viene richiesto il pagamento del corrispettivo del servizio prestato.
Del merito , delle risultanze istruttorie e della liquidazione dell’indennizzo per tardivo riallacciamento  
Nel merito, deve rilevarsi che dagli atti di causa è emersa la circostanza dell’illegittima sospensione della fornitura di energia elettrica giacchè per erronea indicazione dell’indirizzo le fatture ed il preavviso di distacco non sono stati recapitati.
In tal modo, allora, si teneva un comportamento oggettivamente connotato da un gravissimo difetto di trasparenza, come tale rivelatore, quantomeno, di mala fede dell’accipiens (ex multis, Cassazione civile, sez. III, 10 marzo 2005, n. 5330).
Dall’esame degli atti risultano provate le circostanze dedotte dall’attore : l’interruzione del servizio, e il tardivo riallacciamento oltre il termine di 1 giorno previsto dalla carta dei servizi e di qualità predisposta dalla medesima convenuta.
L’attore ha quindi provato la sussistenza del diritto al pagamento dell’indennizzo  della somma di Euro 30,00 per il tardivo riallacciamento.
Della liquidazione del danno non patrimoniale
In ordine al danno non patrimoniale risarcibile, viene innanzitutto in discussione il riconoscimento all’attore del diritto al risarcimento, determinato dal disagio o stress sopportato a causa dell’inesatta esecuzione della prestazione promessa, ove sia stato leso irrimediabilmente o compromesso l’interesse al pieno godimento della tranquillità e serenità familiare e/o alla vita di relazione conformemente  alle aspettative e quindi quando costituisca lesione ai valori costituzionalmente garantiti.
Si pone in particolare il problema della risarcibilità del danno morale, vale a dire del pregiudizio da sofferenza psichica (patema d’animo) non corporale e transeunte.
In una recente sentenza del 12/3/2002, Causa C-168/2000, ******* c/Tui, (G.I. 2002, 1801; ******************, 363; **************,1000), la Corte di Giustizia CE ha affermato che l’art. 5 della Direttiva 90/314/CEE (che impone agli Stati membri di adottare le misure necessarie affinché l’organizzatore di viaggi risarcisca i “danni arrecati al consumatore dall’inadempimento o dalla cattiva esecuzione del contratto”) deve essere “interpretato nel senso che il consumatore ha diritto al risarcimento del danno morale derivante dall’inadempimento o dalla cattiva esecuzione delle prestazioni fornite in esecuzione di un contratto turistico rientrante nel campo di applicazione della direttiva”.
E’ stato così affermato, a livello di ordinamento comunitario, il principio della risarcibilità del danno morale da inadempimento contrattuale.
Nel caso che ci occupa, l’attore ha chiesto la condanna della convenuta, anche al pagamento del risarcimento dei danni non patrimoniali, , causati all’attore per l’illegittimo comportamento tenuto e per la palese violazione delle norme di correttezza e buona fede a cui erano tenuti nella conclusione e nell’adempimento del contratto.
Il risarcimento dei danni, secondo i principi generali, può essere riconosciuto in tutti quei casi in cui sussistano le seguenti condizioni: ingiustizia del danno secondo i parametri dell’art. 2043 c.c.; nesso di causalità tra comportamento lesivo e danno che deve tradursi in un giudizio di proporzionalità ed adeguatezza tra il fatto illecito e la conseguenze dannose; consecutività temporale tra comportamento lesivo e danno (cfr. Trib. Milano 21/10/1999).
Tutte queste condizioni possono essere ravvisate nel caso di specie che, incidendo sull’esplicazione delle normali attività connesse, non solo con i rapporti lavorativi, ma anche sociali e familiari, può essere ricondotto sia al danno alla vita di relazione che al danno alla serenità familiare.
I giudici di merito e di legittimità avevano costruito una vasta casistica di applicazione c.d. esistenziale (come categoria del danno morale) che va dal danno conseguente ad un licenziamento ingiurioso, al mobbing, ed, anche, al rifiuto della P.A. di accogliere l’istanza di revoca d’ufficio di una contravvenzione palesemente illegittima (GdP di Verona 16/3/200), fattispecie simile a quella su cui si controverte, posto che da un illegittimo comportamento della P.A. è derivato una lesione della serenità personale che ciascun soggetto ha diritto di mantenere, non solo nell’ambito lavorativo ma anche familiare.
 
Del danno esistenziale
Non è inopportuna qualche breve considerazione sulla qualificazione (e sopravvivenza) del c.d. danno esistenziale.
E’ noto che il sistema delineato dal Codice civile del 1942 si fondava sulla concezione dicotomica che distingueva, nell’universo aquiliano, il danno patrimoniale da quello non patrimoniale.
Invero, mentre l’articolo 2043 configura la prima categoria (<>), il risarcimento del danno non patrimoniale è previsto dall’articolo 2059 Cc secondo cui <>. All’epoca dell’emanazione del codice civile (1942) il legislatore – con il prefato richiamo – intendeva riferirsi all’unica previsione espressa di risarcimento del danno non patrimoniale, quella racchiusa nell’articolo 185 del Codice penale del 1930.
E’ noto, tuttavia, che nella successiva evoluzione verificatasi nella disciplina di tale settore, contrassegnata dal nuovo atteggiamento assunto, dal legislatore e dalla giurisprudenza, il sistema dicotomico del 1942 è entrato in crisi fino ad essere definitivamente superato per effetto della nuova sistemazione dogmatica del danno civile elaborata con il fondamentale contributo delle due sentenze gemelle della Suprema Corte di Cassazione del 31 maggio 2003 (nn. 8827 e 8828) e dell’interpretazione costituzionalmente orientata che – analogamente alla Corte di Cassazione – ne ha dato la Corte Costituzionale (sent. n. 233 dell’11 luglio 2003).
La prima tappa (giurisprudenziale) di tale complesso itinerario è stata incentrata sulla figura del danno biologico.
Nella sistematica codicistica originaria, l’individuo, in quanto titolare di un patrimonio valutabile sub specie economico – contabile, poteva invocare la tutela giuridica, solo ove il predetto patrimonio avesse subito un pregiudizio: l’ipotesi tipica era rappresentata dalla diminuzione della capacità di produrre reddito, a causa di una lesione fisica invalidante.
Questo impianto di tutela, tuttavia, escludeva quella forma di danno che poteva riguardare tutti gli individui, compresi i soggetti privi di un reddito lavorativo. Il sistema così descritto, in altri termini, operava un meccanismo di esclusione di tutela giuridica che, non solo si poneva in palese contrasto con i dettami della Carta Costituzionale (artt. 2, 3, Cost.), ma finiva anche con il rendere del tutto inoperante l’art. 32 Cost. (tutela della salute).
Intorno alla metà degli anni ’70 – anche sulla spinta delle critiche rivolte dalla dottrina alle previsioni codicistiche – parte della giurisprudenza cercò, con una serie di tentativi, di superare l’impasse cui conduceva la richiamata dicotomia.
In tal senso la sentenza del Tribunale di Genova 25 maggio 1974, rappresentò – anche sotto il profilo storico – il primo passo verso una impostazione metodologica volta a "spostare l’asse dell’attenzione" dal criterio patrimoniale al criterio della "ingiustizia" del danno.
Un passo ulteriore è rappresentato dalle sentenze n. 87 e 88 del 1979 con le quali la Corte Costituzionale individuò nell’art. 32 Cost. la norma che assicura la effettività della tutela della salute quale diritto fondamentale dell’individuo, come diritto primario ed assoluto e pienamente operante nei rapporti tra privati. La medesima Corte precisò che il diritto alla salute, in virtù anche del suo carattere privatistico, è direttamente tutelato dalla Costituzione (art. 32) e, nel caso di sua violazione, il soggetto può chiedere ed ottenere il giusto risarcimento, in forza del collegamento tra l’art. 32 Cost. e l’art. 2059 c.c..
La successiva produzione giurisprudenziale vede l’affermarsi della tesi secondo cui la menomazione dell’integrità psicofisica della persona, costituisce un danno ingiusto di natura patrimoniale, in quanto colpisce un valore essenziale che fa parte integrante di quel complesso di beni di esclusiva e diretta pertinenza del danneggiato (Cass. civ., 11/02/1985, n.1130; per una applicazione in punto di danno biologico cfr. la sentenza n. 3675/81 della Corte di Cassazione).
Con la storica sentenza n. 134/1986, la Corte Costituzionale ribadisce la legittimità dell’art. 2059 c.c. che correttamente, nella discrezionalità del legislatore, ha delimitato il risarcimento del danno non patrimoniale alle sole ipotesi in cui il fatto costituisce reato. Al tempo stesso, però, la Corte Costituzionale nega che una simile scelta del legislatore possa pregiudicare la risarcibilità stessa del danno biologico, dal momento che tale risarcibilità va ricercata non nell’art.2059 c.c., ma bensì nell’ambito dell’art.2043 c.c..
Accanto alla poderosa opera di ricostruzione dogmatica da parte della giurisprudenza, si pone l’attività del legislatore che, nella normativa successiva al codice, ha notevolmente ampliato i casi di espresso riconoscimento del risarcimento del danno non patrimoniale anche al di fuori dell’ipotesi di reato (art. 185 c.p.), in relazione alla compromissione di valori personali (art. 2 L. n. 117/88: risarcimento anche dei danni non patrimoniali derivanti dalla privazione della libertà personale cagionati dall’esercizio di funzioni giudiziarie; art. 29, sostituito dall’art. 152, comma 12, d.lvo 30 giugno 2003 n. 196 comma 9, L. n. 675/96: impiego di modalità illecite nella raccolta di dati personali; art. 44, comma 7, D.L.vo n. 286/98: adozione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi; art. 2 L. n. 89/2001: mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo).
Venendo al più recente passato, la definitiva sistemazione dogmatica del "danno civile" è stata effettuata – come sopra anticipato – dalla giurisprudenza costituzionale e da quella civile del 2003.
In particolare la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto non più condivisibile la tradizionale restrittiva lettura dell’articolo 2059 c.c., in relazione all’articolo 185 Cp, come diretto ad assicurare tutela soltanto al danno morale soggettivo, alla sofferenza contingente, al turbamento dell’animo transeunte determinati da fatto illecito integrante reato. La Corte di Cassazione ha osservato che nel vigente assetto ordinamentale, nel quale assume posizione preminente la Costituzione – che, all’articolo 2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, – il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona. La Corte ha precisato che si deve quindi ritenere ormai acquisito all’ordinamento positivo il riconoscimento della lata estensione della nozione di "danno non patrimoniale", inteso come danno da lesione di valori inerenti alla persona, e non più solo come "danno morale soggettivo".
Al giudice della legittimità non è sembrato proficuo ritagliare all’interno di tale generale categoria specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo poiché, ha osservato, ciò che rileva, ai fini dell’ammissione a risarcimento, in riferimento all’articolo 2059 c.c., è l’ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, dal quale conseguano pregiudizi non suscettivi di valutazione economica.
Inoltre, la riserva di legge, originariamente esplicata dal solo articolo 185 Cp (ma anche dall’articolo 89 Cpc), in punto di ammissibilità del risarcimento, è stata resa inoperante nel caso di lesione concernete i valori della persona costituzionalmente garantiti.
Dal quadro "ridisegnato" nel recente passato emerge che al risarcimento del danno patrimoniale, sempre ancorato al paradigma dell’art. 2043 c.c., si accompagna il risarcimento del danno non patrimoniale, che trova tutela più ampia ed articolata nell’art. 2059 c.c., il quale non va più restrittivamente interpretato ed applicato in via esclusiva ai casi tradizionali del danno morale soggettivo (ex art. 185 c.p.), ma deve assicurare la riparazione delle ipotesi legali espresse di danno non patrimoniale risarcibile (art. 89 c.p.c., art. 2 l. n. 117/1988, art. 29 l. n. 675/1996, sostituito dall’art. 152 d.lvo 196/2003 art. 44 d.lgs. n. 286/1998, art. 2 l. n. 89/2001), e delle lesioni che, incidendo sui valori (della persona) costituzionalmente garantiti non possono non costituire figure di danno risarcibile, a prescindere da risvolti penalistici, non più condizionanti.
Dalla nuova sistemazione deriva che il danno non patrimoniale è categoria ampia, nella quale trovano collocazione tutte le ipotesi di lesione di valori inerenti alla persona, ovvero sia il danno morale soggettivo (concretantesi nella perturbatio dell’animo della vittima), sia il danno biologico in senso stretto (o danno all’integrità fisica e psichica, coperto dalla garanzia dell’art. 32 Cost.), sia il c.d. danno esistenziale (o danno conseguente alla lesione di altri beni non patrimoniali di rango costituzionale).
Merita – a questo punto – di essere precisato che la categoria del danno esistenziale è stata – a volte surrettiziamente – enucleata dalla giurisprudenza civile (specialmente negli anni 1986 – 1994) mediante un fenomeno di dilatazione della categoria del danno biologico.
La successiva produzione giurisprudenziale, tuttavia, riconducendo il danno biologico nei confini della "patologia", determinò la necessità di definire – expressis verbis – una nuova categoria di danno idonea a ricomprendere tutte le ipotesi di lesione arrecata ai diritti della personalità (cfr., in particolare, le decisioni di merito Trib. Torino 8 agosto 1995, Trib. Verona 26 febbraio 1996).
Il suggello alla produzione giurisprudenziale (ed alla sottesa elaborazione della dottrina) in esame è stato posto dalla Corte di cassazione, sez. I, sentenza n. 7713 del 7 giugno 2000, secondo cui la lesione dei diritti fondamentali della persona, collocati al vertice della gerarchia dei valori costituzionalmente garantiti, va incontro alla sanzione risarcitoria per il fatto in sé della lesione (danno evento) indipendentemente dalle eventuali ricadute patrimoniali che la stessa possa comportare (danno conseguenza) – come posto in luce dalla Corte costituzionale con la nota sentenza n. 184 del 1986.
La Corte di Cassazione ha osservato che la vigente Costituzione, garantendo principalmente e primariamente valori personali impone una lettura costituzionalmente orientata del paradigma aquiliano (che non si sottrarrebbe altrimenti ad esiti di incostituzionalità), "in correlazione agli articoli della Carta che tutelano i predetti valori", nel senso appunto che quella norma sia "idonea a compensare il sacrificio che gli stessi valori subiscono a causa dell’illecito", attraverso "il risarcimento del danno (che) è sanzione esecutiva del precetto primario ed è la minima delle sanzioni che l’ordinamento appresta per la tutela di un interesse".
Il danno esistenziale consisteva, pertanto, nei riflessi esistenziali negativi (perdita di compiacimento o di benessere per il danneggiato) che ogni violazione di un diritto della personalità produce.
A differenza del danno biologico, tale voce di danno sussisteva indipendentemente da una patologia (lesione fisica o psichica) suscettibile di accertamento e valutazione medico-legale; diversamente dal danno patrimoniale, prescinde da una diminuzione della capacità reddituale; rispetto al danno morale, inteso come turbamento dello stato d’animo della vittima, non consiste in una sofferenza od in un dolore, ma in un peggioramento della qualità di vita derivante dalla lesione del valore costituzionale "uomo".
Allo stesso modo, Giudici di Pace di Roma e di Bologna hanno recentemente riconosciuto il diritto al risarcimento del danno a cittadini che, inseguiti dalla Pubblica Amministrazione per la riscossione di illegittime sanzioni, sono stati costretti a numerose trafile presso gli sportelli degli uffici pubblici per vedere riconosciute le loro ragioni.
L’amministrazione infatti, di fronte alle legittime contestazioni dei richiedenti ed esaminando la documentazione presentata, avrebbero potuto annullare le contravvenzioni; non averlo fatto, ha comportato danni "conseguenti allo stato di frustrazione e di disagio che ne è derivato, oltre ai disagi per il grave dispendio di tempo ed energie necessarie per le proprie difese, nella consapevolezza delle proprie ragioni".
Sul punto era intervenuta la Corte cost., che nella decisione 11/07/2003, n.233 ha sancito: “Nell’astratta previsione della norma di cui all’art. 2059 c.c. deve ricomprendersi ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona: sia il danno morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento dello stato d’animo della vittima; sia il danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell’interesse, costituzionalmente garantito, all’integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico (art. 32 Cost.); sia infine il danno (spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale) derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona”.
Qualche anno fa il Supremo Collegio, con la sentenza 13546/2006, aveva spazzato via ogni dubbio in ordine all’eventuale rischio di sovrapposizione tra danno biologico e danno morale soggettivo, ribadendo innanzitutto come, il danno esistenziale, a differenza del danno morale soggettivo, debba obiettivarsi e che, diversamente dal danno biologico, debba prescindere dalla accertabilità in sede medico legale.
Inoltre aveva sancito che il danno esistenziale si deve sostanziare in una modificazione peggiorativa della personalità dell’individuo in presenza di lesione di interessi essenziali della persona, come quelli costituzionalmente garantiti (salute, reputazione, libertà di pensiero, famiglia, ecc..).
Il danno non patrimoniale deve essere dunque rico­nosciuto e liquidato nella sua interezza, essendo per­tanto necessaria, laddove il risarcimento non risulti in termini generali e complessivi domandato, l’analitica considerazione e liquidazione in relazione ai diversi aspetti in cui esso si scandisce.
Quando il danneggiato chiede il risarcimento del danno non patrimoniale la domanda va cioè intesa come estesa a tutti gli aspetti di cui tale ampia categoria sì compone, nella quale vanno d’altro canto riassorbite le plurime voci di danno nel corso degli anni dalla giurisprudenza elaborate proprio per sfuggire agli an­gusti limiti della suindicata restrittiva interpreta­zione dell’art. 2059 c.c.
La domanda di risarcimento del danno non patrimo­niale in termini generali formulata non può essere in­fatti limitata alla considerazione meramente di alcuni dei medesimi, con esclusione di altri (cfr. Cass., 24/2/2006, n. 4184; Cass., 26/2/2003, n. 28 69, con ri­ferimento in particolare al danno biologico), una tale limitazione essendo invero rimessa, in ossequio al principio della domanda, alla previa scelta del danneg­giato, che si limiti a far valere solamente alcuna del le tre suindicate voci che tale categoria integrano (v. Cass., 28/7/2005, n. 1583; Cass., 7/12/2004, n. 22987. Con riferimento alla richiesta di risarcimento del dan­no morale, nel senso che essa non possa intendersi come limitata alla sola sofferenza psichica transeunte ma debba considerarsi quale «sinonimo» della locuzione «danno non patrimoniale», v. peraltro Cass., 15/7/2005, n. 15022).
Sul punto è recentemente intervenuta la ormai famosa sentenza   Cass. sez. un. 11 novembre 2008, n. 26975, che ha identificato il danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c. come quello determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, composto in categoria unitaria non suscettibile di suddivisione in sottocategorie. Danno tutelato in via risarcitoria, in assenza di reato ed al di fuori dei casi determinati dalla legge, solo quando si verifichi la lesione di specifici diritti inviolabili della persona, ossia la presenza di un’ingiustizia costituzionalmente qualificata. Tenendo, dunque, conto dell’interesse leso e non del mero pregiudizio sofferto o della lesione di qualsiasi bene giuridicamente rilevante”.
In un primo momento sembrava che tale decisione avesse finalmente chiarito la questione del danno esistenziale e del danno non patrimoniale.
Si è poi visto che tale decisione non ha accontentato né i c.d. esistenzialisti né i c.d. negazionisti e vi sono state pronunce delle sezioni semplici e della giurisprudenza di merito che hanno per cosi dire “reinterpretato” la decisione delle sezioni unite e cercato di dare una diversa e più ampia qualificazione del danno non patrimoniale e dei criteri per la sua risarcibilità.
Il dibattito è ancora aperto e non si concluderà a breve.
Ritiene il Giudicante che allo stato si possa condividere quell’orientamento dottrinario secondo cui il danno ex art. 2059 cod. civ. – nella lettura data dalle SS.UU. dell’11 novembre 2008 (cfr. Cass. civ., SS. UU. , 11 novembre 2008, n. 26972, 26973, 26974, 26975) – rappresenta una categoria unitaria di nocumento ove racchiusi tutti i pregiudizi cd. esistenziali, i quali si caratterizzano per l’assenza di risvolti reddituali, incidendo sulla persona in quanto tale.
Il giudice, ai sensi dell’art. 2059 cod. civ., è chiamato ad accertare, ai fini del risarcimento, quali siano gli interessi che la vittima del fatto illecito assume violati per verificarne la rilevanza costituzionale ovvero la riconducibilità ad una espressa previsione di Legge che ne legittima espressamente il ristoro non patrimoniale (oltre che patrimoniale ex art. 2043 cod. civ.).
 Il giudice deve, poi, anche valutare la gravità dell’offesa che si vuole sanzionare in via risarcitoria. La suddetta gravità dell’offesa costituisce requisito ulteriore per l’ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili.
Il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. Il filtro della gravità della lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima, e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile.
In definitiva alla stregua delle suesposte considerazioni, allo stato attuale dell’evoluzione giurisprudenziale, deve ritenersi che non “esiste” un (autonomo) danno esistenziale e che le varie definizioni (biologico, morale) hanno mera valenza descrittiva. Il danno è unitario: danno non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ. -.
Il danno esistenziale non più autonomo, ma rientrante nell’ambito del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c. può essere risarcito solo allorché, alternativamente :
a) l’interesse che si assume leso e’ un diritto inviolabile della persona (oppure e’ riconducibile ad una espressa previsione di legge anche internazionale che consente il ristoro ex art. 2059 c.c.);
b) l’offesa arrecata al diritto e’ seria, oltre la soglia della tollerabilita’.
In tal caso l’onere della prova grava sul danneggiato e la liquidazione, se il danno è provato nell’an, può essere fatta ex art.. 1226 c.c. anche equitativamente tramite presunzioni. 
Della verifica della sussistenza del danno non patrimoniale
Riconosciuta l’esistenza del danno morale come danno non patrimoniale, precisato che detto danno è poi suscettibile di liquidazione equitativa ex artt. 1226 e 2056 c.c. , deve accertarsi se nella fattispecie ricorrano le suindicate condizioni per la liquidazione nell’ambito del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. del danno da c.d. "emotional distress” che può includere la paura, la rabbia, l’ansia sofferta e causata alla vittima di un illecito.
Nella fattispecie in esame ritiene il Giudicante in concreto sussistenti i presupposti per il risarcimento del danno esistenziale (rientrante nella categoria unitaria del danno non patrimoniale ) cagionato alla parte attrice.
Nella fattispecie che ci occupa è evidente, oltre l’inadempimento contrattuale della convenuta anche la violazione di posizioni tutelate dall’ordinamento.
Tanto detto sulla ricorrenza del danno ingiusto sub specie eventi, sul piano della prova, è jus receptum l’affermazione secondo la quale l’immaterialità dei pregiudizi in questione (lesione di valori inerenti alla persona) rende ammissibile il ricorso alla prova per presunzioni, sulla scorta di valutazioni prognostiche anche basate su fatti notori o massime di comune esperienza.
Nel caso in esame, il fatto della illegittimità del comportamento della convenuta e della chiamata in causa, dell’ansia e dai disagi provati dall’attore per la impossibilità di fruire dell’energia elettrica nella propria abitazione consente di risalire al fatto ulteriore dell’indubbio  peggioramento della qualità dell’esistenza.
Aderendo alla concezione cd. "statica" del danno esistenziale, esso emerge ipso iure, dalla prova del fatto antigiuridico (anche in relazione all’elemento soggettivo dell’illecito) che reca in sé l’accertamento del danno ingiusto.
Il rapporto di derivazione immediata e diretta del danno dal fatto lesivo accertato non richiede un particolare nisus argomentativo.
Il riconoscimento della persona umana, infatti, si sostanzia anche attraverso il rispetto dei desideri e delle aspettative che ognuno può avere in dati momenti della sua vita e che, giustamente, trovano tutela nell’ampio dettato del richiamato art. 2 della Costituzione.
La lesione della personalità del soggetto è suscettibile di tutela, indipendentemente dallo specifico interesse leso che può anche non avere una diretta rilevanza costituzionale, ma va tutelato ogni qualvolta configuri una alterazione della manifestazione della personalità tutelata costituzionalmente ex art. 2 della costituzione .
Il danno esistenziale è, quindi, individuabile, come nel caso di specie, ove sia accertata una modificazione peggiorativa, apprezzabile per intensità e qualità, nella sfera del soggetto leso, tra cui va fatta rientrare l’alterazione ( Cfr. App. Milano 14-02-03).
In definitiva va acclarata la risarcibilità del danno non patrimoniale (voce danno esistenziale) , anche in assenza di ipotesi di reato, in primo luogo proprio in ossequio alla prevista liquidabilità di "qualunque pregiudizio" derivante dall’ inadempimento dell’operatore turistico ai sensi dell’art. 13 Convenzione dì Bruxelles del 23.4.1970 e della violazione del diritto alla normale qualità della vita ovvero alla libera estrinsecazione della personalità , diritto tutelato dall’art. 2 della Costituzione ed in secondo luogo, può ritenersi che all’esito dell’istruttoria espletata sia stata dimostrata la gravità , la serietà e la durata della lesione nonché la rilevanza delle conseguenze sopra descritte, e che sia stato oltrepassato il limite della normale tollerabilità.
Delle presunzioni
Si osserva che nel caso in esame non sussiste violazione dell’art. 2697 c.c. giacchè il la prova del danno in questione sia patrimoniale e sia esistenziale può essere data invero anche a mezzo di presunzioni [ v. Cass., 31/5/2003, n. 8827; Cass., 31/5/2003, n. 8828; Cass., 19/8/2003, n. 12124; Cass., 15/7/2005, n. 15022 ) , le quali al riguardo assumono anzi «precipuo rilievo» (v. Cass., Sez. Un., 24/3/2006, n. 6572 ).
Le presunzioni, vale osservare, come affermato in giurisprudenza di legittimità ( v. Cass., SS. UU. , 24/3/2006, n. 6572 ) e sostenuto anche in dottrina non costituiscono uno strumento probatorio dì rango secondario" nella gerarchia dei mezzi di prova e «più debole» rispetto alla prova diretta o rappresen­tativa.                 Va al riguardo sottolineato come, alla stessa stre­gua di quella legale la presunzione vale invero nel ca­so a sostanzialmente facilitare 1’assolvimento dell’onere della prova da parte di chi ne è onerato, trasferendo sulla controparte l’onere della prova con­traria.
La Suprema Corte ha più volte affermato che «la pre­sunzione semplice e la presunzione legale iuris tantum si distinguono unicamente in ordine al modo di insorgenza, in quanto mentre il fatto sul quale la prima si fonda dev’essere provato in giudizio, e il relativo onere grava su colui che intende trarne vantaggio, la seconda è stabilita dalla legge e, quindi, non abbiso­gna della prova di un fatto sul quale possa fondarsi e giustificarsi. Una volta, tuttavia, che la presunzione semplice si sia formata e sia stata rilevata ( cioè, una volta che del fatto sul quale si fonda sia stata data o risulti la prova ) , essa ha la medesima effica­cia che deve riconoscersi alla presunzione legale iuris tantum, quando viene rilevata, in quanto 1’una e 1 ‘al­tra trasferiscono a colui, contro il quale esse depon­gono, 1 ‘ onere della prova contraria» ( così Cass., 27/11/1999, n. 13291 ).
Da tale considerazione consegue il ritenere la par­te onerata ex art. 2697 c.c. . sollevata dal provare il fatto previsto { che, come posto in rilievo anche in dottrina, deve considerarsi provato ove provato il «fatto base» ) . Ed altresì che, come per quella lega­le, anche per la presunzione semplice in assenza di prova contraria ( quando, come nel caso, ammessa ) il giudice è tenuto a ritenere provato il fatto previsto, non essendogli consentita al riguardo la valutazione ai sensi dell’art. 116 c.p.c.
Il prevalente orientamento segnala peraltro che attraverso lo schema logico della presunzione la legge non vuole imporre conclusioni indefettibili ma introdu­ce uno strumento di accertamento dei fatti di causa che può anche presentare qualche margine di opinabilità nell’operata riconduzione, in base a regole (elastiche) dì esperienza, del fatto ignoto da quello noto, mentre quando queste regole si irrigidiscono -assumendo consi­stenza di normazione positiva- si ha un fenomeno quali­tativamente diverso, e dalla praesumptio hominis si passa nel campo della presunzione legale ( v. Cass., 16/3/1979, n. 1564 ).
Come ripetutamente affermato dalla S.C. , in tema di prova per presunzioni semplici nella deduzione dal fatto noto a quello ignoto il giudice di merito in­contra il solo limite del principio di probabilità: non occorre, cioè, che i fatti, su cui la presunzione si fonda, siano tali da far apparire la esistenza del fat­to ignoto come 1 ‘unica conseguenza possibile dei fatti accertati secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva ( in tal senso v. peraltro Cass,, 6/8/1999, n. 8489; Cass., 23/7/1999, n. 7954; Cass., 28/11/1998, n. 12088 ), ma è sufficiente che 1’operata inferenza sia effettuata alla stregua di un canone di ragionevole probabilità, con riferimento alla connessione degli ac­cadimenti la cui normale sequenza e ricorrenza può verificarsi secondo regole di esperienza ( v. Cass. 23/3/2005, n. 6220; Cass., 16/7/2004, n. 13169; Cass., 13/11/1996, n. 9961; Cass., 18/9/1991, n. 9717; Cass., 20/12/1982, n. 7026 ) , basate sull’ id quod plerumque accidit ( v. Cass., 30/11/2005, n. 6081; Cass., 6/6/1997, n. 5082 ).
La presunzione basata sulla regola di esperienza (la quale ove fondata sulla tipicità di determinati fatti in base alla regola di esperienza di tipo stati­stico richiama l’istituto proprio dell’esperienza tede­sca dell’Anscheinsbeweis ), che può indurre il giudice ad escludere la necessità di ulteriori prove al riguar­do, è, diversamente da quella legale, in realtà rimes­sa ad una conclusione di tipo argomentativo, nell’ambito del prudente apprezzamento del giudice ex art. 116 c.p.c.-
La parte contro cui gioca la presunzione è in ogni caso ammessa a fornire la prova contraria, spettando in tal caso al giudice stabilire l’idoneità nel caso con­creto di quest’ultima a vincerla.
Relativamente all’art. 1226 c.c. si osserva che alla liquidazione dei danni in via equitativa si può ricorrere sia nell’ipotesi in cui manchi la prova del loro preciso ammontare per la possibilità della parte di fornire congrui ed idonei elementi al riguardo, sia in caso di notevole difficoltà di una precisa quantificazione.(Cass. 11.2.1998 n. 1382).
La suddetta prova può essere conseguita anche con le presunzioni semplici previste dagli artt. 2727 e 2729 c.c. e con apprezzamenti di probabilità con riferimento all’id quod plerumque accidit. (Cfr. Cass. 18.10.1984 n. 5259; Cass. 29.4.1986 n. 2957;Cass. 23.1.1988 n. 836).- 
Della liquidazione del danno
Ritiene questo giudicante che il danno non patrimoniale sofferto dall’attore (nella sua valutazione unitaria) per il disagio, la frustrazione e lo stress derivato dalla mancata fruizione del servizio di fornitura di energia elettrica per la durata di otto giorni , vada quantificato complessivamente ed equitativamente nella misura di euro 800,00.
In definitiva deve affermarsi la responsabilità della società convenuta che  ha violato il principio di buona fede che sottende ad ogni rapporto contrattuale, integrando la violazione sia dell’art. 1175 c.c. che della legge 281/98 posta a tutela del consumatore e comportando, per lo stesso, il diritto al risarcimento del danno che può essere quantificato equitativamente, ai sensi dell’art. 1226 c.c. , nella somma di €. 800,00.
Alla stregua delle suesposte argomentazioni le domande di indennizzo e di risarcimento danni vanno accolte e la convenuta va condannata al pagamento dell’indennizzo previsto di Euro 30,00 oltre che alla liquidazione del danno non patrimoniale sofferto e causato dall’illegittimo comportamento della società convenuta in misura di Euro 800,00.
Le somme così liquidate vanno maggiorate degli interessi legali dal fatto all’effettivo soddisfo.
Delle spese del giudizio
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate a carico della società convenuta , come da dispositivo e secondo il decisum a favore del procuratore dichiaratosi  antistatario.
P.Q.M.
Il Giudice di Pace di Salerno, dott. **************, ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione disattesa, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da «attore» nei confronti di «compagnia». con atto di citazione notificato il  «notifica», così provvede:
a)      accoglie la domanda attrice e per l’effetto condanna la «compagnia»., in persona del suo legale rappresentante pro-tempore, al pagamento in favore di «attore», della somma di Euro 30,00«danno_a_cose_liquidato» oltre interessi legali dalla mora al soddisfo, a titolo di indennizzo per tardivo riallacciamento, e di €. 800,00 a titolo di risarcimento danni per la mancata fruizione dell’energia per la durata di 8 giorni , oltre interessi legali dalla mora al soddisfo .
b)      Condanna, «compagnia». al pagamento delle spese e competenze del presente giudizio che si liquidano in complessivi Euro 630,00 di cui € 30,00 per spese, Euro 400,00 per diritti ed Euro 200,00 per onorario, oltre rimborso spese generali , IVA e CAP, se dovuti come per legge e non altrimenti detraibili, con attribuzione ai «avv_Attore» procuratore costituito che ne ha fatto richiesta.
Così deciso in Salerno lì 09/11/2009                                               
Il Giudice di Pace
                                                                                                 Avv. **************

sentenza

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