sentenza del 30.06.2007 in materia di diffamazione e calunnia in danno di un magistrato del Pubblico Ministero; si affrontano i limiti all’esercizio del diritto di denunzia, del diritto di cronaca e del diritto di critica, quali scriminanti del fatto ille

sentenza 26/07/07
Scarica PDF Stampa
L’esercizio del diritto di cronaca, precipitato logico-giuridico del diritto di informare e di essere informati sussumibile nello spazio di libertà di cui all’art. 21 della Costituzione, si attaglia all’attività giornalistica che fornisce “notizie” d’interesse sociale alla pubblica opinione, non certo all’espressione di mere opinioni ed apodittici convincimenti di singoli cittadini che, improvvisandosi “giornalisti di fatto”, decidano di utilizzare il mezzo della stampa a mo’ di cassa di risonanza degli stessi.
Nell’esercizio del diritto di critica il connaturale elemento “valutativo” sotteso allo stesso diritto ed ulteriore rispetto all’elemento “informativo” presuppone un adattamento del limite interno della verità, che non può che riguardare esclusivamente il dato storico-fattuale su cui s’innesta la critica, esulando per contro dal momento prettamente soggettivo dell’espressione dell’opinione attinente al mondo dell’idee, e per ciò solo non predicabile in termini di falsità o verità, categorie euristiche, cui, in un moderno e laico ordinamento democratico, possono rigorosamente ricondursi esclusivamente i fatti e non già i giudizi.
Non ricorre l’esimente dell’esercizio del diritto di critica, per difetto di continenza, allorquando si addebiti ad un magistrato del Pubblico Ministero una collusione con la mafia ed una strumentalizzazione dell’attività inquirente al conseguimento di fini illeciti, posto che ciò si traduce in un nitido e consapevole attacco ad hominem ed alla sfera morale della persona.
La  lesione dei diritti costituzionalmente garantiti all’onore ed alla reputazione può dare luogo, quali danni conseguenza risarcibili ex art. 2059 c.c., ad “un diverso sentire” del danneggiato che, se comporta sofferenza o disagio, costituisce danno morale (altrimenti restando relegato alla sfera del non risarcibile), ovvero ad un “diverso relazionarsi” tra loro del danneggiato e della collettività, sussumibile nella figura del danno esistenziale (o da lesione di diritti della persona costituzionalmente garantiti od alla vita di relazione).
 
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI MARSALA
SEZIONE CIVILE STRALCIO
In persona del dott. ********************, in funzione di Giudice unico, ha emesso la presente
SENTENZA
nella causa civile di primo grado iscritta al n. 2316/92 R.G.A.C. (reg. gen. Sez. stralcio n. 1285), vertente
TRA
 
…..Omissis….
 
 
MOTIVI DELLA DECISIONE
 
…..Omissis….
 
 
Ciò premesso in punto di fatto, può passarsi all’esame della domanda risarcitoria di parte attrice con riguardo ai diversi e connessi fatti illeciti prospettati in citazione.
Deve essere in primo luogo, rigettata, la domanda di risarcimento dei danni patrimoniali, posto che l’attore non ha fornito alcuna concreta deduzione degli stessi e, a fortiori, alcuna prova.
Giova osservare, tuttavia, che la richiesta di danno patrimoniale avanzata dall’attore, considerato che l’atto di citazione risale al lontano 1992, ben può essere letta come richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale per la (espressamente)invocata lesione dell’onore e della reputazione.
Tale danno, infatti, a partire dalla nota pronunzia n. 186 del 1984 della Corte Costituzionale e sino alla altrettanto nota rivisitazione dell’area del danno ex art. 2059 c.c. cominciata nel 2003 ad opera della giurisprudenza di legittimità, in quanto pregiudizio obiettivo a diritti fondamentali attributi alla personalità umana, era correlato ad una lata nozione di patrimonio del soggetto inteso come comprensivo del complesso delle situazioni giuridiche soggettive ad esso riferibili, anche là dove non si trattasse di poste suscettibili di una valutazione in senso strettamente economico (è paradigmatica la nota parabola seguita dal c.d. danno biologico).
Fondata, per converso, è la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale.
Non è affatto dubitabile che le affermazioni sul conto del dott. *** – apostrofato come “indegno”, accusato di essere “colluso con noti mafiosi e politici riciclatori di denaro sporco e mandanti di omicidi” e di avere richiesto l’archiviazione di alcune indagini “a vantaggio del potere criminoso mafioso-politico-giudiziario” per riconoscenza nei confronti del Senatore ************, asserito comproprietario dell’Istituto di Credito alle cui dipendenze lavorava la moglie dell’attore – contenute nella missiva-esposto per cui è causa siano gravemente lesive dell’onore e della reputazione dello stesso, sia come uomo che quale magistrato inquirente, risolvendosi esse, all’evidenza, nell’addebito di gravi reati e nella negazione in nuce dell’essenza della delicata funzione giudiziaria svolta dall’attore.
Al fine di vagliare l’illegittimità delle riferite affermazioni lesive contenute negli esposti alle Autorità, deve tuttavia rammentarsi che secondo l’insegnamento costante della Suprema Corte di Cassazione “la denuncia di un reato perseguibile d’ufficio non è fonte di responsabilità per danni del denunciante, ai sensi dell’art. 2043 c.c., anche in caso di proscioglimento o di assoluzione dell’imputato, se non quando essa possa considerasi calunniosa. Al di fuori di tale ipotesi infatti l’attività pubblicistica dell’organo titolare dell’azione penale si sovrappone all’iniziativa del denunciante, togliendole ogni effetto causale e così interrompendo il nesso causale tra tale iniziativa ed il danno eventualmente subito dal denunciato. Questa parziale impunità, o meglio questa deroga al principio generale della sufficienza, ai fini della responsabilità aquiliana, della sola colpa, viene in modo più convincente spiegato dalla dottrina con la considerazione che l’iniziativa del privato assolve alla funzione, socialmente utile, di attivare la risposta della giustizia dinanzi all’infrazione di una norma penale; ond’è che la minaccia di una responsabilità fondata sulla colpa avrebbe l’effetto di scoraggiare le denunce, privando l’istituto stesso di significato sul piano pratico, essendo normalmente prevedibile una disparità di valutazione giuridiche tra il denunciante, anche il più esperto, e gli organi istituzionalmente deputati al vaglio della fondatezza della notitia criminis…L’iniziativa del privato cittadino è insomma oggetto di una valutazione largamente positiva da parte dell’ordinamento, giacché coincide con l’interesse pubblico alla repressione dei reati, sicché l’esposizione ad una responsabilità civile per sola colpa, per quanto grave questa possa essere, renderebbe troppo rischiosa, e finirebbe di fatto con l’impedire, ogni collaborazione del cittadino con lo Stato. E’ perfettamente logico, quindi, che nella comparazione degli interessi, quella valutazione positiva venga meno solo in presenza di interventi privati deliberatamente dannosi, ossia quando il privato faccia ricorso ai pubblici poteri in materia strumentale e distorta, incolpando “di un reato taluno che egli sa innocente” e così incorrendo nel delitto di calunnia” (Cass. Civ., Sez. III, 20.10.2003, n. 15646; nonché ex multis: Cass. Civ., Sez. III, 24.03.2000,n. 3536; Cass. Civ.,Sez. III, 04.02.1992, n. 1147).
Non può, in altri termini, ravvisarsi nella narrazione dei fatti all’Autorità Giudiziaria il delitto di diffamazione, poiché ogni denuncia, concretando una notitia criminis, si sostanzia nell’attribuzione a taluno di un reato e non sarebbe logicamente e giuridicamente possibile esercitare la relativa facoltà (dovere per i pubblici dipendenti) senza incolpare taluno di una qualsiasi condotta obiettivamente disonorevole e offensiva della sua reputazione.
Laddove, dunque, non sia integrato il delitto di calunnia, non v’è spazio residuo per la diffamazione, a pena di un’irragionevole compressione del diritto, riconosciuto e tutelato dall’ordinamento giuridico positivo, alla denunzia di fatti ritenuti in buona fede penalmente rilevanti, *** che il denunziante utilizzi espressioni offensive esorbitanti dalla stretta necessità di denunciare un reato o non attinenti alla materia della denuncia o comunque superflue ai fini di una migliore illustrazione dei fatti denunziati (Cass. Civ., Sez. III, 20.10.2003, n. 15646).
Nel caso di specie sussiste la responsabilità del convenuto, poiché, anche a prescindere dall’evidente gratuita eccessività dei toni, il contenuto delle  denunzie per cui è causa integra il delitto di calunnia.
In tale senso devono valorizzarsi le risultanze emergenti dalla sentenza penale di primo grado del Tribunale Penale di Caltanisetta in atti, con cui il *** è stato condannato ad anni 3 di reclusione per calunnia continuata ed aggravata in danno dell’attore e del dott. ****** (all’epoca dei fatti G.I.P. presso il Tribunale di Marsala).
Ivi si evidenzia sul piano oggettivo del reato come dalle indagini penali originate dalle denunzie (tra cui quella per cui è causa) sporte dal *** non sia emerso il benché minimo indizio in ordine ai gravi fatti delittuosi addebitati al dott. *** (“l’accusa rivolta al dott. *** di avere insabbiato procedimenti a carico di esponenti mafiosi e politici si è rivelata totalmente infondata in quanto si è dimostrato che le indagini svolte in merito agli esposti già presentati dal *** non avevano portato ad alcun risultato concreto. Gli esposti, insomma, si erano limitati a prospettare apodittici atti d’accusa cui nessun riscontro era stato portato dal denunziante, né era stato possibile rivelare nei fatti”), ed appare opportuno sottolineare come siffatta totale assenza di riscontri da parte del denunziante alle sue gravissime accuse abbia caratterizzato non solo il processo penale, ma anche il presente processo civile.
Sul piano soggettivo del reato, poi, la consapevolezza di accusare delle persone innocenti (tra cui, per quanto qui rileva, il dott. ***) emerge lampante laddove si rifletta “…che il ***, architetto, si mostrava, a detta di tutti, persona lucida e pienamente consapevole dei propri gesti e delle proprie parole. D’altra parte è tale la portata infamante delle accuse formulate e la totale mancanza di indicazione di un qualsiasi elemento da porsi a sostengo di esse che non può non ritenersi che un soggetto di buona cultura ed intelligenza non fosse consapevole dell’innocenza degli accusati. Ciò in particolare si ritiene a maggiore ragione per tutte le accuse mosse post mortem al dott. **********”.
Quanto, invece, alle condotte di diffamazione a mezzo stampa (la pubblicazione della denunzia sul giornale ed il volantinaggio: per tale ultima tipologia di condotta confronta Cass. Civ., Sez. III, 05.06.2007, n. 13089), è d’uopo osservare che il convenuto non si è difeso invocando l’esimente del diritto di cronaca ovvero del diritto di critica, ma semplicemente affermando l’insussistenza di un danno derivante dalla sue condotte, sull’assunto che l’opinione pubblica locale sarebbe stata avvezza alle sue crociate moralizzatrici e che gli organi istituzionali cui era pervenuta la sua denunzia sono naturalmente deputati alla verifica della sussistenza di fatti quali quelli addebitati all’attore.
Riservato al prosieguo l’esame di tali eccezioni (rectius, mere difese), deve essere previamente esaminato d’ufficio (in quanto concretante eccezione non rimessa all’iniziativa esclusiva della parte) il diverso profilo della eventuale sussistenza della detta causa di giustificazione.
Essa non può essere ravvisata.
Non può non rilevarsi, in primo luogo e quanto all’esercizio del diritto di cronaca, precipitato logico-giuridico del diritto di informare e di essere informati sussumibile nello spazio di libertà di cui all’art. 21 della Costituzione, che esso si attaglia all’attività giornalistica che fornisce “notizie” d’interesse sociale alla pubblica opinione, non certo all’espressione di mere opinioni ed apodittici convincimenti di singoli cittadini che decidano di utilizzare il mezzo della stampa a mo’ di cassa di risonanza degli stessi (argumenta ex Cass. Pen., Sez. V,23.02.2000,n. 2144, a proposito delle dichiarazioni di chi è intervistato da un giornalista cui spetterebbe, se del caso, l’esercizio del diritto di critica).
Quand’anche non si volesse condividere il superiore assunto, ritenendo per contro che il diritto di cronaca valga anche per il quivis de populo che si improvvisi “giornalista di fatto” (in tale senso Cass. Civ., Sez. III, 15.12.2004, n. 23366), non potrebbe comunque, nel caso di specie, ritenersi sussistente la scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca e neanche quella del diritto di critica (che, quali fatti impeditivi ex art. 2697 c.c., grava sul convenuto provare).
E’ noto che la elaborazione giurisprudenziale ha individuato i limiti interni al diritto di cronaca e di critica – diritti scriminanti ex art. 51 c.p. – nella verità del fatto, nell’interesse pubblico della notizia e nella continenza formale della stessa (ex multis: Cass. Civ., Sez. III, 31.03.2006, n. 7605; Cass, Civ., Sez. III, 11.01.2005, n. 379; Cass. Civ., Sez. III, 23.05.2001, n. 7025; Cass. Pen. Sez. I, 12.01.1996, n. 2210), con delle differenze, però, in punto di estensione dei detti limiti.
Nel caso del diritto di critica, in primo luogo, il connaturale elemento “valutativo” sotteso allo stesso diritto ed ulteriore rispetto all’elemento “informativo” presuppone un adattamento del limite della verità, che non può che riguardare esclusivamente il dato storico-fattuale su cui s’innesta la critica, esulando per contro dal momento prettamente soggettivo dell’espressione dell’opinione attinente al mondo dell’idee, e per ciò solo non predicabile in termini di falsità o verità, categorie euristiche, cui, in un moderno e laico ordinamento democratico, possono rigorosamente ricondursi esclusivamente i fatti e non già i giudizi.
In secondo luogo, la natura valutativa e soggettiva del diritto di critica impone di considerare con minor rigore anche il limite della continenza, il che consente di ritenere legittimi anche toni più pungenti ed aspri, purché essi non trasmodino nell’attacco personale e nella pura contumelia.
La maggiore ampiezza dell’ambito operativo del diritto di critica rispetto al diritto di cronaca si spiega tenendo presente che la prima non è solo, come la seconda, diretta emanazione del costituzionale diritto ad informare e ad essere informati, ma è anche filiazione immediata di un altro diritto costituzionalmente garantito, quello alla libera manifestazione del pensiero, la cui estrinsecazione è vista dall’ordinamento come un bene da promuovere nell’interesse della crescita spirituale del singolo, democratica dello Stato e culturale dell’intera comunità.
Ferma dunque la ritenuta diversità di estensione dei limiti del diritto di critica e di cronaca, basta che manchi anche uno solo di essi perché il diritto venga meno, la scriminante non operi, ed il fatto assuma (o conservi, a seconda della ricostruzione dogmatica dell’istituto della causa di giustificazione alla stregua della teoria bipartita o tripartita del reato) i caratteri dell’illiceità giuridica penale e civile (salva, in punto di verità del fatto, la ravvisabilità in capo al giornalista della scriminante putativa ex art. 59, comma I, c.p., allorquando abbia assolto l’onere di controllare accuratamente la notizia risalendo alla fonte originaria, senza che l’errore circa la verità sia frutto di negligenza, imperizia o comunque colpa non scusabile).
Alla luce di tali considerazioni deve concludersi che nel caso di specie non ricorre la detta esimente – sia che la si qualifichi come esercizio del diritto di cronaca, sia che la si qualifichi come esercizio del diritto di critica – per difetto dei requisiti della verità dei fatti e della continenza.
Il nucleo centrale dei gravi fatti storici addebitati all’attore (insabbiamento di un’inchiesta per riconoscenza verso un politico asseritamente mafioso) ed il cui onere della prova nel presente giudizio ricadeva peraltro sul convenuto, può, infatti, ritenersi del tutto smentito alla luce delle considerazioni sopra svolte in punto di configurabilità del delitto di calunnia.
Tanto basterebbe all’evidenza per escludere la ricorrenza dell’esimente dell’esercizio del diritto di critica o di cronaca, ma è d’uopo osservare che nemmeno può ritenersi ricorrere il requisito della continenza, inteso come correttezza formale dell’esposizione, posto che dalla missiva sopra detta emerge un nitido e consapevole attacco ad hominem, alla sfera morale del dott. ***, attacco che traligna in obiettiva ed aggressiva denigrazione dello stesso e del suo ruolo di magistrato (cfr. Cass. Civ., Sez. III, 27.06.2006, n. 14774; nonchè Cass. Pen., Sez. Fer. 08.08.2006, n. 29453 e Cass. Pen. Sez. V, 01.07.2005, n. 29509, secondo cui non sussiste l’esimente del diritto di critica allorché si accusi un magistrato del P.M. di svolgere indagini politiche, in quanto tale espressione, evocando l’intento di favorire una determinata forza politica a scapito di altre assume portata offensiva, risolvendosi un attacco alla sfera morale della persona; ed ancora Cass. Pen., Sez. I, 18.09.2000, n. 11221; Cass. Pen., Sez. V., 04.12.1998, n. 298, ove si è esclusa la ricorrenza della continenza in ipotesi di accuse ad un magistrato del P.M. di strumentalizzazione della funzione pubblica al conseguimento di finalità divergenti da quelle che devono guidare il suo operato).
Deve ritenersi, pertanto, inesistente l’esimente in parola, con conseguente integrazione in capo al *** dei reati di diffamazione a mezzo stampa e calunnia, nonchè del fatto illecito ex artt. 2043 e 2059 c.c., in aperta violazione del diritto all’onore ed alla reputazione dell’attore.
Una precisazione, dal punto di vista dell’inquadramento dogmatico, a questo punto si impone.
Non è davvero questa la sede per ripercorrere analiticamente il lungo ed ormai noto percorso giurisprudenziale degli ultimi anni in tema di risarcibilità dei danni non patrimoniali, se non per evidenziare alcuni dei principali punti di approdo, ormai condivisi e costituenti ius receputm della giurisprudenza di legittimità (Cass. Civ., Sez. III, 31.5.2003, nn. 8827, 8828; Corte Costituzionale 11.7.2003, n. 233; Cass. Civ., Sez. III, 21 ottobre 2005, n. 20355; Cass. Civ., Sez. III, 20.10.2005, n. 20343; Cass. Civ., Sez. III, 20.10.2005, n. 20323; Cass. Civ., Sez. III, 19 ottobre 2005, n. 20205; Cass. Civ., Sez. I, 15 gennaio 2005, n. 729; Cass. Civ., SS.UU., 24.03.2006, n. 6572; Cass. Civ., Sez. III, 12.6.2006, n. 13546; Cass. Civ., Sez. II, 06.02.2007, n. 2546): 1) il danno morale, inteso quale turbamento transeunte dell’animo, non esaurisce la categoria dei pregiudizi risarcibili ex art. 2059 c.c.; 2) rientra nella nozione di danno non patrimoniale anche quello biologico inteso come lesione dell’integrità psicofisica; 3) devono essere risarciti ex art. 2059 c.c. tutti i danni non patrimoniali conseguenti a lesione di interessi della persona costituzionalmente garantiti, ivi compreso quello morale, a prescindere dall’integrazione di una fattispecie di reato.
Più discussa, in dottrina ed in giurisprudenza, è la questione della configurabilità o meno dell’autonoma figura del danno esistenziale e della sua sovrapponibilità al c.d. “danno da lesione di interessi della persona costituzionalmente garantiti”.
Al riguardo, dopo un iniziale atteggiamento scettico della Suprema Corte che aveva evidenziato l’inutilità e la “pericolosità” dogmatica di tale voce di danno in presenza dell’ormai riconosciuta risarcibilità dei danni non patrimoniali da lesione di interessi costituzionalmente garantiti (tanto incidentalmente quanto drasticamente Cass. Civ., Sez. III, 29.07.2004, n. 14488 ed ex professo Cass. Civ., Sez. III, 15.07.2005, n. 15022), si registrano importanti arresti dello stesso giudice di legittimità nel senso della autonoma configurabilità del danno esistenziale, inteso come “ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore ma oggettivamente accertabile) che alteri le abitudini e gli assetti relazionali propri del soggetto, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno” (Cass. Civ., Sez. II, 06.02.2007, n. 2546; Cass. Civ., Sez. III, 02.02.2007, n. 2311 e soprattutto Cass. Civ., Sez. III, 12.06.2006, n. 13546; Cass. Civ. SS.UU., 24.3.2006, n. 6572).
Questo giudice si è già pronunciato nel senso di aderire a tale ultimo indirizzo, in considerazione del rilievo che la (necessaria ex art. 2059 c.c.) lesione dell’interesse costituzionalmente garantito si situa a monte sul piano dell’antigiuridicità e non integra di per sé il (logicamente) successivo danno conseguenza da risarcire, posto a valle della condotta contra ius.
Tale ricostruzione – nella misura in cui riconosce il danno non patrimoniale (diverso dal morale) solo se derivi da una lesione di diritti costituzionalmente garantiti e consista in alterazioni permanenti dello stile di vita – viene incontro all’esigenza di non proliferazione delle voci risarcibili con conseguente attenuazione del paventato (dai detrattori del danno esistenziale) rischio di iniusta locupletatio del danneggiato.
Essa, soprattutto, risponde all’esigenza di risistemazione dogmatica ed allineamento dell’intera area dell’illecito aquiliano al noto schema del danno conseguenza, a discapito delle figure del danno evento nate con la storica pronunzia n. 186 del 1984 della Corte Costituzionale, che – al fine di superare le strette maglie della risarcibilità del danno non patrimoniale imposte dalla ormai superata lettura dell’art. 2059 c.c.. – qualificava il danno biologico come patrimoniale ed in re ipsa.
Ne conseguirebbe, alla stregua di tale indirizzo, che il genus del danno non patrimoniale ricomprende: 1)il danno morale inteso come patema d’animo transeunte risarcibile nei casi previsti dalla legge, e quindi in presenza di reato ovvero anche a prescindere da esso in caso di lesione di diritti della persona costituzionalmente garantiti; 2) il danno biologico inteso come lesione dell’integrità psico-fisica tutelata dall’art. 32 della Costituzione; 3) il danno esistenziale per come sopra delineato (ovverosia una permanente alterazione delle abitudini e degli interessi relazionali), laddove arrecato in violazione di diritti della persona costituzionalmente garantiti.
Rimarrebbero fuori da questa ricostruzione solo le lesioni di diritti costituzionalmente garantiti che non assurgono a danno esistenziale, nella misura in cui determinano “solo” un’alterazione non permanente delle abitudini e degli interessi relazionali del danneggiato.
La questione merita di essere parzialmente rimeditata nei termini e per le ragioni che dappresso si espongono.
L’esposta ricostruzione, a ben vedere, potrebbe portare, in nome di una ricercata sistematicità dogmatica, ad escludere la risarcibilità di danni sino ad ora pacificamente riconosciuti, quali quelli subiti in conseguenza della lesione dell’onore e della reputazione, laddove non sussistano gli estremi del danno morale ovvero del danno esistenziale per come sopra configurato.
E soprattutto, portata alle sue logiche conseguenze, finirebbe nelle stesse ipotesi testé cennate con l’escludere la risarcibilità del danno biologico, che, oramai spogliato del suo riflesso patrimoniale ed inteso quale lesione della integrità psico-fisica, null’altro è se non la violazione di un diritto  fondamentale della persona, quello alla salute, costituzionalmente garantito.
Anche per la lesione del diritto alla salute, infatti, al pari della lesione del diritto all’onore ed alla reputazione, trattandosi di beni dal nucleo altamente immateriale, è difficile tracciare una nitida demarcazione tra l’evento lesivo ed il danno conseguenza.
Non è un caso che essi siano stati riconosciuti sin dall’inizio come danni in re ipsa risarcibili ex art. 2043 c.c., alla stregua di una nozione di patrimonio allargata e ricomprensiva anche dei valori fondamentali della persona.
Il tentativo di riallineamento dogmatico del danno non patrimoniale allo schema del danno conseguenza anima, per vero, la giurisprudenza di legittimità da diversi anni (si veda in tema di danno da lesione del rapporto parentale Cass. Civ., Sez. III, 15.07.2005, n. 15022, nonché Cass. Civ., Sez. III, 12.06.2006, n. 13546; nonché, con riferimento al diverso piano del danno patrimoniale da occupazione sine titulo di immobile, le lucide considerazioni di Cass. Civ., Sez. III, 11.01.2005, n. 378).
Emblematica, da questo punto di vista, è la pronunzia della Suprema Corte, Sezione III, n. 4881 del 03.04.2001, in materia di lesione della reputazione personale per illegittima levata di protesto, ove la Corte provò a specificare la portata della tralaticia affermazione secondo cui in tale ipotesi il danno sarebbe in re ipsa :”Si intende solo dire che provata la lesione della reputazione personale, ciò comporta la prova anche della riduzione o della perdita del relativo valore. In altri termini non si contesta la distinzione ontologica tra lesione del valore e conseguenziale perdita o diminuzione della stessa, ma solo che provata la prima risulta provata anche la seconda. Trattasi, cioè di una formula sintetica per quanto dogmaticamente probabilmente inesatta, molto simile a quella che, soprattutto in passato, si è adottata in materia penale in tema di dolus in re ipsa per alcune specie di reato (soprattutto in tema di falso). Per quanto anche lì l’espressione non fosse dogmaticamente esatta e fu, sotto questo profilo, oggetto di accese critiche, in effetti non si voleva con essa significare che l’elemento soggettivo doloso scomparisse nella sola esistenza del fatto cosciente e volontario, ma che, provato questo, risultava provato anche il dolo, pur rimanendo lo stesso ontologicamente differente, giusto quanto previsto dall’art. 43 c.p., dalla mera coscienza e volontarietà del fatto”.
Lesione del valore reputazione e diminuzione (o perdita) di tale valore, in altri termini, secondo la Corte sono ontologicamente e concettualmente distinti, anche se la prova della prima comporta la prova della seconda.
Vi è, tuttavia, da chiedersi (ed in dottrina ci si è chiesti) se davvero si possa distinguere la lesione di un valore dalla diminuzione o perdita dello stesso, se vi possa essere cioè lesione di un valore immateriale che non passi per la sua deminutio o perdita.
Che la questione non sia di facile risoluzione lo dimostra la recente pronuncia della terza Sezione della Corte di Cassazione n. 12929 del 04.06.2007, che, in materia di risarcibilità del danno non patrimoniale da lesione delle immagine delle persone giuridiche, torna ad occuparsi ex professo dell’argomento.
Quivi la Corte, mostrando di avvertire l’esigenza di meglio tracciare la linea di demarcazione tra diritto costituzionalmente garantito a monte e danno non patrimoniale a valle, così si esprime: “Ancora una volta va rifiutata la logica della identificazione del danno nella stessa lesione della situazione dell’ente collettivo riconducibile nel senso indicato ad una situazione che evidenzi un interesse costituzionalmente tutelato. Deve, cioè, respingersi l’individuazione del danno nel c.d. danno evento rappresentato dal fatto in sé della stessa lesione. Va condivisa, invece, l’idea che anche in questo caso il danno si debba identificare sempre in un danno conseguenza, cioè in accadimento ricollegantesi alla lesione della situazione protetta sulla base di un nesso di causalità”.
Tale danno, nel caso specifico di lesione dell’immagine della persona giuridica per indebita segnalazione alla centrale rischi, viene dalla Corte individuato: a) nella “diminuzione della considerazione che attraverso i suoi organi è riferibile alla persona giuridica”, concretantesi “in una incidenza negativa sull’agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi della persona giuridica o dell’ente collettivo” (nella misura in cui le dette persone fisiche hanno “la consapevolezza di dover agire per superare la negatività espressa da tale lesione”, ovvero “un pensiero in più nel prestare” la loro opera, con conseguenti ricadute in termini di efficacia ed “obiettivo mutamento delle condizioni dell’agire”; b) nella “diminuita reputazione dell’ente presso i consociati o presso una certa platea di consociati”, diminuita reputazione, quindi, distinta dalla lesione a monte dell’immagine dell’Ente.
Prosegue in via esplicativa la Cassazione: “questa situazione integra l’evento lesivo perché ha rilievo ai fini dell’immagine dell’ente presso la platea di soggetti che accede o può accedere a tale banca, la quale è funzionale a fornire l’immagine nel circuito bancario dei soggetti che ricorrono o vogliono ricorrere al credito in punto di esposizione debitoria e solvibilità. L’immagine dell’ente sotto tale profilo, una volta avvenuta la segnalazione… non è più la stessa di prima dell’inserimento, in quanto, successivamente ad esso, essa risulta astrattamente percepibile con la nota negativa derivante dalla indicazione di una situazione di c.d. sofferenza. Il danno conseguenza è rappresentato, invece, dalla effettiva percepibilità che quella platea ha della segnalazione ed ha natura di conseguenza della lesione perché rappresenta il risultato dell’inserimento nella banca dati”.
Consapevole della labilità della distinzione in parola tra evento lesivo e danno conseguenza, il Supremo Collegio si premura, poi, di aggiungere: “Queste precisazioni possono sembrare un mero artificio, ma basta un esempio per escluderlo: si pensi ad una segnalazione che pervenga alla Centrale alla fine di un giorno lavorativo e venga materialmente inserita alla fine dell’ultimo giorno lavorativo del sistema bancario, di modo che sia fruibile soltanto il successivo primo giorno della settimana successiva. Il danno evento appare verificato con l’inserimento, ma il danno-conseguenza si verifica quando inizia la settimana lavorativa e la platea dei soggetti che possono accedere alla Centrale Rischi può farlo”.
La motivazione e l’esempio portato dalla Corte, per vero, appaiono solo parzialmente in linea e scontano un’incongruenza tra il passaggio ad un novuum argomentativo e la riconferma delle linee guida tracciate nella citata pronunzia del 2001.
Sul primo versante e dall’angolo visuale della sfera propria della persona giuridica,la Cassazione evidenzia che la lesione del diritto all’immagine (ma parimenti può dirsi con riferimento alla persona fisica in relazione ai diritti all’onore ed alla reputazione) comporta quale distinto danno conseguenza un diverso atteggiarsi degli organi persone fisiche dell’ente collettivo.
Sul secondo versante e dall’angolo visuale esterno della platea dei consociati, per contro, la Cassazione torna a ribadire che la lesione del diritto all’immagine comporta, quale distinta conseguenza, una diminuzione del valore della reputazione presso la collettività.
Assistiamo, dunque, ad una poco chiara scissione dell’identificazione del danno conseguenza che per ciò che attiene alla sfera propria della persona (fisica o giuridica) è dato da un diverso agere del danneggiato, e per ciò che attiene all’aspetto esterno della percezione dei consociati è dato pur sempre dalla diminuzione del valore reputazione.
L’esempio addotto dalla Corte, proprio perché incentrato solo sull’aspetto esterno della lesione della reputazione asseritamente cagionante una ontologica e diversa diminuzione del valore persona, fa insorgere dei seri dubbi di congruenza logica con l’impianto motivazionale riguardante il primo versante argomentativo sopra evidenziato (quello del diverso agere della persona danneggiata)
Vi è da chiedersi, peraltro, se davvero, una volta iscritto un soggetto alla Centrale dei Rischi il venerdì pomeriggio ed in orario di chiusura, senza che altri abbiano avuto contezza di tale iscrizione, possa dirsi lesa la sua reputazione, ovvero se tale lesione non debba farsi coincidere con la sua conoscenza il lunedì mattina da parte dei soggetti che hanno accesso alla banca dati.
Opinando nel primo senso e mutatis mutandis, dovrebbe infatti ritenersi che la lesione dell’onore e della reputazione di una persona fisica sia già integrata con la redazione di una missiva offensiva che giaccia in un cassetto, senza che nessun altro, al di fuori del redattore, l’abbia letta.
Apparirebbe più lineare, forse, portare alle dovute conseguenze il novuum argomentativo della Corte, ritenendo che anche “all’esterno” la lesione della reputazione possa comportare altro che la sua diminuzione, ovverosia un diverso agere e relazionarsi tra loro della collettività e della persona che ha visto lesi il suo onore e la sua reputazione.
Pare di potere affermare, a questa stregua, che in caso di lesione dell’onore e della reputazione può registrarsi un diverso sentire del danneggiato che, se comporta sofferenza o disagio, darà luogo al danno morale (altrimenti restando relegato alla sfera del non risarcibile), ovvero un diverso atteggiarsi tanto del danneggiato quanto della collettività.
È del resto, a ben vedere, la stessa Corte di Cassazione che, nello specificare l’essenzadel danno non patrimoniale in ipotesi di perdita di un congiunto cagionata in violazione del diritto costituzionalmente garantito alla esplicazione degli affetti familiari, fa riferimento “all’alterazione del modo di relazionarsi del soggetto sia all’interno del nucleo familiare che all’esterno di esso nell’ambito dei comuni rapporti della vita di relazione” (Cassazione civile, sez. III, 12 giugno 2006, n. 13546;. Cass. Civ., Sez. III, 31.05.2003, nn. 8827 e 8828), così mostrando di ravvisare il danno sul piano del diverso agire e relazionarsi del danneggiato all’interno ed all’esterno del nucleo familiare.
Percorrendo tale via, in definitiva, sembra sostanzialmente pervenirsi al risultato prospettato da quella dottrina che configura il danno esistenziale come ogni alterazione coatta e contra ius dell’agere del soggetto, anche a prescindere da una mofidicazione permanente delle sue abitudini di vita e delle sue scelte relazionali (non lontani, parrebbe, dal c.d. danno alla vita di relazione, da sempre componente del danno biologico).
Né, ovviamente, a questo punto importa che il danno in questione venga definito esistenziale o da violazione di diritto costituzionalmente garantito od alla vita di relazione, laddove siano chiari i presupposti cui è ancorata la sua ricorrenza.
Vale la pena di osservare, poi, che non può essere il timore di dovere fronteggiare la liquidazione di danni bagatellari a far dubitare della bontà della operata ricostruzione, poiché sarà compito del giudice chiamato a decidere il caso concreto verificare se la lesione dell’interesse della persona costituzionalmente garantito abbia causato una apprezzabile sofferenza (danno morale), ovvero un apprezzabile agere diverso (danno esistenziale o da lesione di un diritto costituzionalmente garantito od alla vita di relazione).
Siffatta ricostruzione, dunque, da una parte consente la reductio ad unitatem del sistema risarcitorio aquiliano sullo schema del danno conseguenza, dall’altra impone il riconoscimento dei danni non patrimoniali derivati dalla lesione di interessi costituzionalmente garantiti, nel rispetto della tipicità del danno ex art. 2059 c.c. (in quanto risarcibile nei soli casi previsti dalla legge), anche allorquando essi non assumano la portata di alterare permanentemente gli assetti relazionali e le abitudini di un soggetto inducendolo a scelte di vita differenti.
Non va celato, peraltro, che anche tale impianto logico-argomentativo non è esente da possibili critiche.
Il suo ubi consistam, con riferimento allo specifico danno da lesione dell’onore e della reputazione è dato, come detto, dalla distinzione tra la lesione dei diritti costituzionalmente garantiti ed il diverso e conseguente agere del soggetto danneggiato e di coloro che al medesimo si relazionano.
Ma anche qui potrebbe obiettarsi che, laddove non vi sia un’alterazione comportamentale del soggetto e dei consociati che con lo stesso si relazionano (fermo il diritto al risarcimento del danno morale per l’eventuale sofferenza comunque patita), a ben vedere una lesione dell’onore e della reputazione, intesi come minore considerazione del soggetto, presumibilmente non sussiste.
Si tornerebbe, così, al punto di partenza della coincidenza tra lesione dell’onore e della reputazione e deminutio del valore persona, lesione e deminutio che secondo la citata Cass. Sez. Civ., Sezione III, n. 4881 del 03.04.2001, sono in realtà in rapporto di conseguenza.
Dovrebbe prendersi atto, allora, che la lesione di interessi di natura immateriale, proprio per la loro impalpabilità ed alienità rispetto alle logiche patrimoniali, si atteggia diversamente rispetto al danno conseguenza di cui all’art. 2043 c.c. che incide sulla sfera dell’avere del soggetto.
Quale che sia la tesi prescelta, vi è di certo che non può giungersi alla paradossale conseguenza di misconoscere il diritto al risarcimento in ipotesi di diritti fondamentali della persona tutelati dalla Costituzione, sol perché essi sono stati trasposti, per effetto di un (per molti versi apprezzabile e dovuto) revirement giurisprudenziale, nello schema di cui all’art. 2059 c.c..
Come è certo che l’apertura a tali danni non patrimoniali non deve dare la stura ad indebite locupletazioni per il tramite della duplicazione delle poste risarcitorie (cfr. Cass. Civ., Sez. III, 20.04.2007, n. 9510, ove, preso atto che il giudice di merito aveva liquidato a titolo di danno biologico “i pregiudizi all’integrità fisica del soggetto considerato in tutte le situazioni e i rapporti di esplicazione della persona ed in tutti i suoi aspetti, tra i quali quelli dell’attività produttiva, come quello delle altre attività, nonché quello della vita sociale, affettiva, spirituale”, si è negato il riconoscimento di un ulteriore danno esistenziale).
Alla luce delle considerazioni giuridiche che precedono e tornando al caso di specie, deve sicuramente riconoscersi in capo all’attore come “conseguente” alle descritte condotte contra ius del convenuto – oltre che un danno morale (patema d’animo) derivante dai reati di diffamazione a mezzo stampa e calunnia e dalla lesione dei diritti costituzionalmente garantiti all’onore ed alla reputazione – un grave danno non patrimoniale per lesione dei medesimi diritti tutelati ex art. 2 e 3 della Carta Fondamentale.
Gli indici presuntivi dell’esistenza di tali danni non patrimoniali fungono anche da anche indici di commisurazione della loro entità, e possono essere individuati come segue.
Il primo può rinvenirsi nella riferita gravità intrinseca delle accuse in relazione alla tipologia di reati ascritti al dott. *** ed alla sua delicata funzione di Pubblico Ministero, il cui asservimento alle Istituzioni è stato inopinatamente negato in radice.
Il secondo nella quasi scientifica, reiterata e capillare attività di diffusione delle dichiarazioni diffamanti e calunniose posta in essere dal convenuto: esposto al C.S.M., alla Presidenza della Repubblica, al Procuratore ******** presso la Corte di Appello di Palermo, volantinaggio nel centro cittadino di Marsala, diffusione su un quotidiano locale (“*** ***”) e tentativo dell’***, fallito per cause indipendenti dalla sua volontà, di diffondere anche via radio il testo della sua denunzia (cfr. dichiarazioni del teste Pellegrino).
Il terzo (connesso al precedente) è dato dal “bacino di utenza” delle esternazioni per cui è causa, di natura essenzialmente locale, fatta eccezione per gli esposti indirizzati ai cennati referenti istituzionali.
Il quarto è dato dal notorio contesto spazio-temporale in cui i fatti si sono svolti.
L’accusa di essere colluso con la mafia, infatti, è stata rivolta ad un Sostituto che operava in una Procura, quella di Marsala (in quegli anni guidata dal dott. **********), che fronteggiava, al pari di molte Procure della Sicilia, non senza tributi di sangue e sotto gli occhi atterriti dell’attenzione pubblica locale e nazionale, una mafia cruenta ed omicida.
Il convenuto, dal canto suo, ha eccepito che nessun danno morale può essersi verificato, tanto (sul versante della diffamazione a mezzo stampa) in ragione della circostanza che l’opinione pubblica locale sarebbe stata ormai avvezza alle sue iniziative di denunzia ed “assolutamente indifferente” alle stesse a causa della sua attività ultradecennale di “paladino della giustizia”, quanto (sul versante della calunnia) in ragione del fatto che le Autorità cui era stato inviato l’esposto sarebbero naturaliter deputate alla verifica di fatti come quelli denunziati, per ciò solo, è da intendersi, non facilmente “impressionabili” da qualsivoglia genere di accusa fino al loro riscontro.
Di qui, nell’argomentazione difensiva del convenuto, la non lesione dell’onore e della reputazione del dott. *** e l’assenza di danno morale in capo allo stesso.
Entrambe le eccezioni sono infondate.
Quanto alla prima, deve innanzitutto rilevarsi che non è stato dedotto e provato nel presente giudizio quante e quali siano state le asserite e similari iniziative pubbliche dell’***, né quale fosse il grado e la tipologia di reazione dell’opinione pubblica alle sue sortite.
Non può non osservarsi, infatti, che, astrattamente, a fronte di plurime campagne asseritamente moralizzatrici del malcostume politico-giudiziario poste in essere da un medesimo soggetto, l’opinione pubblica può mostrare maggiore attenzione di quanta non ne presterebbe di fronte alla denunzia isolata di un qualsiasi cittadino privo dell’auto od etero-investitura di “paladino della giustizia”.
Del resto la stessa scelta del quotidiano “*** ***” di pubblicare la denunzia del *** fa ritenere che all’epoca dei fatti di certo non vi fosse affatto una “indifferenza assoluta” nei confronti delle sue esternazioni.
Nello stesso senso, infine, depone il tenore del preambolo dell’anonimo articolista, laddove si legge: “L’ *** ***, un professionista marsalese salito più volte agli onori della cronaca per le sue denunce contro il malaffare politico (non tutte, però, hanno avuto un seguito) stavolta alza il tiro”.
Quanto alla seconda tesi del convenuto, è agevole osservare, in primo luogo, che le sue condotte hanno riguardato non solo le denunzie all’Autorità, ma anche il volantinaggio e la diffamazione a mezzo di un quotidiano locale.
Essa, poi, comunque prova troppo, perché così opinando si finirebbe irragionevolmente – e contro le argomentazioni sopra svolte in punto di scriminante del diritto di denunzia – per escludere la lesione dell’onore o della reputazione anche in ipotesi di   calunnia o comunque di denunzia gratutitamente diffamatoria.
Valutati tutti gli indici di cui sopra e tenuto conto della parziale riparazione del danno a mezzo della pubblicazione della presente sentenza di cui immediatamente appresso si dirà, ritiene questo giudice che sia equa la liquidazione dei danni non patrimoniali (morale e da lesione dei diritti costituzionalmente garantiti all’onore ed alla reputezione) patiti dall’attore nella misura di € 80.000,00, all’attualità e ricomprensiva del danno da ritardo nella corresponsione della detta somma di denaro sino al dì della presente sentenza.
L’attore ha poi chiesto la pubblicazione di quest’ultima su più giornali locali e nazionali.
L’art. 120 c.p.c. prevede che “nei casi in cui la pubblicità della decisione di merito può contribuire a riparare il danno, il giudice, su istanza di parte, può ordinarla a cura e spese del soccombente mediante inserzione per estratto in uno o più giornali da lui designati”.
Presupposto della pubblicazione, dunque, è la sua potenzialità riparatrice, anche solo parziale, del danno subito.
Potrebbe opinarsi che, essendo i fatti per cui è causa risalenti al lontano 1992, una pubblicazione oggi sarebbe inutile o quasi, nella misura in cui l’opinione pubblica potrebbe averli dimenticati.
A ben vedere, però, partendo dalla considerazione che l’oblio collettivo nel caso di specie non è affatto scontato, in ragione della particolare gravità dei fatti, del rilievo pubblico della persona diffamata e del permanere nell’epoca attuale dell’interesse dell’opinione pubblica ai fenomeni di connivenza politico-mafiosa e corruzione giudiziaria, e ponendo mente alla chiovendiana regula iuris secondo cui la lunghezza del processo non può ritorcersi in danno della parte che ha ragione, deve convenirsi, in ragione della particolare natura dei diritti violati (all’onore ed alla reputazione) e della natura squisitamente subiettiva del danno morale arrecato, sul rilievo che “la pubblicazione…può riparare il danno…subito in qualunque momento l’intervenga: indipendentemente dalla maggiore o minore prossimità di tale forma di riparazione rispetto all’evento iniziale. Oltre tutto, pensandola diversamente, si finirebbe col premiare, nel senso di negare il rimedio de quo, il comportamento in ipotesi ostruzionistico e dilatorio del danneggiante” (Cass. Civ., Sez. III, 20.12.2001, n. 16078).
Va disposta, pertanto, la pubblicazione della sentenza mediante estratto e per una sola volta sul “Giornale di Sicilia” (e non su altri quotidiani nazionali, attesa la portata prevalentemente locale dei fatti per cui è causa), Sezione di ***/Marsala, in apposita colonna recante l’intestazione ed il dispositivo della presente sentenza con caratteri tipografici doppi rispetto a quelli normalmente adoperati dalla testata per il contenuto degli articoli di stampa, a cura e spese del soccombente entro 20 giorni dalla comunicazione della sentenza ad opera della cancelleria, *** il diritto dell’attore di procedervi autonomamente, in difetto di adempimento da parte del convenuto entro il detto termine e con diritto di ripetere le spese a carico dell’obbligato ex art. 120, II comma, c.p.c..
Le spese di lite seguono la soccombenza del convenuto e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra contraria istanza, domanda ed eccezione disattese, così decide:
         accoglie per quanto di ragione la domanda del dott. *** e, per l’effetto, condanna l’*** *** a pagare al primo la somma di € 80.000,00, a titolo di risarcimento dei danni non patrimoniali (morale e da lesione del diritto all’onore ed alla reputazione) patiti in ragione delle affermazioni calunniose e diffamatorie contenute nella missiva/esposto dell’ottobre del 1992 e di cui meglio in parte motiva;
         ordina al convenuto di procedere alla pubblicazione della sentenza per estratto ed una sola volta sul quotidiano “Giornale di Sicilia”, Sezione di ***/Marsala, in apposita colonna recante l’intestazione ed il dispositivo della presente sentenza con caratteri doppi rispetto a quelli normalmente adoperati dalla testata per il contenuto degli articoli di stampa, entro 20 giorni dalla comunicazione della sentenza a cura della cancelleria, autorizzando l’attore, in difetto di adempimento del convenuto entro il detto termine, a procedervi con diritto di ripetere le spese a carico dell’obbligato;
         condanna il convenuto alla refusione in favore dell’attore delle spese di lite, che liquida in € 4.880,00 di cui € 350,00 per spese ed € 1.610,00 per competenze, oltre iva, cpa e spese generali come per legge.
Così deciso in Marsala il 30.06.2007
                                   Il Giudice
                                   dott. ********************
                                                                                                                                            

sentenza

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento