La nascita pretoria dell’occupazione acquisitiva, come spesso accade, va ancorata ad un’attenzione maieutica della giurisprudenza che porta alla luce un contrasto di interessi, finora negletto, da comporre in maniera adeguata in modo diverso da quanto finora avvenuto (dal consenso informato alla responsabilità da contatto, anche procedimentale, dagli interessi usurai, alla fideiussione
omnibus, al pegno rotativo, dalla nullità di protezione alla tutela del consumatore come soggetto del mercato). I primi sintomi del neonato istituto cominciano a delinearsi a seguito dell’emergere di nuove posizioni, ritenute meritevoli di tutela, per divenire spesso, ma solo successivamente,
istituto normativamente disciplinato. Ciò accade allorché il legislatore, che non ha saputo prevenire il fenomeno, non rinuncia ad intervenire, dopo il riconoscimento giurisprudenziale, spesso con poca attenzione, a volte con risposte insufficienti e non sempre coerenti-si pensi ai profili giurisdizionali
-, anche perché l’ingresso in campo del legislatore in un terreno così delicato è spesso mosso o da istanze stizzose dei c.d. poteri forti, tra cui la stessa p.a., o da esigenze di evitare evidenti discrasie con indubbi aggravi economici per lo Stato.
L’occupazione del fondo privato, nata come posizione famulativa o ancillare, preordinata all’esproprio, comincia negli anni sessanta ad acquistare una sua autonomia perché consente la
realizzazione dell’opera pubblica, rinviando sine die il dovuto pagamento dell’indennità
di esproprio, in un settore di confine tra il potere pubblico di realizzare opere di pubblica utilità e la proprietà privata, riconosciuta dall’ordinamento, ma tutelata meno intensamente, specie sotto il
profilo economico, allorché la proprietà vincolata cede il passo a quella conformata.
L’attenzione giurisprudenziale al fenomeno inizia quando non è più possibile convertire il giudizio
risarcitorio in quello di opposizione alla stima, perché la p.a., realizzata l’opera pubblica, si dimentica completamente del privato e non gli corrisponde l’indennizzo previsto dall’art. 32 Cost.
Come nell’ode al dubbio, o nella favola dei vestiti nuovi dell’imperatore, c’è sempre un momento significativo che rende intollerabile la prosecuzione della precedente giurisprudenza, come soddisfacente assetto del conflitto di interessi. È quanto avvenuto nell’anno 1979 in un discusso caso di occupazione di un suolo per ampliare la via Flacca da Roma verso Formia; all’occupazione preordinata all’esproprio era seguita la perdita del fondo stesso per una fortissima mareggiata. Di fronte all’arroganza della p.a. che, dopo aver occupato il fondo sottraendolo al proprietario, invoca il principio res perit domino per sottrarsi ad ogni responsabilità, i giudici di legittimità, superando ogni apotema, assumono la funzione nomopoietica, facendo venire alla luce l’istituto dell’occupazione. Nascita non facile, perché se emerge, senza difficoltà, la dichiarazione di pubblica utilità quale fondamento sia del percorso legittimo espropriativo, sia di quello illegittimo occupativo (circostanza messa in dubbio, oggi, dal discusso art. 43, comma 1 t.u. 327/2001) incertezze e perplessità persistono – fino alle recenti sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo – se sia possibile alla p.a. realizzare un bene pubblico attraverso un illecito non solo a livello possessorio, come cercò di delineare la giurisprudenza degli anni novanta, ma anche a livello acquisitivo. Ma la p.a., con l’avallo giurisprudenziale (1992), preferì macchiarsi di illecito, pur di poter usufruire della più breve prescrizione quinquennale e realizzare opere risparmiando sul dovuto risarcimento. Anche l’infanzia dell’istituto non è stata agevole: dall’art. 3 della legge n. 458 del 1988 (generalizzato da Corte cost. 486/1991) all’art. 5-bis, introdotto all’ultimo momento in sede di conversione del d.l. 333 del 1992, nel tentativo di circoscrivere il concetto giuridico di area edificabile, e modificato dall’art. 1 comma 65 l. 549/1965 che dichiara equipollenti indennità e/o risarcimento, equipollenza dichiarata incostituzionale (Corte cost. 549/1995) e riproposta con la leggera modifica del 10% dall’art. 3 comma 65 l. 662/1996. Alle difficoltà di gestire la trasformazione dell’occupazione, da elemento propedeutico, preliminare all’esproprio, in profilo autonomo ed autosufficiente alla realizzazione dell’opera pubblica – anche se attraverso un atto illecito – si è aggiunta la frantumazione dell’istituto (come già la proprietà, le proprietà) e il passaggio dall’occupazione alle occupazioni, a secondo del tipo di suolo (agricolo, edificato, edificabile di diritto, di fatto, non agricolo ma non edificabile, destinato a parcheggio a campi di tennis etc.) su cui realizzare l’opera pubblica. Ma non bastano le difficoltà proprie, ontologiche e strutturali, del nostro istituto; esse si intrecciano con un ulteriore elemento perturbatore: il profilo di giurisdizione che accresce dubbi e perplessità nel povero privato il cui suolo è stato « concupito » dalla p.a. per la realizzazione di un’opera pubblica e che non sa se rivolgersi al giudice ordinario o a quello amministrativo. Si comincia con l’art. 34 d.lgs. 31 marzo 1998 n. 80 vissuto, come norma, solo gli ultimi due anni di fine secolo, dall’aprile 1998 al luglio del 2000, epoca in cui è entrato in vigore l’art. 7 della l. 21 luglio 2000 n. 205 che gli ha conferito piena copertura legislativa ex nunc, ampliandone la legittimazione soggettiva in quanto ha esteso la nuova giurisdizione esclusiva non solo agli atti, provvedimenti e comportamenti delle p.a., ma anche « a quelli dei soggetti alle stesse equiparati », disposizione dichiarata, pochi anni dopo, parzialmente incostituzionale, sia a livello dell’art. 34 d.lgs. n. 80/1998 (Corte cost. 281/2004), sia a livello dell’art. 7 l. 205/2000 (Corte cost. 204/2004). Giunta alla maggiore età, l’occupazione, dimostrando la sua inesauribile duttilità, non ritenendosi appagata dalla nuova normativa, compie una nuova metamorfosi dando spazio, nel 2001 (Cass. 1266/2001), accanto all’occupazione acquisitiva ad una nuova occupazione, quella usurpativa, appartenente alla giurisdizione del giudice ordinario, in quanto carente di una valida e perdurante dichiarazione di pubblica utilità dell’opera in ragione della quale è stato occupato il fondo privato, che apre, anche alla stregua dell’interpretazione offerta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nelle note sentenze (s.r.l. Belvedere alberghiera c. Governo italiano e Carbonara e Ventura c. Governo italiano) ad una tutela reipersecutoria (come avviene in Olanda) e non solo risarcitoria. Il libro di Roberto Conti si fa carico di tutti questi problemi, a cavallo fra il diritto civile, quello amministrativo, quello processuale, offrendo al contempo un’analisi critica dello stato dell’arte, alla quale contrapporre possibili chiavi di lettura alternative alle posizioni espresse dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato, avendo come stella polare l’ambito della legalità dell’istituto di matrice giurisprudenziale. Dalla lettura del testo esce chiarita e precisa l’idea dell’occupazione acquisitiva, nata, per caso, alla fine degli anni settanta, e divenuta oggi una realtà insopprimibile e non più « un’entità inafferrabile, un’ombra vana fuor che nell’aspetto » di un diritto sconosciuto (Satta).
VINCENZO CARBONE
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