Risarcimento per lite temeraria per l’avvocato che “ignora” il tentativo di mediazione

Isoni Corinne 11/11/14
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1. Introduzione – 2. Lite temeraria: art. 96 c.p.c. e la mediazione civile e commerciale ­– 3. Il mancato esperimento del tentativo di mediazione come scarsa tutela degli interessi della parte: conseguenze per l’avvocato – 4. Il primo incontro di mediazione: quali conseguenze per la parte istante e l’avvocato che non confermano la propria disponibilità a voler proseguire con la mediazione – 5. Effettività del tentativo di mediazione: la mediazione non deve essere un mero adempimento burocratico

 

1. Nonostante la crescente attenzione che, a livello nazionale, si sta ponendo nei confronti dei sistemi alternativi di risoluzione delle controversie, parte degli operatori del sistema cercano ancor’oggi di “baipassare” il tentativo di mediazione, preferendo adire direttamente il tribunale ovvero dichiarando di non voler procedere nello svolgimento effettivo della mediazione. Dunque, dopo anni dall’entrata in vigore della mediazione obbligatoria, non sempre quest’ultima viene vista come una reale opportunità di confronto tra le parti coinvolte nel conflitto, ma viene spesso affrontata come un mero adempimento burocratico da dover svolgere per rivolgersi successivamente al giudice competente. L’obiettivo del presente contributo è quello di mettere in luce le conseguenze cui si espongono le parti e i difensori delegati alla loro rappresentanza che non si presentino in mediazione ovvero che manifestino la loro volontà a non voler procedere con il tentativo di mediazione. Dunque, partendo dall’analisi dell’art. 96 c.p.c., ci si prefigge di evidenziare, attraverso una rassegna delle più recenti pronunce giurisprudenziali, quella che è la condotta che gli avvocati son tenuti a mantenere durante la mediazione al fine di non incorrere in conseguenze sanzionatorie.

 

2. L’art. 96 c.p.c., disciplina la c.d. lite temeraria, il quale recita: Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza.

Il giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l’attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a norma del comma precedente.

In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata.

Il primo comma della norma è considerata un ipotesi di fattispecie risarcitoria del danno da illecito processuale cagionato dalla lite temeraria.

Essa va inquadrata come ipotesi di responsabilità aquiliana ex ar. 2043 c..c, del quale l’art. 96 c.p.c. comma 1 ne rappresenta una species, ma si differenzia comunque da questa, in quanto, ai fini della sua configurabilità, non è sufficiente la colpa lieve, ma, come recita l’art. 96 c.p.c., colpa grave o dolo.

La norma in questione, specialmente da quando è stata novellata dall’art. 45, comma 12 della legge 18 giugno 2009 nr. 69, mira a sanzionare la parte che abbia abusato e quindi occupato inutilmente la “macchina del processo” contravvenendo altresì al generale dovere di lealtà e probità di cui all’art. 88 c.p.c..

Attraverso tale ratio, la norma de qua deve fungere sia da deterrente all’inutile e controproducente instaurazioni di liti temerarie che a condotte processualmente dilatorie. Quindi, sia pure indirettamente, l’art. 96 c.p.c. vuole, consapevolmente, tutelare anche interessi pubblici, quali il buon funzionamento e l’efficienza della giustizia civile e quindi una giusta durata dei processi.

I presupposti ai fini della configurazione di tale responsabilità, richiedono, in quanto aggravata, una graduazione estrema dello stato soggettivo riferibile alla colpa grave o dolo, oltre alla soccombenza dell’avversario e la prova della malafede di controparte.

Circa l’onere della prova del quantum, in giurisprudenza registriamo due orientamenti principali. Il primo afferma che il quantum, una volta assolto l’onere della prova dell’an, sarebbe determinabile dal giudice in base alla comune esperienza ed accertabile su presunzioni.

Secondo l’ulteriore orientamento giurisprudenziale, il giudice potrebbe effettuare la quantificazione equitativa del danno ex officio solo quando non sia possibile quantificare il danno nel suo ammontare. Tale facoltà risponderebbe al criterio generale di cui agli artt.1226 e 2056 cc, senza alcuna deroga all’onere di allegazione degli elementi di fatto idonei a dimostrarne l’effettività: tale facoltà, invero, non trasforma il risarcimento in una pena pecuniaria, né in un danno punitivo disancorato da qualsiasi esigenza probatoria, restando esso connotato dalla natura riparatoria di un pregiudizio effettivamente sofferto senza assumerne invece carattere sanzionatorio o afflittivo1.

La giurisprudenza di merito, ha prevalentemente affermato che si tratta di una vera e propria pena privata al fine di sanzionare il comportamento di coloro che hanno abusato del processo e quindi, la liquidazione del danno, non può prescindere dall’accertamento giudiziale dell’elemento soggettivo materializzatosi nel dolo o colpa grave2.

La legge 69/2009, ha introdotto il terzo comma dell’art. 96 c.p.c. Il quale deduce un ulteriore strumento deflattivo che si differenzia dai primi due commi, in quanto può essere attivato d’ufficio. Tale innovazione ha suscitato non poche perplessità circa il suo perimetro operativo: non convince il tentativo di affermare, per un verso, che «la norma si è certamente emancipata dal colle-gamento con i primi due commi» (dunque, par di capire, che si sarebbe fuori dall’alveo della responsabilità civile) e riconoscerle, per altro verso, il carattere di «misura sostanzialmente “riparatoria” finalizzata a «contrastare, attraverso il mezzo risarcitorio, contegni cui non è sottesa quella comune diligenza professionale e correttezza» . Dunque avrebbe le stigmate della responsabilità civile3.

Emblematica sul punto una sentenza del Tribunale di Milano 11 gennaio 2012 (Il caso Rizzoli), il quale nell’applicare il 1 comma dell’art. 96 c.p.c, ha interpretato quest’ultimo alla luce del novellato terzo comma, ravvisando nel primo un carattere meramente compensativo collegandovi una funzione anche sanzionatoria.

A questo trend giurisprudenziale, non sfugge neanche la mediazione, nella fattispecie in cui, a fronte del mancato esperimento del tentativo obbligatorio ex art. 5 1 comma bis 28/2010, si ravvisa la problematica dell’applicabilità dell’art. 96, 3 co e c.p.c. in sede processuale.

La nuova normativa, emanata attraverso il c.d. “Decreto del Fare,” ha previsto dei legami tra mediazione e processo civile sempre più stringenti, forse anche eccessivi data la natura sostanziale della prima. Tuttavia, sia in quanto condizione di procedibilità per determinate materie espressamente previste dall’art. 5,1 comma bis, che per il novellato 2 comma del citato art. 5 , il quale ha sostituito nella mediazione demandata la locuzione “può invitare” con “può disporre”, nonché per il potenziamento dell’intervento del giudice ex art. 185 bis c.p.c. , tramite una proposta che può essere alternativamente di contenuto sia transattivo che conciliativo puro, il contesto normativo attuale, è di una evidente “processualizzazione” della mediazione, la quale dovrebbe invece distinguersi per la sua informalità ed elasticità.

Sul punto, va segnalata la “storica” sentenza del Tribunale di Firenze4 la quale, nell’ accogliere una richiesta di condanna ex art. 96 comma 3 c.p.c., ha ravvisato che l’ elemento soggettivo della malafede va riscontrato, in questa fattispecie, non solo nella fase processuale, ma anche in quella prodromica della mediazione.

Quindi si statuisce che: “La condanna ex art. 96 c.p.c. può essere infatti legata al comportamento tenuto non solo nella fase prettamente processuale, ma anche in quella della mediazione e, in particolare, al fatto che la parte non si presenti (senza giustificarsi) in mediazione e che abbia poi agito in giudizio pur nella consapevolezza dell’infondatezza delle tesi sostenute. Inoltre, qualora le parti non abbiano partecipato personalmente alla procedura di mediazione ed i difensori delegati alla loro rappresentanza abbiano manifestato al mediatore la mera volontà dei deleganti di non procedere, il tentativo di mediazione non risulta ritualmente condotto a termine”.

Tale decisione, che riprende un concetto, espresso per la prima volta in una decisione del Tribunale di S. Maria Capua Vetere5, che un comportamento così come accertato si pone in un ottica decisamente contrastante con la ratio della mediazione, reintrodotta dal legislatore principalmente al fine di favorire il suo effetto deflattivo nei confronti dell’enorme traffico di contenzioso accumulato presso I Tribunali italiani.

La sentenza quindi sottolinea il nuovo ruolo dell’avvocato e la sua centralità, il quale deve tendere ad individuare il Tribunale come extrema ratio per la risoluzione delle controversie e non come prima ipotesi di strategia difensiva.

Inoltre esigendo il medesimo comportamento nella fase pre-processuale della mediazione, conferisce a quest’ultima pari dignità al processo civile.

 

3. Quindi la sentenza del Tribunale di Firenze, menzionata paragrafo precedente, impone una riflessione più ampia che è quella inerente al necessario restyling della concezione di avvocato, lontana “anni luce” da un modello che dovrebbe rappresentare una professionalità al passo con i tempi.

L’attuale classe forense italiana, è ancorata ad una ormai arcaica concezione “monopolistica” della giustizia ordinaria, frutto di un retaggio culturale ormai sorpassato, ed è opportuno che al proprio cliente, si prefigurino tutte le possibile vie per dirimere una determinata controversia, affrancandosi da una visione “tribunale centrica”.

Del resto, lo stesso codice deontologico forense, unitamente all’attuale normativa sulla mediazione, indicano, più o meno consapevolmente, questo approccio.

Il novellato 28/2010, disegna un ruolo importante per l’avvocato, anche nella fase prodromica dell’eventuale processo, cioè la mediazione. Preliminarmente l’art. 4 del d.lgs. 28/2010, comma 3 impone all’avvocato, all’atto del conferimento dell’incarico, pena l’annullabilità del contratto di mandato, di informare il proprio cliente della opportunità o possibilità di avvalersi della procedura mediatoria.

Tale norma, ha un palese legame con l’obbligo di informazione secondo i canoni deontologici di cui alla previsione dell’art. 35 del codice deontologico forense, relativo ai generali obblighi di informazioni propri dell’avvocato per qualsivoglia incarico.

Quindi l’avvocato, che assiste la parte in mediazione, al fine anche di non incorrere in una fattispecie di lite temeraria, dovrà ottenere per il proprio assistito la soluzione più adeguata alla controversia e non incanalare a tutti i costi la stessa in una avventurosa tribunalizzazione .

Una condotta non appropriata dell’avvocato, viene ritenuta dalla giurisprudenza sanzionabile, appunto anche ex officio, specie alla luce della riforma della legge 69/09, la quale ha introdotto una forma di punitive damages in considerazione del danno che tali condotte arrecano al sistema giudiziario, già vessato da circa cinque milioni di procedimenti civili pendenti, per cui, l’aggravamento del carico complessivo con ulteriori procedimenti introdotti per finalità strumentali e dilatorie, produrrebbero un ulteriore ed inopportuno intasamento delle aule giudiziarie.

Quindi, il risarcimento conseguente si pone in due direzioni: sia per il danno arrecato alla parte ingiustamente coinvolta nel processo, sia per il danno arrecato al Sistema Giustizia, che in concreto va anche a pregiudicare la produttività del singolo giudice6.

 

4. Con riguardo all’analisi proposta attraverso la presente ricerca, è necessario muovere dal fatto che il legislatore del “Decreto del Fare”, pur riconfermando l’obbligatorietà della mediazione civile e commerciale, ha previsto, nelle materie per cui la mediazione è condizione di procedibilità, il c.d. primo incontro informativo durante il quale il mediatore, dopo aver chiarito la propria funzione e le modalità di svolgimento della mediazione, invita le parti e i loro avvocati a esprimersi circa la possibilità di iniziare la procedura di mediazione. Difatti, il novellato comma primo dell’art. 8 del d.lgs. 28/2010 pur non prevedendo nulla di nuovo nella sua prima parte, in quanto già in precedenza, anche se in assenza di una espressa disposizione normativa, era prassi ormai consolidata per il mediatore incaricato quella di fornire alle parti e ai loro legali tutte le informazioni relative al ruolo da lui svolto e alle finalità della procedura di mediazione quale metodo alternativo di risoluzione della controversia, ha imposto che il mediatore debba accertarsi, prima di procedere, dell’effettiva possibilità di mediare la controversia, indagando con le parti e i loro legali circa la disponibilità a proseguire con la mediazione.

Il dettato normativo che ha introdotto il c.d. primo incontro informativo, pur potendo apparire, da una prima lettura, di agevole comprensione, ha sollevato non poche perplessità interpretative, parte delle quali sono state superate attraverso l’emanazione della circolare ministeriale del 27 novembre 20137. Tuttavia, è rimasto irrisolto uno degli aspetti più ostici derivanti dall’introduzione del c.d. “primo incontro programmatico”. Trattasi, più precisamente, delle conseguenze discendenti dal fatto che il legislatore della riforma, utilizzando nella formulazione della disposizione in esame, il sostantivo plurale “le parti”, ha indicato, tra i destinatari dell’invito formulato dal mediatore, anche la stessa parte che ha attivato la mediazione. In altri termini, anche alla parte istante, e non solo alla parte invitata in mediazione, viene attribuita la facoltà di scegliere se proseguire o meno con il tentativo di mediazione. Pur dovendo riconoscere tale possibilità come lecita, in quanto contenuta nella disposizione normativa in esame, ci si chiede quali conseguenze potrebbero derivare da un verbale in cui il mediatore, dopo aver dato atto della presenza di entrambe le parti e dei loro legali nel giorno fissato per il primo incontro, certifichi la mancata volontà della parte istante e del proprio legale di voler proseguire con la mediazione, dando atto dell’impossibilità di procedere con lo svolgimento del tentativo di mediazione. Attribuire adeguata importanza a tale aspetto e alle conseguenze che ne derivano, non discende di certo da una sterile volontà di effettuare una mera esercitazione accademica, ma sottostante a tale indagine vi sono necessità puramente pratiche, in quanto la previsione normativa in esame potrebbe essere utilizzata, dalla parte istante e dal suo legale quale espediente, al fine di soddisfare la condizione di procedibilità imposta dal legislatore. Difatti la parte istante potrebbe, attivando la procedura di mediazione, presentandosi al primo incontro e manifestando la mancata volontà di esperire il tentativo di conciliazione, rendere, in sostanza, la procedura mediatoria un mero e formale passaggio burocratico.

In virtù del dovere di riservatezza, secondo il quale le dichiarazioni rese e le informazioni ricevute durante l’attività di mediazione non possono essere utilizzate nel giudizio civile per il medesimo oggetto, anche solo parziale, che sia iniziato, riassunto o proseguito dopo l’insuccesso della mediazione, il mediatore dovrà, durante il primo incontro, dare atto, nel verbale di conclusione del procedimento di mediazione, dell’attivazione della procedura, della corretta comunicazione del primo incontro alle parti coinvolte nel tentativo di mediazione, della presenza delle parti e dei rispettivi avvocati e del mancato svolgimento effettivo del tentativo di mediazione, senza poter tuttavia entrare nel merito delle motivazioni derivanti da tale rifiuto. Parte degli operatori del settore ritengono che non sia possibile, sempre in virtù del principio di riservatezza, verbalizzare quale delle parti coinvolte abbia espresso il proprio desiderio di non voler proseguire con il tentativo di mediazione. Tuttavia, a parer di chi scrive, il novellato art. 8 del d.lgs. 28/2010, stabilendo che il mediatore debba raccogliere, durante il primo incontro, la volontà o la mancata volontà delle parti e dei legali a proseguire nel tentativo di mediazione, implicitamente consente di dare atto, nel verbale di conclusione del procedimento di mediazione, della volontà di entrambe le parti o anche solo di una delle parti sedute attorno al tavolo della mediazione di non voler proseguire con l’effettivo esperimento del tentativo conciliativo. Coperta da riservatezza pare essere, invece, la motivazione sottostante alla mancata volontà della parte e del legale che non desiderano proseguire nello svolgimento della mediazione. A tal proposito pare lecito ritenere che, sarà, eventualmente, il giudice che potrà valutare la fondatezza delle motivazioni derivanti dalla mancata volontà espressa dalle parti e dai legali a voler svolgere il tentativo di mediazione.

Chiarito quanto sopra, ci si chiede come potrebbe essere valutata dal giudice la scelta, da parte del soggetto che ha attivato la procedura e del suo legale, di non voler procedere nel tentativo di mediazione. Pur prevedendo la legge che la condizione di procedibilità debba ritenersi soddisfatta anche in caso di conclusione del primo incontro con esito negativo, il comportamento della parte istante non risulterebbe del tutto coerente con la volontà iniziale di voler trovare, attraverso un metodo alternativo al giudizio, una rapida soluzione alla questione portata all’attenzione del mediatore. A parer di chi scrive, tale comportamento potrebbe essere valutato dal giudice in modo analogo alla mancata partecipazione della parte istante al procedimento di mediazione8. Su quest’ultima ipotesi si è espresso il Tribunale di Siena9, prevedendo che “la prescrizione legale del previo esperimento della procedura media-conciliativa, in quanto intesa allo scopo della deflazione del contenzioso mediante l’offerta di un’effettiva ed attuale possibilità di definizione stragiudiziale della controversia anteriormente alla trattazione della medesima, non possa ritenersi soddisfatta mediante un mero formalistico deposito di domanda cui non faccia seguito alcun comportamento della parte proponente idoneo a perseguire né l’instaurazione di un effettivo e integro contradditorio di fronte al mediatore, né l’effettiva fruizione del servizio da questo ultimo erogato, che trova il suo corrispettivo nel pagamento delle competenze del mediatore”. Il giudice ha concluso sostenendo che “il comportamento della parte attrice integra gli estremi di atto in frode alla legge, che, secondo l’interpretazione della Suprema Corte10, viene identificato con il perseguimento in via di fatto di un risultato vietato dalla legge con norma imperativa”. Pur dovendo ammettere che la questione oggetto della pronuncia in esame trae origine da una opposizione a decreto ingiuntivo in cui il Tribunale aveva assegnato il termine ex art. 5 del d.lgs. 28/2010, ai fini dell’esperimento del tentativo di mediazione, a cui tuttavia la parte opponente si era limitata a depositare l’istanza di mediazione, senza poi partecipare al primo incontro, è plausibile ritenere che tale caso portato all’attenzione del giudice non pare essere tanto distante dalla fattispecie oggetto del presente approfondimento. Difatti, anche in ipotesi di comparizione al primo incontro durante il quale la parte istante e il proprio avvocato dichiarino di non voler proseguire con lo svolgimento del tentativo di mediazione, si è in presenza di un comportamento non idoneo a perseguire l’instaurazione di un effettivo dialogo e confronto tra le parti davanti al mediatore, in quanto, in ultima analisi, il rifiuto della parte istante e del proprio legale comporta di fatto il mancato effettivo svolgimento del tentativo di mediazione.

 

5. A chiosa del tema relativo all’incontro preliminare di mediazione, si ritiene opportuno dare rilievo a quanto messo in luce da alcune recenti pronunce giurisprudenziali relativamente al nuovo modello di mediazione civile e commerciale introdotto dal c.d. Decreto del Fare.

Come abbiamo avuto modo di osservare nel paragrafo precedente, l’introduzione del meccanismo del primo incontro di mediazione ha sollevato non poche problematiche, soprattutto in virtù del fatto che la suddetta novella legislativa potrebbe essere utilizzata, soprattutto da quella parte dell’avvocatura avversa all’introduzione del nuovo istituto, come escamotage, rendendo a tutti gli effetti legittima la possibilità di far fallire immediatamente il tentativo di mediazione, dichiarando di non voler procedere con la mediazione. In detto contesto, alcune pronunce giurisprudenziali11, oltre ad aver riconosciuto che la scelta di rimettere alla volontà delle parti la possibilità di procedere con la mediazione c.d. effettiva consentirebbe di aggirare l’obbligatorietà del tentativo di mediazione, hanno valutato il comportamento delle parti e dei legali, atto a rifiutare di voler procedere oltre il primo incontro, come irrazionale e incettabile in quanto snaturerebbe il reale scopo della mediazione. In altri termini, è necessario che la mediazione venga svolta effettivamente e che venga eseguita una vera e propria sessione di mediazione, al fine di considerare soddisfatta la condizione di procedibilità. Per di più, attraverso la prima delle due ordinanze in commento è stato delineato quello che deve essere il ruolo svolto dal mediatore durante il primo incontro, prevedendo che il mediatore debba chiedere alle parti di esprimersi sulla “possibilità” di iniziare la procedura di mediazione, vale a dire sulla eventuale sussistenza di impedimenti all’effettivo esperimento della medesima e che, invece, non debba richiedere alle parti e ai loro legali di esprimersi circa la volontà di voler proseguire con il tentativo di mediazione, “dal momento che in tale ultimo caso si tratterebbe, nella sostanza, non di mediazione obbligatoria bensì facoltativa e rimessa alla mera volontà delle parti medesime con evidente, conseguente e sostanziale interpretatio abrogans del complesso dettato normativo e assoluta dispersione della sua finalità esplicitamente deflattiva”.

In conclusione, attraverso il percorso di ricerca affrontato nel presente contributo si è voluto dare rilievo alle conseguenze cui si espongono le parti e i relativi legali, i quali, non intraprendendo l’attività di mediazione, espongono loro stessi e i propri assistiti alle conseguenze che sempre più numerose pronunce giurisprudenziali stanno prendendo in considerazione, con il fine ultimo di sanzionare quei comportamenti scorretti volti a “baipassare” i presidi posti dal legislatore al fine di agevolare il ricorso ai metodi alternativi di risoluzione delle controversie.

1 Cass. 30 luglio 2010, nr. 17902.

2 Trib. Trento 11 giugno 2013, nr. 199 – Trib. Lecce 09 maggio 201, nr.1534 – Trib. Monza 09 gennaio 2013 – Trib. Brescia, sez. Commerciale, 02 agosto 2012 – Trib. Taranto, sez. III, 08 giugno 2012.

3 P.Porreca, L’art. 96 3 co., c.p.c., tra ristoro e sanzione.

4 Trib. Firenze sez. III 17 marzo 2014.

5 Trib. S. Maria Capua Vetere 23 dicembre 2013.

6 Trib. Verona, sez. III civile, sent. nr. 3322/2012 – Trib. Padova 10 gennaio 2014.

7 C. Isoni e D. Roli, Affrontare la mediazione. Quesiti ricorrenti e risposte giurisprudenziali, Nuova Giuridica, 2014.

8 Sulle argomentazioni a fronte della tesi che contempla una possibile analogia tra la scelta della parte istante di non voler andare oltre il primo incontro e la sua mancata comparizione si veda, I. Patta, La parte istante non vuole iniziare la procedura di mediazione: è frode alla legge? In Filodiritto.

9 Trib. Siena, 25 giugno 2012, nr. 209.

10 Cass. 11 gennaio 1973, nr. 63, conf. Cass. 17 luglio 1981, nr. 4414.

11 Trib. Firenze, sez. III, 17 marzo 2014 – Trib. Firenze, 19 marzo 2014.

Isoni Corinne

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