Riforma del lavoro: la nuova disciplina del contratto a termine

Redazione 13/04/12
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Anna Costagliola

Il Capo II del disegno di legge di riforma del mercato del lavoro, nel testo diffuso dal Governo ed attualmente all’esame della Commissione Lavoro del Senato, è dedicato alla modifica delle tipologie contrattuali esistenti, allo scopo di preservarne gli usi virtuosi e di limitarne quelli impropri, finalizzati essenzialmente ad abbattere il costo del lavoro aggirando gli obblighi previsti per i rapporti di lavoro subordinato.

Una delle tipologie contrattuali interessate dalle novità della riforma in itinere è il contratto a tempo determinato, di cui si è forgiato un nuovo assetto che ha da ultimo costituito oggetto di specifico esame anche da parte della Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro, nella circolare n. 7 dell’11 aprile 2012.

In particolare, l’art. 3 del disegno di legge apporta talune rilevanti modifiche rispetto alla fattispecie come attualmente disciplinata dal D.Lgs. 368/2001. La prima rilevante novità concerne la «liberalizzazione» del primo contratto a termine di durata non superiore a 6 mesi,  intendendosi per tale quello stipulato tra un certo lavoratore e una certa impresa per qualunque tipo di mansione. In pratica, ricorrendo tale presupposto, l’impresa non avrà l’obbligo di specificare le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo cui è normalmente vincolata la legittimazione dell’apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato, pena la sua qualificazione in termini di contratto a tempo indeterminato (cd. «causalone» ex art. 1, D.Lgs. 368/2001). Detta previsione, che resta in ogni caso limitata ai contratti di durata non superiore a 6 mesi viene estesa anche all’ipotesi della prima missione di un lavoratore nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato. Peraltro, in relazione alle dette fattispecie si esclude l’applicazione dell’istituto della proroga di cui all’art. 4 del D.Lgs. 368/2001.

Un’ulteriore novità interviene in tema di prosecuzione del rapporto di lavoro a termine, già oggi consentita, entro prefissati limiti temporali, in relazione alle possibili esigenze organizzative delle imprese con riguardo al completamento delle attività per le quali il contratto a termine è stato stipulato. In questa direzione si giustifica la individuazione di un «periodo di tolleranza» entro il quale il rapporto di lavoro può legittimamente continuare dopo la scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato. La modifica legislativa interviene nel senso di un prolungamento del periodo durante il quale il rapporto a termine può proseguire oltre la scadenza per soddisfare esigenze organizzative, da 20 a 30 giorni per contratti di durata inferiore ai 6 mesi e da 30 a 50 giorni per quelli di durata superiore. Viene inoltre previsto un vincolo procedurale per la prosecuzione del rapporto di lavoro, ponendosi a carico del datore di lavoro l’onere di comunicare al Centro per l’impiego territorialmente competente, entro la scadenza del termine inizialmente fissato, che il rapporto continuerà oltre tale termine, indicando altresì la durata della prosecuzione.

Sulla scorta delle indicazioni tracciate dalla direttiva europea n. 99/70/CE, il contrasto alla precarietà, e dunque ad un’eccessiva reiterazione di rapporti a termine tra le stesse parti, è perseguito dal legislatore tramite l’ampliamento da 10 a 60 giorni, per i contratti inferiori a 6 mesi, e da 20 a 90 giorni, per i contratti superiori a 6 mesi, dell’intervallo che deve trascorrere tra un contratto e l’altro in caso di riassunzione a termine, per evitare che il secondo contratto venga considerato a tempo indeterminato.

Nella stessa ottica di contrasto alla precarietà si pone altresì la nuova previsione che computa nel limite di durata massima di 36 mesi (comprensivo di proroghe e rinnovi) dei contratti a termine con il medesimo dipendente anche gli eventuali periodi di lavoro somministrato intercorsi tra il lavoratore e i datore-utilizzatore.

Il testo dell’art. 3 del Ddl. sulla riforma del lavoro reca, ancora, disposizioni puntuali in ordine ai termini per l’impugnativa della nullità del termine apposto al contratto di lavoro e per l’avvio dell’azione giudiziaria, modificando in tal senso le previsioni della L. 183/2010 (art. 32). Come precisato dallo stesso Ministero del lavoro, l’intervento mira a correggere «la stortura derivante dal fatto che oggi il lavoratore a termine coinvolto in una successione di contratti (entro il tetto legale di 36 mesi, comprensivi di proroghe e rinnovi) è posto di fronte all’alternativa eccessivamente difficile, e in qualche modo lesiva del suo diritto di azione in giudizio nonché della sua stessa dignità, tra manifestare al datore di lavoro la volontà di impugnare il contratto a termine, di cui ritenga l’illegittimità, entro 60 giorni dalla scadenza dello stesso, e rischiare così di mettere in crisi prematuramente il rapporto col datore di lavoro, oppure non fare nulla sperando in una stabilizzazione che non necessariamente giungerà, e perdere così per sempre la possibilità di fare valere i propri diritti». Tuttavia, nella circolare di approfondimento sul tema (n. 7/2012), la Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro osserva come, ad onta del meritevole intento, la prevista modifica, intervenendo ad allungare i termini per l’impugnativa, non sembra risolvere la distorsione evidenziata dal legislatore, limitandosi piuttosto ad introdurre un’ulteriore eccezione alle regole generali che producono confusione agli operatori del diritto. Si osserva ancora come, per ripristinare un giusto equilibrio di interessi tra le parti sarebbe stato sufficiente, nel caso di successione illecita dei contratti a termine tra lo stesso lavoratore e datore di lavoro, far decorrere i termini decadenziali di cui alla L. 183/2010, dall’ultimo contratto a termine stipulato tra le parti e non da ciascun contratto.

Viene confermato, infine, nel caso di contratto a termine dichiarato illegittimo dal giudice, il regime

basato sul doppio binario della «conversione» del contratto in uno a tempo indeterminato e del riconoscimento al lavoratore di un importo risarcitorio compreso tra 2,5 e 12 mensilità retributive, secondo quanto previsto dall’art. 32, co. 5, della L. 183/2010, il quale ha superato il vaglio di legittimità della Corte costituzionale (sent. 303/2011). In materia, per scoraggiare ulteriori contenziosi, il progetto di riforma interviene con una norma che reca un’interpretazione autentica del citato art. 32, co. 5. Detta norma interpretativa precisa come l’indennità risarcitoria contemplata dalla legge rivesta carattere «omnicomprensivo», come tale integrante tutte le conseguenze retributive e contributive derivanti dall’illegittimità del contratto a termine.

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