Riflettendo sul “danno”

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Qualsiasi azione contraria all’ordine naturale è per Aristotele causa prima del danno, vi è tuttavia il problema di individuare nella società quale è l’ordine naturale, in quale ordine morale, giuridico o  politico può incardinarsi e quale sua violazione nel creare il danno giustifica l’eventuale violenza esaltata da Sorel  (Abbagnano), la violenza sembra essere parte dell’individuo in quanto agente e parte della selezione naturale, acquisendo per tale via la valenza di una distruzione creativa schumperiana, elemento necessario ai valori vitali di Nietzsche nel quale si salda il non deliberato della natura al deliberato della coscienza.

La violenza sempre presente nell’uomo e fuori dell’uomo assume forme diverse ma sempre incipienti, il “senso dell’uomo”, come la definisce Weil, non è dato garantito, così che la violenza rientra sempre nelle possibilità umane divenendone la normalità fino a modificare geneticamente le qualità, è quello che Arendt individua quale “banalità del male”, una violenza che può essere tanto positiva determinata dall’agire, quanto negativa con il non agire, in entrambi i casi il risultato ultimo è il manifestarsi del danno, un danno inteso come “perdita” di un qualcosa che solo per motivi di rapporti sociali si intende misurare e quantificare in termini finanziari, riducendolo ad  una pura materialità facilmente evidenziabile, una compensazione altrimenti indeterminabile e che nel bene patrimoniale tende ad assorbire il “danno” tanto fisico che della psiche.

Il diritto stesso può essere fonte di danno quando la certezza diventa incertezza, quando l’eccesso comprime oltre i limiti la libertà, quando la Costituzione da tessuto connettivo si frantuma in un puro tecnicismo, un meccanismo kelseniano freddo e inanimato da smontare e rimontare, la Costituzione diventa un insieme di leggi costituzionali da modificare e interpretare singolarmente, perdendo progressivamente il carattere “fondamentale” di una morale collettiva frutto di una storia e di una cultura comune, vi è quindi una sua polverizzazione che ne frantuma il significato morale, ed il suo peso specifico nel tessuto sociale, il venire meno di una “viva cultura costituzionale” la trasforma in un “terreno di conflitto” permanente, il sistema positivista fa perdere alla Costituzione attraverso il puro tecnicismo la sua anima.

Vi è il pericolo che il potere politico ammantandosi di un potere ideologico venga a fare coincidere il concetto di “giustizia” con la propria volontà, così che essendo lui depositario del potere legislativo determina la perfetta coincidenza del diritto alla giustizia secondo la sua visione, vi è quello che Zagrebelsky definisce come un “totalitarismo giuridico”, ossia “una forma di riduzione del diritto: alla sola giustizia o alla sola legge.

Ci può essere un totalitarismo della giustizia, quando l’autorità depositaria della giustizia pretende di ergersi a esclusivo legislatore, e totalitarismo della legge, quando l’autorità depositaria della legislazione pretende di ergersi a esclusivo dispensatore della giustizia” (33-34, G. Zagrebelsky, La virtù del dubbio. Intervista su etica e diritto, Ed. Laterza 2008), la “giustizia” viene per tale via a ridursi al semplice concetto di potere tramite la potestà legislativa, una giustizia a cui appellarsi per fare tacere attraverso la difesa dei suoi valori gli avversari negando qualsiasi possibilità al dubbio e all’errore.

Anche il concetto di giustizia quale bene che in termini utilitaristici può definirsi come il maggiore bene diviso per il maggiore numero di individui pone il problema su cosa sia in realtà il bene (Zagrebelsky), potendo il bene inteso quale utile diventare una possibile disutilità, questo comporta comunque la necessità dell’esistere di un nucleo minimo di diritto forte quale garanzia di una convivenza nella ricerca di un confine tra accettazione delle diversità e regole comuni, confine che affronta le sue radici nella cultura di cui il diritto  ne è parte e di cui il tecnicismo positivista tende a rivendicarne una potestà assoluta che conduce al possibile “nichilismo giuridico” (Irti).

La considerazione delle conseguenze complessive non è uguale per tutte le istituzioni pubbliche, nel sistema giudiziario si tende alle richieste individuali e ai comportamenti singoli indipendentemente dai risultati complessivi, vi è una visione più ristretta giustificata dal rapporto di causalità, né le protezioni specifiche costituzionali possono interamente sostituire i vincoli propri della moralità individuale derivanti da ragioni consequenzialiste complessive, né d’altronde le restrizioni possono essere delegate senza limiti ai tribunali, la stessa complessità normativa può costituire al contempo un danno ma anche una occasione , non solo di inganni, bensì per non intervenire, un lasciare fare implicito nel mostrare un finto interesse, una maschera sulla realtà (Nagel), questo rifarsi ai singoli risultati tuttavia non può valere per l’intera azione pubblica in cui dovrebbe esserci implicita una valutazione per tutti i risultati nel loro insieme, nella quale la considerazione per quello che accadrà dovrà essere affiancata dalla considerazione dei mezzi usati, con una relativa differenza tra azioni individuali e azioni pubbliche dove in queste ultime prevarrà la ricerca dei risultati sulle considerazioni per i mezzi usati (Nagel).

            Il ridurre alla visione giuridica del singolo caso, alla difesa esasperata di una serie infinita di diritti mai controbilanciati al fine di una ricerca assoluta di integrazione, può condurre all’anomia fino a travolgere lo stesso ideale di convivenza in un relativismo assoluto (Zagrebelsky), il ridurre alla singola unità può diventare il modo più comodo per evitare l’insieme delle problematiche politico-economiche di una società complessa, la visione viene ridotta al breve periodo nella ricerca dell’utile politico immediato della prossima elezione, non si riesce a passare dal livello tattico al superiore livello strategico di un interesse nazionale sostenibile, si finisce per acquisire un pensiero nichilistico, quando i problemi e i danni acquistano progressivamente una valenza planetaria, con una crescita esponenziale delle disutilità nella impossibilità di negare la territorialità umana propria della fisicità del suo essere.

La rivendicazione continua di diritti indipendentemente dal contesto dell’azione e dal sistema in cui si agisce fa perdere la distinzione tra risarcimento e indennizzo, la valutazione e accettazione del rischio che l’agire comporta, come la cavillosità interpretativa nell’esasperata estensione del combinato disposto conduce al prevalere di regole non scritte, valide in contesti autoreferenti ma problematiche in ambienti aperti ad altre culture.

La violenza pertanto può essere considerata in funzione di un rapporto tra cultura individuale e libertà individuale con la cultura organizzativa e le regole organizzative, in cui cultura e regole ambientali ne costituiscono il contesto ambientale, in formula:

V = f [(Ci+Li) / (Co+Ro) + (Ca+Ra)+ Ds]

V  = Violenza

Ci  = Cultura individuale

Li  =  Libertà individuale

Co = Cultura organizzativa

Ro = Regole organizzative

Ca = Cultura ambientale

Ra = Regole ambientali

D(Delta)s = Variante biologica

 

La violenza può considerarsi anche come indice di degenerazione di un conflitto, la sua intensità denota il prevalere dell’elemento distruttivo del conflitto, che da elemento insito nelle relazioni in cui può favorire il nascere di nuove prospettive si trasforma in un elemento negativo di per sé distruttivo della relazione stessa, questo a tutti i livelli da quello psicosociale o sociale a quello istituzionale, comunitario e internazionale; vi è quindi la necessità di riportare il conflitto dall’aspetto relazionale a quello di contenuto di un semplice contrasto facendo emergere le vere motivazioni che si nascondono nel conflitto stesso, impedendo pertanto il prevalere del puro aspetto distruttivo della violenza, nella ricerca del passaggio dall’elemento di rottura alla conciliazione intervengono fattori culturali e psicologici che favoriscono l’emerge di un più circoscritto contrasto sul più ampio e sostanzialmente ineliminabile conflitto, insito ontologicamente nei rapporti relazionali sia individuali che di gruppo, in cui intervenire come ad esempio le Camere di Conciliazione presso le Camere di Commercio.

Dott. Sabetta Sergio Benedetto

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