Riflessioni in tema di responsabilità medica da omessa diagnosi di malformazione fetale

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Il tema della responsabilità medica è stato largamente dibattuto in dottrina e giurisprudenza ed oggetto di un rilevante lavoro interpretativo che ha interessato le varie fonti legislative regolanti la materia.

Questa pubblicazione pertanto, lungi dal pretendere di fornire un quadro esaustivo in ambito di malpractice medica, vuole focalizzare specificamente l’attenzione sulla fattispecie dell’omessa diagnosi di malformazioni del feto, nonché sulle conseguenze risarcitorie che ne possono derivare. Nella trattazione si tenterà di esaminare la questioni affrontate dalla giurisprudenza e verificare le soluzioni adottate essendo tale metodo, a parere di chi scrive, il migliore per studiare la fattispecie in esame.

Preliminarmente occorre chiarire che l’omessa diagnosi costituisce inadempimento ad una prestazione di natura non terapeutica ma meramente informativa da parte del professionista. In altre parole, come è stato chiarito dalla giurisprudenza di legittimità[1], nei casi rientranti nella fattispecie in esame, la malformazione del feto non è in alcun modo legata causalmente alla condotta del medico. Dev’essere chiaro, infatti, che ciò che si imputa al sanitario non è di aver concorso a causare la malformazione nel feto ma di aver violato, attraverso l’omessa diagnosi della stessa, il diritto ad una gravidanza consapevole e, dunque,  aver privato la gestante della libertà di scelta[2] concessale dalla normativa.

Una recentissima sentenza della Corte di Cassazione, la n. 13 del 2010, ha affrontato un caso paradigmatico di omessa diagnosi di malformazioni del feto. La sentenza in questione si inserisce nel solco tracciato dalla ormai costante giurisprudenza e, dunque, senza punti di rottura con i precedenti ma, riassumendo in modo chiaro e preciso il percorso svolto negli anni dai giudici di legittimità, fornisce una sintesi cristallina degli elementi della fattispecie.

La vicenda giudiziaria ha preso avvio dalla richiesta di risarcimento danni di una coppia umbra in seguito alla nascita della figlia con gravi malformazioni, nella specie “…agenesia totale di un arto inferiore e focomelia dell’altro…”. Nella specie, a seguito di errori, ritardi e inadempimenti imputabili alla struttura sanitaria locale, la suddetta malformazione non era stata diagnosticata e, dunque, la gestante non aveva potuto esercitare le facoltà di cui alla legge 194/78.

 

Diritto della donna <<alla procreazione cosciente e responsabile>> e presupposti di legge per l’interruzione della gravidanza.

Il diritto al risarcimento del danno derivante da responsabilità del professionista per omessa diagnosi di malformazione fetale è collegato all’esistenza del diritto della donna di interrompere la gravidanza ai sensi della legge 194/78.

La valutazione circa la ricorrenza del suddetto diritto deve essere condotta con un giudizio ex ante. L’interprete deve riportarsi al momento in cui il medico avrebbe dovuto informare la gestante delle gravi malformazioni e valutare <<in termini di alta probabilità, secondo le nozioni della scienza medica, ma non di certezza >>[3] se, adeguatamente informata, la donna avrebbe potuto interrompere la gravidanza a fronte del verificarsi dei presupposti di legge.

Nel nostro ordinamento non trova tutela l’aborto c.d. <<eugenetico>>, essendo unicamente consentito quello terapeutico in conformità a quanto stabilito dalla legge 194/78.

La vita umana è garantita dalla Carta Costituzionale e dall’art. 1 della citata legge che, infatti, si preoccupa di sottolineare il ruolo dello Stato orientato “…omissis…alla procreazione cosciente e responsabile…omissis…”, nonché alla “…omissis…  tutela della vita umana dal suo inizio…omissis…”. L’interruzione volontaria della gravidanza, dunque, lungi dal rappresentare un <<mezzo per il controllo delle nascite>>[4], si deve considerare come il frutto del bilanciamento operato tra due diritti che possono porsi in contrapposizione tra loro. In altre parole solo allorché l’interesse costituzionalmente protetto del nascituro venga a confliggere con quello, avente pari rilevanza costituzionale, della madre alla tutela della propria salute, l’ordinamento consente alla gestante di scegliere l’interesse da sacrificare[5].

La legge prevede e disciplina due ipotesi d’interruzione volontaria della gravidanza.

La prima (art. 4 l. 194/78) consente l’aborto, nei primi 90 giorni dal concepimento, quando sussistano circostanze che pongano in <<serio pericolo>> la salute fisica o psichica della madre, “…omissis…in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepitoomissis…”. In realtà, nei primi 90 giorni, vi è un’ampia facoltà per la madre di interrompere la gravidanza e ciò, in virtù del richiamo contenuto nella norma alla salute psichica della donna[6]. In questo primo periodo, dunque, il legislatore ritiene prevalente il diritto alla salute della donna e permette la lesione del diritto alla vita del nascituro.

Dopo i 90 giorni, invece, l’interruzione della gravidanza è praticata esclusivamente nella ricorrenza delle due ipotesi contemplate dall’art. 6. In linea generale diventa fondamentale la <<possibilità di vita autonoma del feto>>. Laddove, infatti, questa non sussista[7] la madre può interrompere la gravidanza in caso di “…omissis… accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna…omissis…”.

Diversamente, qualora il feto possa sopravvivere autonomamente una volta estratto dal grembo materno, l’aborto è unicamente consentito laddove sia in grave pericolo la vita della gestante. È chiara – in tali fattispecie – la scelta del legislatore che, pervenuta la gravidanza ad un certo stato, limita fortemente la possibilità di praticare l’aborto ed, infatti, non lo consente nei casi di generico pericolo alla salute, ancorché psichica, ma esclusivamente in caso di grave pericolo di vita della madre.

Per concludere, la valutazione in ordine ai presupposti per una legittima interruzione di gravidanza, ad avviso di chi scrive, deve essere effettuata caso per caso e ciò al fine di verificare se la condotta omissiva del sanitario abbia contribuito a ledere una situazione giuridicamente protetta. Diversamente, laddove una puntuale informazione da parte del medico non avrebbe comunque consentito il ricorso all’aborto, per mancanza dei presupposti di cui agli artt. 4 e 6 l. 194/78, l’omessa diagnosi della malformazione non può giustificare alcun risarcimento a fronte dell’impossibilità  per la madre di impedire la nascita.

 

Soggetti danneggiati

La determinazione dei soggetti danneggiati dalla condotta omissiva del medico ha occupato lungamente gli operatori del diritto[8], i quali sono pervenuti a conclusioni pressoché univoche.

L’omessa diagnosi, infatti, lede in primis il diritto all’autodeterminazione della madre la quale, come ricordato in precedenza, ha diritto alla procreazione cosciente e responsabile. La legge 194/78- infatti – consente solo alla gestante, nei casi in cui ciò sia possibile, di decidere circa l’interruzione volontaria della gravidanza. Consegue a quanto evidenziato una naturale legittimazione della madre a far valere giudizialmente i danni, patrimoniali e non, riportati a seguito della condotta del sanitario.

La risarcibilità dei danni riportati dal marito-padre ha comportato maggiori difficoltà, oggi definitivamente superate, alla luce della facoltà, unicamente concessa alla madre, di interrompere la gravidanza.

In altre parole veniva contestata la veste di danneggiato al soggetto padre il quale non aveva alcuna possibilità di incidere sulla decisione relativa all’interruzione di gravidanza e che, pertanto, non poteva subire alcun pregiudizio dall’omessa diagnosi[9].

La giurisprudenza ha ormai, pacificamente, superato questa obiezione frapposta alla risarcibilità del danno riportato dal marito[10]. In diverse decisioni, pur ribadendo e confermando che il “…padre non ha titolo per intervenire sulla decisione di interrompere la gravidanza, ai sensi della legge del 1978…omissis…”[11], è stato affermato che ciò non possa incidere sulla risarcibilità del danno che lo stesso potrebbe subire in conseguenza dell’omissione del medico, ostativa per la moglie all’interruzione della gravidanza. Al riguardo sembra particolarmente esaustivo un altro passo della citata sentenza dove si legge: “…omissis…la nascita indesiderata, invero, determina una radicale trasformazione delle prospettive di vita dei genitori, i quali si trovavano esposti a dover misurare (non i propri specifici “valori costituzionalmente protetti”, ma) la propria vita quotidiana, l’esistenza concreta, con le prevalenti esigenze della figlia, con tutti gli ovvi sacrifici che ne conseguono: le conseguenze della lesione del diritto di autodeterminazione nella scelta procreativa, allora finiscono per consistere proprio nei “rovesciamenti forzati dell’agenda” di cui parte della dottrina discorre nel prospettare la definizione del danno esistenziale…omissis…”.

Senza volersi addentrare nella tipologia di danni risarcibili, che sarà affrontata nel proseguo, appare – dunque – chiaro l’approdo al quale sono pervenuti gli interpreti.

Un primo orientamento giurisprudenziale, formatosi sul finire degli anni 90, configurava il pregiudizio del padre come “danno riflesso o da rimbalzo” dei prossimi congiunti[12]. La figura del danno riflesso era stata costruita dalla dottrina e dalla giurisprudenza, sulla scia della giurisprudenza francese, al fine di consentire la risarcibilità dei danni conseguenti al fatto illecito altrui “…omissis… di cui siano portatori soggetti diversi dall’originario danneggiato, ma in significativo rapporto con lui…omissis…”[13]. In una fattispecie di omessa diagnosi di malformazione del feto, facendo applicazione di tali concetti, la sentenza n 12195/98 aveva infatti affermato che qualora “…omissis… per il mancato legittimo esercizio del diritto di interruzione della gravidanza da parte della donna a norma dell’art. 6 l. n. 194/1978, la stessa abbia subito un danno grave alla salute, è ipotizzabile un danno, anche biologico, sotto il profilo del danno riflesso, dei prossimi congiunti (nella specie del marito della stessa), con la conseguenza che se detto danno subito dalla donna è da ascriversi a fatto colpevole di un terzo, nei confronti di questi il congiunto, danneggiato di riflesso, è legittimato a richiedere il risarcimento del danno…omissis…”. In un primo momento, dunque, si negava la configurabilità di un danno diretto al partner della donna a fronte dell’omessa diagnosi.
Successivamente la Cassazione ha riconosciuto un diritto al risarcimento del danno direttamente anche al padre. La responsabilità del medico, infatti, secondo l’orientamento oggi prevalente, deve essere ricollegata all’inadempimento di un’obbligazione contrattuale ovvero la mancata rilevazione delle condizioni del feto e la conseguente mancata formulazione della relativa diagnosi. Il padre, e in ciò consiste il cambiamento radicale di prospettiva dei giudici di legittimità, rientra tra i soggetti protetti dal contratto con il medico <<sulla base di tutte quelle norme dell’ordinamento che pongono madre e padre nella stessa posizione nei confronti della prole>>[14].

Alla luce della configurazione del contratto con il medico come <<ad effetti protettivi >> anche nei confronti del padre,  deriva la piena risarcibilità – a norma dell’art. 1223 c.c. – dei danni dallo stesso subiti in quanto conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento del professionista.

La sentenza n. 13/2010 si sofferma brevemente su una questione già esaminate dalla giurisprudenza della Cassazione: l’esistenza di un diritto a non nascere[15]. Qualora fosse configurabile un simile diritto, il minore nato con malformazioni potrebbe agire autonomamente nei confronti del sanitario inadempiente per la lesione del suo diritto a << non nascere>> se non sano. La sentenza citata, richiamando e facendo propri i principi affermati dalla storica sentenza n. 14488 del 2004, nega l’esistenza di un simile diritto. L’inesistenza del diritto a non nascere è dimostrata da diverse considerazioni.

L’ordinamento italiano, in primis, tutela la posizione e i diritti del concepito esclusivamente verso la nascita. Come –infatti – recita l’art. 1, comma 2, del c.c. «i diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all’evento della nascita». Il concepito – dunque – è titolare di un’aspettativa di diritto destinata a realizzarsi solo con l’evento nascita[16].

Si considerino, al riguardo, tutte le norme costituzionali poste a tutela della salute (32 cost.), della maternità (31, comma 2, cost.) e l’incipit della legge 194/78 che solennemente include tra i propri fini la tutela della vita umana dal suo inizio. Queste disposizioni consentono di cogliere che lo sforzo del legislatore è stato profuso esclusivamente verso la vita. In quest’ottica il soggetto nato ben potrebbe agire per danni nei confronti del medico, ma solo se questi abbia cagionato direttamente le malformazioni attraverso il suo operato.

Diversamente, in caso di omessa diagnosi di malformazioni nel periodo prenatale, non è ipotizzabile un diritto al risarcimento del danno in favore del minore.

Come sottolineato dalla storica e più volte ricordata sentenza del 2004, infatti, il diritto a non nascere (se non sani) sarebbe un diritto <<adespota>> in quanto, ai sensi dell’art. 1 c.c., lo stesso sarebbe privo di titolare sino al momento del parto mentre – successivamente allo stesso evento –  il diritto di cui si discute non esisterebbe più[17].

In conclusione, gli unici soggetti legittimati a far valere la responsabilità del ginecologo per i danni conseguiti all’omessa diagnosi di malformazioni fetali, risultano essere la madre e il padre del neonato malformato.

 

Danni risarcibili

Una volta determinati i soggetti pregiudicati dall’omessa diagnosi del ginecologo, occorre individuare le voci di danno risarcibile nelle fattispecie in esame.
Al riguardo appare superfluo soffermarsi sul danno alla salute, psichica e/o fisica, dei genitori che, laddove ricorrente, non comporta difficoltà applicative. Il giudice, in tali casi, potrà far ricorso all’ausilio di consulenti tecnici d’ufficio al fine di determinare le patologie in essere e liquidare, anche in via equitativa[18], il danno subito a tale titolo.

Come è stato efficacemente fatto notare dai giudici di legittimità[19]– nei casi come quello in esame- possono derivare ulteriori danni, sia di natura patrimoniale che non.

Quanto ai primi, si deve considerare che la nascita di un bambino malformato può comportare, per i genitori, spese e oneri economici superiori rispetto a quelle necessarie per il mantenimento di un minore sano. In applicazione degli articoli 1218, 1223, 1225 e 1227 c.c., dunque, il giudice di merito dovrà valutare, in via equitativa, quale sia il differenziale tra la spesa necessaria, sino alla completa indipendenza economica, per il mantenimento di un figlio “sano” e quella per il mantenimento di un figlio affetto  dal deficit riportato nel caso specifico e condannare il medico alla corresponsione di tale somma. La sentenza n. 13/2010, al riguardo, sottolinea che, laddove si determini che correttamente informata sulle malformazioni fetali la madre avrebbe optato per l’interruzione di gravidanza, “…omissis…l’indampimento posto in essere dalla…omissis…ha fatto si che la coppia debba sopportare per intero un costo economico che altrimenti non avrebbe avuto…omissis…”. In altre parole il costo del mantenimento del figlio deve essere interamente posto a carico del medico inadempiente e non solo nei limiti del suddetto differenziale, in quanto la possibilità di optare per l’aborto, negata dall’omessa informazione, avrebbe esonerato da ogni spesa i genitori.

La recente sentenza della Suprema Corte individua, infine, con mirabile chiarezza, il contenuto dell’ulteriore danno subito dai genitori, di natura esistenziale, a fronte della <<nascita indesiderata>>. La coppia, infatti, subisce – a seguito della nascita del figlio malformato – una <<radicale trasformazione delle prospettive di vita>>, le quali possono essere efficacemente sintetizzate nell’espressione utilizzata dai giudici di legittimità come “rovesciamenti forzati dell’agenda”. Ad ogni genitore, insomma, per effetto dell’inadempimento contrattuale del medico, viene imposta <<una vita diversa e peggiore di quella che avrebbe altrimenti condotto>> e ciò deve trovare specifica rilevanza in sede di liquidazione economica del pregiudizio subito. Sembra evidente come, una volta allegato, tale danno possa essere liquidato esclusivamente in via equitativa dal giudice.

 

 


[1] In tal senso la nota sentenza della Corte di Cassazione, sulla quale si tornerà nel proseguo, III sezione Civile, n. 14488 del 29 Luglio 2004.

[2] Il diritto all’autodeterminazione dei genitori è sancito dall’art. 1 della l. 194/78 che afferma “lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile”;

[3] In tal senso Cassazione n. 13/2010. I giudici della Suprema Corte hanno avuto modo di sottolineare, in diverse pronunce, che il giudice può ritenere come normale e corrispondente a regolarità causale l’interruzione della gravidanza a fronte della comunicazione di gravi malformazioni e, pertanto, in caso di omessa diagnosi considerare il mancato esercizio del diritto conseguenza naturale del predetto inadempimento (in tal senso ex multis Cassazione 11488/04).

[4] Cfr. comma 2 art. 1 legge cit. Al riguardo si riporta una massima del Tribunale di Catania, sentenza del 19 Marzo 2006 n. 1037: “…omissis… l’art. 1 della legge n. 194/1978, oltre a ribadire i principi costituzionali del diritto alla procreazione cosciente e responsabile e del valore sociale della maternità, stabilisce che la vita umana debba essere tutelata sin dal suo inizio. Le norme della suddetta legge sulle quali si fonda l’aborto sono norme di legge ordinaria poste a presidio di rilevanti e irrinunciabili valori costituzionali e la possibilità della donna di abortire si fonda solo sulla necessità di bilanciare beni di rilievo costituzionale, la salute del figlio e quella della madre, quando si vengano a trovare in conflitto fra loro. In assenza di tale conflitto, e della conseguente esigenza di bilanciamento dei beni tutelati dalla Costituzione, è escluso che la donna possa sopprimere il feto.

[5]In tal senso la Cassazione con la sent. N. 13/2010. Cfr. anche Sabina Anna Rita Galluzzo, L’errore del sanitario ha precluso alla donna di avvalersi dell’aborto, in Famiglia e Minori, Guida al Diritto, n. 2/2010, pag. 44 e ss.

[6] Il benessere psichico della gestante è compromesso, secondo la giurisprudenza, qualora sia possibile un semplice “turbamento dell’equilibrio” della donna. In tal senso Cassazione n. 10669 del 1981.

[7] Cfr. sul punto la sentenza della Cassazione n. 6735 del 10 Maggio 2002 che definisce il concetto di possibilità autonoma di vita del feto. Ritiene la Cassazione che sussiste tale possibilità qualora sia raggiunto quel“…omissis…grado di maturità che gli consentirebbe, una volta estratto dal grembo della madre, di mantenersi in vita e di completare il suo processo di formazione anche fuori dal grembo materno…omissis… l’eventuale interrogativo concernente la possibilità di vita autonoma del feto va risolto avendo riguardo al grado di maturità raggiunto dal feto nel momento in cui il medico ha mancato di tenere il comportamento che da lui ci si doveva attendere…omissis…”

[8] Cfr. Madeo Francesco, l’inesatta informazione del medico non costituisce di per se un illecito, in Guida al Diritto, n. 35 del 2005. In giuriprudenza ex multis Tribunale di Roma 16.01.2009 n. 965

[9] La Corte Costituzionale con l’ordinanza n. 389 del  31 marzo 1988, n. 389 ha confermato la piena legittimità di tale scelta legislativa

[10] Cfr. in tal senso Cassazione 29 Luglio 2004, n. 14488, Cassazione 10 Maggio 2002, n. 6735, Cassazione 11 Maggio 2009, n. 10741.

[11] Così anche Cassazione 13/2010.

[12] Cfr. Cassazione 12195/98

[13] Cosi Cassazione 12195/98. In tema di danno riflesso Cfr. Cass. 6.3.1997, n. 2009; Cass. 10.11.1993, n. 11087; Cass. 11.1.1989, n. 65; Cass. 18.7.1987, n. 6325; Cass. 20.5.1986, n. 3353; Cass. 16.6.1984, n. 3609.

[14] Cosi Cassazione 20 Ottobre 2005 n. 20320 con riferimento agli artt. 29 e 30 Cost., artt. 143, 147, 261 e 279 c.c. .

[15] Sul tema Cfr. la sentenza n. 14488 del 2004, III Sezione Civile della Cassazione che risolve per la prima volta la questione.

[16] A conferma di questa considerazione si consideri – ad esempio – che in materia di capacità a succedere del concepito, qualora poi non sopravvenga la nascita, l’eredità si dovrebbe devolvere nei confronti di coloro al quale sarebbe spettata ove il concepito non fosse mai stato tale.

[17] Per approfondire lo studio della materia : VENNERI , «Diritto del nascituro a nascere sano», Rass. dir. civ. comm., 1994, f. 4 ; BALDINI , «Il nascituro e la soggettività giuridica», in Dir. fam. e pers., 2000, II.

[18] In tal senso Cassazione n. 20320 del 20 Ottobre 2005 che ritiene l’equità  “…omissis… unica possibile forma di liquidazione di ogni danno privo, come il danno biologico (ed il danno morale), delle caratteristiche della patrimonialità…omissis…”.

[19] Ex multis Cassazione 6464/1994 nel senso che il danno risarcibile non possa essere limitato al solo danno alla salute della gestante. È pacifico, infatti, che il pericolo di danno grave alla salute delimiti il diritto all’aborto e non la responsabilità contrattuale del ginecologo.

Salvioni Riccardo

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