Responsabilità ospedale per infezione post intervento chirurgico

L’ospedale è responsabile dell’infezione subita dal paziente se emersa subito dopo ad un intervento chirurgico.

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L’ospedale è responsabile dell’infezione subita dal paziente se emersa subito dopo ad un intervento chirurgico. Per approfondire questa materia, consigliamo il volume Manuale pratico operativo della responsabilità medica

Indice

1. I fatti: l’infezione post-operatoria


Una paziente di un ospedale pugliese agiva in giudizio nei confronti della struttura sanitaria per ottenere il risarcimento dei danni subiti a causa di una infezione nocosomiale contratta durante il ricovero per un intervento chirurgico.
In particolare, l’attrice sosteneva di aver subito un infortunio al polso destro, per il quale veniva ricoverata presso l’Ospedale e quindi sottoposta ad un intervento per la riduzione della frattura del femore e una settimana dopo ad un secondo intervento di osteosintesi del polso, all’esito del quale veniva dimessa.
Tuttavia, circa un mese dopo le dimissioni, l’attrice era costretta ad accedere presso un altro ospedale a causa di un focolaio bronco-polmonare destro, che veniva curato con una terapia antibiotica. Nonostante ciò, la paziente si aggravava e veniva pertanto ricoverata presso il reparto di Malattie infettive con diagnosi di “stato settico”. Successivamente, la paziente era sottoposta ad un intervento chirurgico di sostituzione della valvola mitralica con sostituzione di una protesi meccanica e veniva isolato un batterio fecale, con conseguente nuovo ricovero per la paziente.
Al termine del predetto iter ospedaliero, quindi, alla signora veniva diagnosticata una endocardite infettiva della valvola mitrale a causa del predetto batterio fecale, con conseguente sepsi.
L’attrice riteneva che l’infezione (che aveva causato l’endocardite e la relativa sepsi) era avvenuta durante la degenza presso l’Ospedale convenuto, a causa della mancata adozione delle misure volte a garantire la sterilità degli ambienti sanitari.
In ragione di ciò, aveva introdotto un ricorso ex art. 696 bis c.p.c., all’esito del quale il perito nominato d’ufficio aveva ritenuto che l’infezione fosse riconducibile alla degenza ospedaliera ed aveva quantificato il danno in €. 76.000 circa.
Nonostante ciò, la struttura sanitaria convenuta contestava la fondatezza della domanda attore, ritenendo che non vi fosse prova in ordine al nesso causale tra la condotta dei sanitari e l’insorgenza dell’infezione. Per approfondire questa materia, consigliamo il volume Manuale pratico operativo della responsabilità medica

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2. Le valutazioni del Tribunale


Il giudice pugliese ha ricordato che, in tema di responsabilità medica, il danno-evento non si sostanzia nella lesione dell’interesse strumentale alla cui soddisfazione è preposta l’obbligazione a carico del medico (cioè il perseguimento delle leges artis nella cura del paziente), bensì nella lesione del diritto alla salute (che, invece, è l’interesse primario presupposto all’interesse contrattualmente regolato).
Pertanto, nel caso in cui sia dedotta la responsabilità contrattuale del debitore per l’inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, il danneggiato avrà l’onere di provare il nesso di causalità tra l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di una nuova patologia e la condotta posta in essere dall’obbligato.
Una volta raggiunta una siffatta prova da parte dell’attore, graverà invece sull’obbligato la prova che la prestazione non poteva essere eseguita in maniera esatta per causa imprevedibile e inevitabile.
In particolare, in tema di infezioni nocosomiali, la Cassazione ha applicato le suddette regole probatorie, stabilendo che la struttura sanitaria deve provare di aver adottato tutte le cautele prescritte dalle vigenti normative e dalle leges artis al fine di prevenire l’insorgenza di patologie infettive nonché di aver applicato i protocolli di prevenzione delle infezioni nel caso specifico.
Inoltre, per poter affermare la responsabilità della struttura sanitaria, rilevano e devono essere valutati anche tre diversi criteri:

  • il criterio temporale, cioè il numero di giorni trascorsi tra le dimissioni dall’ospedale e l’insorgenza dei sintomi dell’infezione,
  • il criterio topografico, cioè l’insorgenza dell’infezione nel sito chirurgico interessato dall’intervento in assenza di patologie preesistenti e di cause sopravvenuta eziologicamente rilevanti,
  • il criterio clinico, cioè quali misure di prevenzione sarebbe stato necessario adottare, in ragione della specificità dell’infezione.

Invece, per poter dimostrare di aver adottato tutte le misure utili alla prevenzione delle infezioni ospedaliere, la struttura sanitaria deve indicare: a) i protocolli relativi alla disinfezione, disinfestazione e sterilizzazione di ambienti e materiali; b) le modalità di raccolta, lavaggio e disinfezione della biancheria; c) le forme di smaltimento dei rifiuti solidi e dei liquami; d) le caratteristiche della mensa e degli strumenti di distribuzione di cibi e bevande; e) le modalità di preparazione, conservazione ed uso dei disinfettanti; f) la qualità dell’aria e degli impianti di condizionamento; g) l’attivazione di un sistema di sorveglianza e di notifica; h) i criteri di controllo e di limitazione dell’accesso ai visitatori; i) le procedure di controllo degli infortuni e delle malattie del personale e le profilassi vaccinali; j) il rapporto numerico tra personale e degenti; k) le misure di sorveglianza basate sui dati microbiologici di laboratorio; l) il report ad opera delle direzioni dei reparti da comunicare alle direzioni sanitarie al fine di monitorare i germi patogeni-sentinella; m) l’orario della effettiva esecuzione delle attività di prevenzione del rischio.

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3. La decisione del Tribunale


Nel caso di specie, il giudice ha ritenuto provato il collegamento causale tra la degenza della paziente presso l’ospedale convenuto e l’insorgenza dell’infezione.
A tal proposito, il CTU ha precisato che la maggior parte delle infezioni da batterio fecale come nel caso di specie sono di origine nosocomiale e che da un punto di vista cronologico la diagnosi di endocardite della paziente interveniva poco più di tre mesi dopo le dimissioni dall’ospedale convenuto e dagli esami eseguiti emergeva la presenza di un processo infiammatorio di natura infettiva (che aveva portato all’endocardite).
Pertanto, il perito ha ritenuto dimostrata la presenza di una situazione infettiva dopo la degenza ospedaliera e che le cure adottate (comprese gli antibiotici) non hanno impedito lo svilupparsi della patologia.
Inoltre, il perito ha rilevato come nel corso dei vari ricoveri della paziente presso i due nosocomi non erano state riferite alterazioni cardiache della paziente medesima, con conseguente esclusione della ricorrenza di una patologia pregressa.
In ragione di ciò, il giudice ha ritenuto di poter ricondurre la patologia alla valvola mitralica all’infezione avuta subito dopo l’intervento presso la struttura sanitaria convenuta.
Dal canto suo, invece, la struttura sanitaria non ha dimostrato l’adozione di quelle misure di prevenzione che la stessa avrebbe dovuto assicurare ai pazienti per contenere il rischio infettivo.
Infine, il giudice ha rilevato che i risultati della CTU sono confortati anche dalle dichiarazioni dei testi, i quali hanno escluso la ricorrenza di una causa alternativa di contagio, in quanto parte attrice è rimasta sempre in casa a seguito delle dimissioni dall’ospedale convenuto.
Conseguentemente, il giudice ha condannato il predetto convenuto a risarcire i danni subiti dall’attrice.

Avv. Muia’ Pier Paolo

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