Ai sensi dell’art.2051 c.c. «ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito».
Il caso fortuito atto ad escludere la responsabilità del custode è inteso quale evento interruttivo del nesso causale tra cosa in custodia ed evento dannoso: «In tema di responsabilità ex art. 2051 c.c., per ottenere l’esonero della stessa, il custode deve provare che il fatto presenti i requisiti dell’autonomia, dell’eccezionalità, dell’imprevedibilità e dell’inevitabilità e che sia, quindi, idoneo a interrompere il nesso causale tra cosa in custodia e danno e il rapporto di custodia fra il soggetto e la cosa stessa, concretando così gli estremi del caso fortuito» (C. Cass., Sez. VI, 30/9/2014, n. 20619). L’amministrazione è liberata dalla responsabilità ex art.2051 c.c. laddove «dimostri che l’evento sia stato determinato da cause estrinseche ed estemporanee create da terzi, non conoscibili né eliminabili con immediatezza, neppure con la più diligente attività di manutenzione, ovvero da una situazione (nella specie, una macchia d’olio, presente sulla pavimentazione stradale, che aveva provocato un sinistro stradale) la quale imponga di qualificare come fortuito il fattore di pericolo, avendo esso esplicato la sua potenzialità offensiva prima che fosse ragionevolmente esigibile l’intervento riparatore dell’ente custode» (C. Cass., Sez. VI, 27/3/2017, n. 7805, in Arch. giur. circol. e sinistri 2017, 7-8, 630). Ex art.2051 c.c. non è sufficiente la dimostrazione dell’assenza di colpa da parte del custode, ma si richiede la prova positiva della causa esterna (fatto materiale, fatto del terzo, fatto dello stesso danneggiato) che, per imprevedibilità, eccezionalità, inevitabilità, sia completamente estranea alla sfera di controllo del custode, restando così a carico di quest’ultimo anche il danno derivante da causa rimasta ignota (2).
L’art.2051 c.c., per altro verso, implica sì una presunzione di responsabilità in capo al custode, ma mantiene, in capo al danneggiato, l’onere di provare il verificarsi dell’evento dannoso e del suo rapporto di causalità con il bene in custodia; solo una volta provate queste circostanze, il custode, per escludere la sua responsabilità, avrà l’onere di provare il caso fortuito, ossia l’esistenza di un fattore estraneo che, per il suo carattere di imprevedibilità e di eccezionalità, sia idoneo ad interrompere il nesso causale (in tal senso C. Cass., Sez. III, 29/1/2016, n.1677).
La causa esterna può essere rappresentata anche dal fatto dello stesso danneggiato: «quanto più la situazione di pericolo connessa alla struttura o alle pertinenze della strada pubblica è suscettibile di essere prevista e superata dall’utente danneggiato con l’adozione di normali cautele, tanto più rilevante deve considerarsi l’efficienza del comportamento imprudente del medesimo nella produzione del danno, fino a rendere possibile che il suo contegno interrompa il nesso eziologico tra la condotta omissiva dell’ente proprietario della strada e l’evento dannoso» (C. Cass., Sez. III, 13/1/2015, n.287, in Giust. Civ. Mass. 2015) (3). «L’ente proprietario d’una strada aperta al pubblico transito risponde ai sensi dell’art. 2051 c.c., per difetto di manutenzione, dei sinistri riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo. Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà tener conto che quanto più questo è suscettibile di essere previsto e superato attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato, tanto più il comportamento della vittima incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta attribuibile all’ente e l’evento dannoso» (C. Cass., Sez. VI, 26/9/2017, n. 22419, in Diritto & Giustizia 2017) (4). «Esclusa la responsabilità dell’Ente gestore nell’ipotesi di sinistro su strada accidentata allorché sia emersa una responsabilità esclusiva della conducente del ciclomotore la quale, proprio a causa del pericolo evidente, determinato dalla presenza di una strada dissestata per un lungo tratto precedente il punto in cui si era verificata la caduta, aveva posto in essere una condotta che aveva costituito la ragione esclusiva del fatto dannoso» (C. Cass., Sez. VI, 11/5/2017, n. 11753, in Diritto & Giustizia 2017) (5).
D’altro canto, «la condotta della vittima del danno causato da una cosa in custodia può costituire un “caso fortuito”, ed escludere integralmente la responsabilità del custode ai sensi dell’art. 2051 c.c., quando abbia due caratteristiche: sia stata colposa, e non fosse prevedibile da parte del custode»: C. Cass., Sez. III, 31/10/2017, n. 25837 (in Diritto & Giustizia 2017). Il caso giunto all’attenzione della suprema Corte riguardava un condomino che era caduto, riportando lesioni personali, inciampando mentre usciva dall’ascensore condominiale a causa del dislivello formatosi tra il pavimento della cabina ascensore e quello del piano di arresto; ciò dà modo alla Cassazione (Consigliere rel. Marco Rossetti), partendo da un rescritto dell’imperatore Augusto, di ricostruire le caratteristiche del caso fortuito quale evento che praevideri non potest anche con riferimento al fatto colposo del danneggiato: «Il codice civile non dà la definizione di “caso fortuito”: nondimeno, per millenaria tradizione giuridica, con quell’espressione si designa l’evento che non poteva essere in alcun modo previsto o, se prevedibile, non poteva essere in alcun modo prevenuto. Già un rescritto dell’imperatore Augusto, inviato ai prefetti del pretorio Fusco e Destro (e tramandato dal Codex Iustiniani, Libro IV, Titolo XXIV, p. 6, De casu fortuito) sancì che quae fortuitis casibus accidunt, cum praevideri non potuerint (…), nullo bonae (idei judicio praestantur. Il precetto passò tal quale nel diritto intermedio (casus fortuitus non est sperandus, et nemo tenetur divinare), e da questo pervenne immutato all’età delle codificazioni, ed ai codici attuali. In questi, tuttavia, fu conservato il precetto (il debitore è liberato dal caso fortuito: si vedano ad esempio l’art. 1492 c.c., comma 3, in tema di perimento della cosa venduta; art. 1637 c.c., in tema di accollo da parte dell’affittuario del rischio di caso fortuito; art. 1686 c.c., comma 3, in tema di responsabilità del vettore; art. 1805 c.c., in tema di responsabilità del comodatario), ma se ne obliò la giustificazione (il “cum praevideri non potuerint” del rescritto augusteo), probabilmente perché ritenuta dal legislatore ovvia e scontata. “Caso fortuito”, dunque, per la nostra legge è quell’evento che non poteva essere previsto (ad esempio, un terremoto). Ed al caso fortuito è equiparata la forza maggiore, ovvero l’evento che, pur prevedibile, non può essere evitato (ad esempio, un evento atmosferico). La condotta della vittima d’un danno causato da una cosa custodia, pertanto, in tanto può escludere la responsabilità del custode, in quanto possa reputarsi “caso fortuito”; e può reputarsi tale quando fu imprevedibile da parte del custode (tra le più recenti, in tal senso, Sez. 3, Sentenza n. 18317 del 18/09/2015)». Ma «una condotta imprevedibile della vittima non è necessariamente una condotta colposa, né è vero il contrario. I giudizi di “negligenza” della vittima, e di “imprevedibilità” della sua condotta da parte del custode, non si implicano a vicenda. Il primo va compiuto guardando al danneggiato, e comparando la condotta da questi concretamente tenuta con quella che avrebbe tenuto una persona di normale avvedutezza, secondo lo schema di cui all’art. 1176 c.c.. Il secondo va compiuto invece guardando al custode, e valutando con giudizio ex ante se questi potesse ragionevolmente attendersi una condotta negligente da parte dell’utente delle cose affidate alla sua custodia. Potremo dunque avere condotte del danneggiato prudenti e imprevedibili, prudenti e prevedibili, imprudenti ed imprevedibili, imprudenti e prevedibili. Le prime due ipotesi non escludono mai la colpa del custode; la terza ipotesi la esclude sempre; la quarta ipotesi può escluderla in parte. La eterogeneità tra i concetti di “negligenza della vittima” e di “imprevedibilità” della sua condotta da parte del custode ha per conseguenza che, una volta accertata una condotta negligente, distratta, imperita, imprudente, della vittima del danno da cose in custodia, ciò non basta di per sé ad escludere la responsabilità del custode. Questa è infatti esclusa dal caso fortuito, ed il caso fortuito è un evento che praevideri non potest. L’esclusione della responsabilità del custode, pertanto, quando viene eccepita dal custode la colpa della vittima, esige un duplice accertamento: a) che la vittima abbia tenuto una condotta negligente; b) che quella condotta non fosse prevedibile. In questo senso, di recente, si è già espressa questa Corte, stabilendo che la mera disattenzione della vittima non necessariamente integra il caso fortuito per i fini di cui all’art. 2051 c.c., in quanto il custode, per superare la presunzione di colpa a proprio carico, è tenuto a dimostrare di avere adottato tutte le misure idonee a prevenire i danni derivanti dalla cosa (Sez. 3, Sentenza n. 13222 del 27/06/2016). La condotta della vittima d’un danno da cosa in custodia può dirsi imprevedibile quando sia stata eccezionale, inconsueta, mai avvenuta prima, inattesa da una persona sensata. Stabilire se una certa condotta della vittima d’un danno arrecato da cose affidate alla custodia altrui fosse prevedibile o imprevedibile è un giudizio di fatto, come tale riservato al giudice di merito: ma il giudice di merito non può astenersi dal compierlo, limitandosi a prendere in esame soltanto la natura colposa della condotta della vittima. Nel caso di specie la Corte d’appello, come accennato, ha rigettato la domanda sul presupposto che causa della caduta fu la distrazione della vittima, e che di conseguenza ricorresse una ipotesi di “caso fortuito”, come tale idoneo ad escludere la responsabilità del custode di cui all’art. 2051 c.c.. E’ giunta a tale conclusione osservando che il dislivello tra la cabina dell’ascensore ed il pavimento del piano di arresto costituisce una situazione “normale e prevedibile”; che l’ambiente in cui avvenne il fatto non era oscuro; che l’ascensore non era guasto; e che la vittima doveva essere più attenta, a causa delle sue limitate capacità di deambulazione. La Corte d’appello, dunque, ha reputato sussistente una ipotesi di caso fortuito prendendo in esame unicamente la condotta della vittima, qualificata come negligente, ma senza esaminare se quella condotta potesse ritenersi imprevedibile, eccezionale od anomala da parte del custode. Così giudicando, la Corte d’appello ha effettivamente violato l’art. 2051 c.c., perché ha ravvisato nella condotta della vittima un caso fortuito, senza indagare sulla sussistenza d’uno dei due elementi costitutivi di tale istituto: ovvero la prevedibilità di quella condotta da parte del custode. Soluzione, quest’ultima, non condivisibile, e che finisce per condurre ad una sorta di moderno paradosso di Epimenide, in quanto delle due l’una: – se la condotta della vittima è prudente, essa è in grado di avvistare il pericolo ed evitarlo, ed alcun danno potrebbe mai verificarsi, sicché in questo caso la responsabilità del custode mai potrebbe sorgere; – se la condotta della vittima è imprudente, tale imprudenza escluderebbe di per sé la responsabilità del custode, la quale anche in questo caso mai potrebbe perciò sorgere. Per questa via, si perverrebbe di fatto a ridurre drasticamente, quando non ad eliminare del tutto, la presunzione di responsabilità prevista dall’art. 2051 c.c., e l’evidente assurdità di questo approdo rende palese la non condivisibilità della sua premessa, ovvero che basti la sola negligenza della vittima del danno da cose in custodia per escludere la responsabilità del custode».
Il fatto dello stesso danneggiato può essere di importanza tale da escludere del tutto il nesso di causalità, integrando il fortuito ovvero, anche quando ciò non avvenga, il “fatto colposo” del danneggiato può comunque essere rilevante ai sensi dell’art.1227, comma 1, c.c. sul c.d. concorso di colpa, applicabile anche nell’ambito della responsabilità extracontrattuale per effetto del richiamo contenuto nell’art.2056 c.c..
L’onere della prova del concorso del fatto colposo del danneggiato nella causazione dell’evento dannoso, secondo i principi generali, grava sul danneggiante (art.2697 c.c.). Si sono espresse in tal senso anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, 13/1/2005, n.564 (in Giust. Civ. Mass. 2005, 1): «In tema di risarcimento del danno, l’art. 1227 c.c., nel disciplinare il concorso di colpa del creditore nella responsabilità contrattuale, applicabile per l’espresso richiamo di cui all’art. 2056 c.c. anche alla responsabilità extracontrattuale, distingue l’ipotesi in cui il fatto colposo del creditore o del danneggiato abbia concorso al verificarsi del danno (comma 1), da quella in cui il comportamento dei medesimi ne abbia prodotto soltanto un aggravamento senza contribuire alla sua causazione (comma 2); solo la situazione contemplata nel comma 2 costituisce oggetto di una eccezione in senso stretto, nel primo caso, invece, il giudice di merito deve d’ufficio verificare, sulla base delle prove acquisite, se il danneggiato abbia o meno concorso a determinare il danno; al riguardo – una volta che il danneggiato abbia offerto la prova del danno e della sua derivazione causale dall’illecito – costituisce onere probatorio del danneggiante dimostrare che il danno sia stato prodotto, pur se in parte, anche dal comportamento del danneggiato (art. 1227 c.c., comma 1) ovvero che il danno sia stato ulteriormente aggravato da quest’ultimo (art. 1227 c.c., comma 2)» (6).
Caso fortuito per fatto dello stesso danneggiato, da un lato, e concorso colposo del danneggiato ex art.1227, comma 1, c.c., dall’altro, portano l’attenzione sulle norme di comportamento stabilite in particolare dagli articoli 140, comma 1, 141, commi 1, 2, 3 e 4, 146, comma 1, del Codice della Strada (D. Lgs. 285/1992) e dall’art. 342 del relativo regolamento di esecuzione (D.P.R. 495/1992): gli utenti della strada devono comportarsi in modo da non costituire pericolo o intralcio per la circolazione ed in modo che sia in ogni caso salvaguardata la sicurezza stradale (art.140, comma 1); è obbligo del conducente regolare la velocità del veicolo in modo che, avuto riguardo alle caratteristiche, allo stato ed al carico del veicolo stesso, alle caratteristiche e alle condizioni della strada e del traffico e ad ogni altra circostanza di qualsiasi natura, sia evitato ogni pericolo per la sicurezza delle persone e delle cose ed ogni altra causa di disordine per la circolazione (art.141, comma 1); il conducente deve sempre conservare il controllo del proprio veicolo ed essere in grado di compiere tutte le manovre necessarie in condizione di sicurezza, specialmente l’arresto tempestivo del veicolo entro i limiti del suo campo di visibilità e dinanzi a qualsiasi ostacolo prevedibile (art.141, comma 2); in particolare, il conducente deve regolare la velocità nei tratti di strada a visibilità limitata, nelle curve, in prossimità delle intersezioni e delle scuole o di altri luoghi frequentati da fanciulli indicati dagli appositi segnali, nelle forti discese, nei passaggi stretti o ingombrati, nelle ore notturne, nei casi di insufficiente visibilità per condizioni atmosferiche o per altre cause, nell’attraversamento degli abitati o comunque nei tratti di strada fiancheggiati da edifici (art.141, comma 3); il conducente deve, altresì, ridurre la velocità e, occorrendo, anche fermarsi quando riesce malagevole l’incrocio con altri veicoli, in prossimità degli attraversamenti pedonali e, in ogni caso, quando i pedoni che si trovino sul percorso tardino a scansarsi o diano segni di incertezza e quando, al suo avvicinarsi, gli animali che si trovino sulla strada diano segni di spavento (art.141, comma 4); l’utente della strada è tenuto ad osservare i comportamenti imposti dalla segnaletica stradale e dagli agenti del traffico a norma degli articoli da 38 a 43 e delle relative norme del regolamento (art.146, comma 1). Ai sensi dell’art. 342 Reg. CDS «L’obbligo di limitare la velocità, di cui all’articolo 141, comma 1, del codice inizia dal momento in cui sia possibile al conducente percepire l’esistenza di un pericolo e, comunque, in presenza di un segnale di prescrizione o di pericolo».
Gli Enti proprietari (o gestori) delle strade, ai sensi dell’art.14, comma 1, lett. c), del Codice della Strada devono provvedere alla apposizione ed alla manutenzione della segnaletica stradale, la quale deve essere sempre mantenuta in efficienza, reintegrata o rimossa quando risulti anche parzialmente inefficiente o non più rispondente allo scopo per il quale è stata collocata (art.38, comma 7, CDS). La relazione tra cura della strada e incidentalità stradale è presa in considerazione anche dalla Direttiva sulla segnaletica stradale del 24/10/2000: «Numerosi sinistri stradali, infatti, derivano dall’assenza di segnaletica, dall’inadeguatezza della stessa rispetto alle condizioni della strada e del traffico, da sua tardiva o insufficiente percepibilità, dalla collocazione irregolare, dall’usura dei materiali o dalla mancata manutenzione, ovvero dall’installazione in condizioni difformi dalle prescrizioni del regolamento» (§ 1.3). «(…) agli Enti proprietari spetta l’obbligo di controllare la presenza e l’efficienza dei segnali e di disporre il ripristino di quelli rimossi» (§ 2.7). Il §7 della Direttiva è dedicato al controllo dell’efficienza e manutenzione della segnaletica: «Il controllo tecnico della segnaletica… consiste nella delicata e costante azione che l’ente deve assicurare per mantenere a livello ottimale le condizioni di manutenzione e di efficienza della segnaletica stradale nella sua più ampia accezione: verticale, orizzontale, luminosa e complementare», provvedendo in particolare alla ricognizione ed alla verifica delle condizioni di impiego. «E’ indispensabile che gli Enti proprietari delle strade porgano la massima cura nell’assicurare una continua e accurata ‘assistenza’ al cospicuo patrimonio di arredo stradale, che richiede, come qualunque installazione, una adeguata manutenzione e la verifica periodica delle condizioni di efficacia».
Non si ritiene, invece, utile allo scopo (risultando addirittura controproducente) l’esagerazione sull’imposizione dei limiti di velocità localizzati. «Non sembra superfluo ricordare che la presunzione di una maggiore sicurezza, che deriverebbe dall’imposizione di limiti massimi di velocità più bassi del normale, è puramente illusoria; l’esperienza insegna, infatti, che divieti non supportati da effettive esigenze vengono sistematicamente disattesi, dando luogo, altresì, ad una diseducativa sottovalutazione di tutta la segnaletica prescrittiva e, talvolta, all’irrogazione di sanzioni che non hanno reale fondamento. (…). E’ dimostrato che i provvedimenti, anche se restrittivi, vengono generalmente accettati e rispettati dagli utenti della strada se improntati a criteri ispirati alla logica ed alla razionalità delle soluzioni» (Direttiva sulla segnaletica stradale del 24/10/2000, § 5.1). «Limitazioni non supportate da effettiva necessità sottraggono anche dignità e validità al divieto imposto, riducono la fiducia degli utenti della strada nei confronti degli Enti gestori della stessa (…), determinando così una diseducativa perdita di credibilità su tutte le limitazioni imposte, con conseguente mancato rispetto del limite anche nei casi in cui esso è determinante ai fini della sicurezza» (c.d. Seconda Direttiva sulla segnaletica stradale del 27/4/2006, § 2.2) (7).
Stefano Gennai
(1) Non è sempre stato così. Per lungo tempo, infatti, si è ritenuto che l’art.2051 c.c. non fosse applicabile in questi casi e che si dovesse invece applicare la norma generale di cui all’art.2043 c.c., collegando la responsabilità dell’Ente proprietario/gestore alla sussistenza di una “insidia o trabocchetto” presente sulla strada, ossia ad una situazione di pericolo caratterizzato sul piano oggettivo dalla non visibilità e sul piano soggettivo dalla non prevedibilità (v., ad es., C. Cass., Sez. III, 1/12/2004, n.22592; C. Cass., Sez. III, 31/7/2002, n. 11366). L’evoluzione ha portato a C. Cass., Sez. III, 12/4/2013, n.8935: «(…) La giurisprudenza di questa Corte ha ormai da tempo chiarito che la disciplina prevista dall’art. 2051 cod. civ. è applicabile anche agli enti pubblici proprietari di strade aperte al pubblico transito o, comunque, preposti alla loro manutenzione. Si è detto, a questo proposito, che l’ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito si presume responsabile dei sinistri riconducibili alle situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, salvo il fortuito (sentenze 20 novembre 2009, n. 24529, e 18 ottobre 2011, n. 21508); e, in riferimento alle autostrade, attesa la loro natura destinata alla percorrenza veloce in condizioni di sicurezza, si è detto che è configurabile, in genere, l’esistenza di un rapporto di custodia (sentenze 6 luglio 2006, n. 15383, e 19 maggio 2011, n. 11016 cit.); tale rapporto fa sì che la responsabilità della pubblica amministrazione debba essere vagliata senza alcun apprezzamento dell’elemento soggettivo della colpa, poiché l’art. 2051 cod. civ. esclude la responsabilità solo in presenza del caso fortuito. La giurisprudenza di questa Corte, inoltre, ha anche avuto modo di specificare che, quando il danno sia stato determinato non da cause intrinseche al bene demaniale (quale il vizio costruttivo o manutentivo), bensì da cause estrinseche ed estemporanee create da terzi – quali, ad esempio, l’abbandono improvviso sulla strada di oggetti pericolosi – è configurabile il caso fortuito ai fini dell’esonero dalla responsabilità. In simili casi, infatti, si è in presenza di quelle alterazioni repentine e non specificamente prevedibili dello stato della cosa che, nonostante l’attività di controllo e la diligenza impiegata allo scopo di garantire un intervento tempestivo, non possono essere rimosse o segnalate per difetto del tempo strettamente necessario a provvedere (in questi termini v., in aggiunta alle pronunce sopra richiamate, le sentenze 3 aprile 2009, n. 8157, 19 novembre 2009, n. 24419, 18 luglio 2011, n. 15720, e 26 giugno 2012, n. 10643). Alla luce di tali precedenti, risulta pacificamente infondato il primo motivo di ricorso nel quale, richiamando una giurisprudenza ormai superata, l’ANAS sostiene che nel caso in esame non dovrebbero trovare applicazione le regole dell’art. 2051 cod. civ., bensì quelle dell’art. 2043 cod. civ. (…)».
(2) Il Codice civile non detta disposizioni circa il nesso di causalità, pertanto, anche in materia di illecito civile si applicano gli articoli 40 e 41 del Codice penale: «In assenza di norme civili che specificamente regolino il rapporto causale, ancora occorre far riferimento ai principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p., con la particolarità che in questo caso il nesso eziologico andrà valutato non tra la condotta del soggetto chiamato a rispondere, ma tra l’elemento individuato dal criterio di imputazione e l’evento dannoso. In altri termini, mentre nella responsabilità penale il rapporto eziologico ha sempre come punto di riferimento iniziale la condotta dell’agente, in tema di responsabilità civile extracontrattuale il punto di partenza del segmento causale rilevante può essere anche altro, se in questi termini la norma fissa il criterio di imputazione, ma le regole per ritenere sussistente, concorrente, insussistente o interrotto il nesso causale tra tale elemento e l’evento dannoso, in assenza di altre disposizioni normative, rimangono quelle fissate dagli artt. 40 e 41 c.p.. (…). Essendo questi i principi che regolano il procedimento logico-giuridico ai fini della ricostruzione del nesso causale, ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non”, stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti» (Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, 11/1/2008, n.576).
(3) Corte di Cassazione, Sez. III, 13/1/2015, n.287: «(…). La motivazione della sentenza impugnata è gravemente lacunosa e quasi apodittica nella valutazione delle responsabilità. Se è vero che sussiste una responsabilità del Comune verso i terzi per la custodia e la manutenzione delle strade, è altrettanto vero che vi è un dovere dei terzi di uso corretto e responsabile dei suddetti manufatti in custodia, soprattutto per quanto concerne i rischi creati da situazioni contingenti, quali le condizioni atmosferiche. Questa Corte ha più volte chiarito che l’ente proprietario d’una strada aperta al pubblico transito risponde ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., per difetto di manutenzione, dei sinistri riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o di prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo. Nel compiere tale ultima valutazione, si deve tener conto che quanto più il pericolo è suscettibile di essere previsto e superato attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato, tanto più il comportamento di lui viene ad incidere nel dinamismo causale, sino ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta attribuibile all’ente e l’evento dannoso (cfr. fra le tante e le più recenti, Cass. civ. Sez. III, 22 ottobre 2013 n. 23919). Su questo aspetto del problema manca nella sentenza impugnata ogni motivazione. E’ assente ogni valutazione del fatto che la strada in custodia era una strada campestre (interpoderale), quindi di secondaria importanza e tale da non richiedere le stesse misure di manutenzione esigibili in relazione ad un’arteria di grande traffico; ed ancor più del fatto che – se era pur prevedibile da parte del Comune che taluno potesse superare i limiti di velocità, come afferma la sentenza impugnata – ancor più facilmente prevedibili ed evitabili dal conducente del motociclo erano le insidie che quel particolare tipo di strada poteva presentare in caso di pioggia. A fronte della circostanza che il ricorrente dichiara essere emersa dalle prove acquisite agli atti, secondo cui l’acqua e i materiali di risulta erano ai margini della strada, mentre vi era una striscia di circa un metro libera e percorribile al centro, non sarebbe stato difficile per il ciclomotorista individuarla e percorrerla, se avesse tenuto una velocità adeguata allo stato dei luoghi ed alle condizioni atmosferiche, e se il peso abnorme del motociclo, dovuto alla presenza di un passeggero per reggere il quale non era tecnicamente predisposto, non ne avesse ostacolato la manovrabilità. I rischi del percorso erano ben più facilmente prevedibili ed evitabili dal conducente del motociclo che non da improbabili cartelli, che nulla avrebbero probabilmente aggiunto a ciò che era perfettamente visibile ad occhio nudo. La sentenza impugnata non dedica una parola di motivazione alle ragioni per cui l’imprudenza e le trasgressioni al codice della strada da parte del conducente del motociclo – che pur appaiono oggettivamente di notevole gravità – non sarebbero state idonee ad interrompere il nesso causale fra le condizioni della strada e l’incidente. La motivazione neppure rende ragione dell’attribuzione alle parti contendenti di un concorso di colpa in ugual misura. L’argomento con cui la Corte di merito ha escluso di poter riesaminare la sentenza di primo grado sul punto – cioè il fatto che l’appellante non l’avrebbe impugnata – è insufficiente ed illogico, a fronte del fatto che nel giudizio di appello il Comune ha chiesto di essere integralmente assolto da responsabilità: domanda che include in sé quella avente ad oggetto l’addebito di una responsabilità meno grave.
La motivazione è sotto ogni aspetto inidonea a giustificare la decisione. (…)».
(4) Corte di Cassazione, Sez. VI, 26/9/2017, n.22419: «(…). La decisione è conforme all’orientamento di questa corte secondo cui l’ente proprietario d’una strada aperta al pubblico transito risponde ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., per difetto di manutenzione, dei sinistri riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo. Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà tener conto che quanto più questo è suscettibile di essere previsto e superato attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato, tanto più il comportamento della vittima incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta attribuibile all’ente e l’evento dannoso (Sez. 3, Sentenza n. 23919 del 22/10/2013, Rv. 629108; nella specie, la Corte ha ritenuto non operante la presunzione di responsabilità a carico dell’ente ex art. 2051 cod. civ., in un caso di sinistro stradale causato da una buca presente sul manto stradale, atteso che il conducente danneggiato era a conoscenza dell’esistenza delle buche, per cui avrebbe dovuto tenere un comportamento idoneo ad evitarle). Nella specie i giudici di merito hanno accertato che la R. conoscesse l’esistenza della buca e, in generale, lo stato di cattiva manutenzione della strada in cui si è verificato il sinistro. Pertanto, l’ordinaria diligenza avrebbe dovuto sconsigliare alla ricorrente di uscire di notte, in condizioni di scarsa visibilità, per far passeggiare il cane proprio in quel punto. Tale condotta è idonea a interrompere il nesso eziologico fra la condotta attribuibile al Comune di Scandicci e il danno patito dalla R. (…)».
(5) Corte di Cassazione, Sez. VI, 11/5/2017, n. 11753: «(…). Con il primo motivo la ricorrente lamenta che la Corte territoriale, pur ritenendo applicabile alla fattispecie in esame l’art. 2051 c.c., che prescinde dalla visibilità e dalla evitabilità dell’insidia, ha escluso la responsabilità della amministrazione in quanto l’omessa manutenzione del manto stradale risultava visibile. Il motivo è inammissibile per difetto di specificità poiché non coglie nel segno. La Corte ha accolto l’appello incidentale, non per avere escluso l’applicabilità dell’art. 2051 c.c. a causa della visibilità delle cattive condizioni della strada, come sostenuto dalla ricorrente, ma per avere ritenuto sussistente una responsabilità esclusiva della conducente del ciclomotore la quale, proprio a causa del pericolo evidente, determinato dalla presenza di una strada dissestata per un lungo tratto precedente il punto in cui si è verificata la caduta, aveva posto in essere una condotta che aveva costituito la ragione esclusiva del fatto dannoso (…); anche il secondo motivo, con cui si deduce la violazione dell’art. 2051 c.c. per avere ritenuto la condotta dell’utente della strada come causa esclusiva dell’evento, è inammissibile per difetto di specificità poiché, nuovamente, non coglie nel segno. La Corte territoriale non ha in alcun modo ritenuto rilevante l’esistenza o meno di una formale contestazione, da parte della polizia municipale, di violazioni del codice della strada a carico della conducente del ciclomotore, ma ha valutato la condotta imprudente, sia in termini di velocità non adeguata, sia di occupazione dell’area stradale maggiormente interessata dal dissesto».
(6) Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 13/1/2005, n.564: «(…). L’art. 1227 c.c., che disciplina il concorso del fatto colposo del creditore nella responsabilità contrattuale, ma è applicabile anche alla responsabilità extracontrattuale in virtù dell’espresso richiamo fatto dall’art. 2056 c.c., prevede due distinte fattispecie: la prima è quella in cui si imputa al creditore o al danneggiante di aver tenuto un comportamento che è entrato nella serie causale e dunque di aver causato in tutto o in parte il danno, che deve corrispondentemente restare a suo carico (primo comma); l’altra, riferibile ad un contegno dello stesso danneggiato, è quella che abbia prodotto un aggravamento del danno, senza contribuire alla sua causazione (secondo comma). In ordine a questa distinzione, la giurisprudenza di legittimità è costante nell’affermare – come sostiene il ricorrente – che solo la situazione contemplata nel secondo comma costituisce oggetto di un’eccezione, mentre nel primo caso il giudice di merito deve esaminare di ufficio, sulla base delle prove acquisite al processo, il punto se il danneggiato abbia concorso a determinare il danno (Cass. 11 marzo 2004, n. 4993, in motiv.; Cass. 26 febbraio 2003, n. 2868; Cass. 8 aprile 2002, n. 5024; Cass. 2 aprile 2001, n. 4799; Cass. 1 febbraio 2000 n. 1073). Quanto all’onere della prova, in applicazione dei principi generali in tema di illecito extracontrattuale, esso grava sul danneggiante. Provato da parte del danneggiato il danno e la sua diretta derivazione dall’illecito, spetta al danneggiante provare che il danno sia stato prodotto, pur se in parte, anche dall’efficacia del comportamento del danneggiato (art. 1227, primo comma) ovvero che il danno sia stato ulteriormente aggravato dal danneggiato. Ciò premesso, il motivo d’appello con il quale si chiedeva l’affermazione del concorso del danneggiato a norma dell’art. 1227 c.c. è stato rigettato, rilevando che non vi era alcuna prova che la D. non indossasse il casco protettivo: gli agenti accertatori non avevano rilevato l’infrazione; l’attrice aveva richiesto il risarcimento del danno subito per la rottura del casco, senza che la convenuta eccepisse alcunché sul punto; l’istruttoria non aveva fatto emergere alcun elemento da cui potesse desumersi, anche solo per implicito, la fondatezza del rilievo; le lesioni cerebrali riportate non costituivano indizio del mancato o irregolare uso del casco di protezione. La Corte territoriale ha dunque ritenuto, valutando il complesso di elementi sopra indicati, che non vi era la prova che la D. viaggiasse sulla motocicletta senza il casco protettivo: la mancanza di prova non può che ridondare a carico di chi aveva l’onere provare la circostanza e, cioè, per quanto detto, il danneggiante. Inoltre, la conclusione alla quale è pervenuta la sentenza impugnata si è risolta in un apprezzamento di fatto che sotto il profilo logico raggiunge un grado di completezza e di ragionevolezza da essere incensurabile nel giudizio di cassazione». V, altresì, C. Cass., Sez. III, 3/4/2014, n. 7777: «In tema di concorso del fatto colposo del danneggiato nella produzione dell’evento dannoso, a norma dell’art. 1227, comma 1, c.c. – applicabile, per l’espresso richiamo contenuto nell’art. 2056 c.c., anche nel campo della responsabilità extracontrattuale – la prova che il creditore-danneggiato avrebbe potuto evitare i danni dei quali chiede il risarcimento usando l’ordinaria diligenza, deve essere fornita dal debitore-danneggiante che pretende di non risarcire, in tutto o in parte, il creditore. Se non vi sono elementi per accertare l’esistenza di un apporto causale ad opera del comportamento colposo del creditore-danneggiato (…)» (Responsabilità Civile e Previdenza 2014, 3, 994).
(7) Secondo la Direttiva 27/4/2006, «i limiti di velocità che si possono imporre in corrispondenza di punti singolari delle strade (…) devono essere il risultato dell’armonizzazione di due esigenze, ambedue importanti: la sicurezza e la fluidità del traffico (…)» (§ 2.2). «La velocità tenuta da un generico conducente, per quanto variabili possano essere i singoli comportamenti, è in genere il risultato della esigenza di mantenere il tempo di viaggio entro certi valori in relazione alle caratteristiche geometriche della strada e della entità del traffico, attuando un regime di velocità che rappresenti un ragionevole compromesso tra la velocità desiderata e la sicurezza. (…). Per le più usuali e diffuse necessità una metodologia tecnica internazionalmente accettata è quella di adottare come limite massimo di velocità localizzato il valore corrispondente al cosiddetto “85° percentile”, in quanto l’esperienza ha dimostrato che questa è la percentuale dei buoni conducenti che mantengono una velocità ragionevole, adatta al tipo di strada verificata e alle condizioni medie del traffico che la percorre. Ci si può anche attendere un regime di velocità più uniforme che in genere ha come conseguenza una riduzione di incidentalità. In altri termini, adottando tale criterio, il provvedimento di limitazione di velocità sarà naturalmente accettato dall’ 85% degli utenti, e scontenterà solo quel 15% che desidera andare più velocemente, tenendo un comportamento imprudente che è bene sia represso» (§ 2.7). Ai sensi del secondo comma dell’art.142 CDS «Gli enti proprietari della strada hanno l’obbligo di adeguare tempestivamente i limiti di velocità al venir meno delle cause che hanno indotto a disporre limiti particolari»: tale revisione secondo la Direttiva del 2006 (§2.5) «dovrà essere condotta sia attraverso l’analisi tecnica degli incidenti eventualmente occorsi nel tratto interessato, sia confrontando il limite esistente con il risultato della applicazione della suggerita metodologia tecnica» dell’«85° percentile» di cui al § 2.7 cit. della stessa Direttiva del 2006 e relativa appendice.
Stefano Gennai
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento