Responsabilità del medico: presupposti e caratteristiche

Redazione 26/05/20
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Responsabilità del medico: le caratteristiche della professione sanitaria

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La professione medica è una professione intellettuale e la relativa prestazione, pertanto, è una prestazione di opera intellettuale, disciplinata dall’art. 2230 c.c., il quale recita espressamente: “Il contratto che ha per oggetto una prestazione d’opera intellettuale è regolato dalle norme seguenti e, in quanto compatibili con queste e con la natura del rapporto, dalle disposizioni del capo precedente. Sono salve le disposizioni delle leggi speciali”. Si viene rinviati, in altre parole, alle norme sul lavoro autonomo in quanto compatibili.Questo inquadramento come prestazione d’opera intellettuale, dal punto di vista giuslavoristico, ha creato problemi in merito in particolare all’inquadramento della stessa entro i confini del lavoro subordinato piuttosto che dell’autonomo. In alcune pronunce si stabilivano i criteri secondo cui stabilire se il rapporto andava inquadrato come subordinato o meno, si pensi ad esempio alla pronuncia della Corte che aveva ritenuto che:
Non sono configurabili gli elementi costitutivi del rapporto di lavoro subordinato nel caso in cui le prestazioni necessarie ai fini del perseguimento dei fini aziendali siano organizzate in maniera tale da non richiedere l’applicazione da parte del datore di lavoro di un potere gerarchico concretizzantesi in ordini e direttive e nell’esercizio del potere disciplinare. (Nella specie, relativa al servizio prestato da un medico presso un centro di prestazioni sanitarie convenzionato con le unità sanitarie locali, la sentenza di merito, confermata dalla S.C., aveva dato rilievo alla facoltà del medico di concordare con i colleghi i turni di lavoro e di farsi sostituire da altro sanitario in caso di impedimento, nonché alle modalità di pagamento dei compensi e al regime fiscale cui era assoggettato lo stesso professionista). (Cass. civ., 23 ottobre 2001, n. 13018).
Il requisito fondamentale del rapporto di lavoro subordinato, ai fini della sua distinzione dal rapporto di lavoro autonomo, era considerato il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale discende dall’emanazione di ordini specifici, oltre che dall’esercizio di una assidua attività di vigilanza e controllo dell’esecuzione delle prestazioni lavorative. L’esistenza di tale vincolo andava concretamente apprezzata con riguardo alla specificità dell’incarico conferito al lavoratore e al modo della sua attuazione, fermo restando che ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato sia di rapporto di lavoro autonomo. Andava tenuto conto, quindi, dell’orario di lavoro fisso, dell’obbligo di lasciar traccia della propria presenza, della presenza di autorità disciplinare superiore, di vincoli in merito alla fruizione delle ferie e soprattutto del generale assoggettamento del lavoratore al potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro. Altrove, la giurisprudenza riteneva l’esercizio di potere gerarchico, l’esistenza di orari di visita predeterminati o controlli disposti dalle strutture sanitarie, elementi non sufficienti a rilevare la presenza di rapporti di lavoro di tipo subordinato. Si pensi ad esempio alla pronuncia che aveva previsto che:
In relazione alla inquadrabilità come autonome o subordinate delle prestazioni rese da un esercente la professione medica cui ove le prestazioni necessarie per il perseguimento dei fini aziendali siano organizzate in maniera tale da non richiedere l’esercizio da parte del datore di lavoro di un potere gerarchico concretizzantesi in ordini e direttive e nell’esercizio del potere disciplinare, non può farsi ricorso ai criteri distintivi costituiti dall’esercizio dei poteri direttivo e disciplinare, né possono considerarsi indicativi della natura subordinata dal rapporto elementi come la fissazione di un orario per le visite, o eventuali controlli nell’adempimento della prestazione, se non si traducono nell’espressione del potere conformativo sul contenuto della prestazione proprio del datore di lavoro, dovendo, in tali ipotesi, la sussistenza o meno della subordinazione essere verificata in relazione alla intensità della etero-organizzazione della prestazione, al fine di stabilire se l’organizzazione sia limitata al coordinamento dell’attività del medico con quella dell’impresa, oppure ecceda le esigenze di coordinamento per dipendere direttamente e continuativamente dall’interesse dell’impresa, responsabile nei confronti dei clienti di prestazioni assunte come proprie e non della sola assicurazione di prestazioni altrui (Cass. civ., 7 marzo 2003, n. 3471, in Giust. civ. Mass., 2003, 490).

Responsabilità del medico: la colpa e il dolo

La normativa attuale invece chiarisce il punto sulla responsabilità penale per colpa lieve, escludendola, facendo salva, la disposizione di cui all’art. 2043 c.c. ossia il principio della responsabilità aquiliana: “Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”. Principio che, per come è noto ai più, si discosta ampiamente dalla responsabilità del custode ex art. 2051 c.c., per cui, è opportuno chiarire che:
“Mentre l’azione ai sensi dell’art. 2043 c.c. comporta per il danneggiato la necessità di provare l’esistenza del dolo o della colpa a carico del danneggiante, nel caso di azione fondata sull’art. 2051 c.c., la responsabilità del custode è prevista dalla legge per il fatto stesso della custodia, potendo questi liberarsi soltanto attraverso la gravosa dimostrazione del fortuito” (Cass. civ., 21 settembre 2015, n. 18463).
Una pronuncia ha anche stabilito che:
In materia di emotrasfusione, l’attività di vigilanza e prevenzione pur avendo ad oggetto una pratica pericolosa (le trasfusioni di sangue), non può essere definita in sé come pericolosa, con la conseguenza che l’omissione della medesima deve essere inquadrata nell’ambito dello schema generale di responsabilità di cui all’art. 2043 e non all’art. 2050 c.c. (Trib. de L’Aquila, 21 luglio 2015, n. 659).
La giurisprudenza sul tema è copiosa e a volte anche contrastante, ma quasi sempre orientata alla tutela del paziente danneggiato con le note conseguenze che hanno determinato la nascita di vero e proprio problema sociale. Un problema sociale che si traduce in quella reazione difensiva della classe medica che preferisce a volte adottare scelte mediche motivate non esclusivamente nell’interesse del paziente, ossia scelte tendenzialmente omissive per situazioni molto a rischio e presumibilmente compromettenti (quella che viene detta medicina difensiva negativa), mentre altre volte porta a scelte di trattamenti non necessari se non in funzione di una probabile linea difensiva ma comportanti dei costi per il Servizio sanitario (quella che viene detta medicina difensiva positiva). La giurisprudenza aveva chiarito tra l’altro, che “il comma 1 dell’art. 3 del d.l. Balduzzi come sostituito dalla legge di conversione si riferisce, esplicitamente, ai (soli) casi di colpa lieve dell’esercente la professione sanitaria che si sia attenuto a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, perciò la responsabilità del medico ospedaliero – anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 3 l. n. 189 del 2012 – è da qualificarsi come contrattuale “(Trib. di Milano, 20 febbraio 2015, n. 2336).
Ad una prima analisi l’intento del legislatore sembrava essere quello di estendere la delimitazione della norma civilistica della responsabilità per colpa lieve anche all’osservanza, nel caso concreto, delle linee guida e delle buone pratiche.

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Nella legge di conversione, invece, si è ampliato l’ambito dell’intervento per contrastare meglio la pratica della medicina difensiva fino a ricomprendervi la responsabilità penale. Il risultato è stato quello di ridimensionare l’ambito della responsabilità sotto i due profili che sono quelli che più incidono in concreto sulla disfunzione della medicina difensiva. Infatti, nello specifico, è stato ritenuto che:
In tema di responsabilità medica, la limitazione della responsabilità in caso di colpa lieve prevista dall’art. 3 d.l. 13 settembre 2012, n. 158 (conv., con mod., dalla legge 8 novembre 2012, n. 189), operando soltanto per le condotte professionali conformi alle linee guida, non si estende agli errori diagnostici connotati da negligenza o imprudenza, perché le linee guida contengono solo regole di perizia (Cass. pen., 27 aprile 2015, n. 26996).
La questione non è di così facile soluzione, infatti, “in tema di responsabilità medica, il rispetto di linee guida accreditate presso la comunità scientifica non determina, di per sé, l’esonero dalla responsabilità penale del sanitario ai sensi dell’art. 3 del d.l. 13 settembre 2012, n. 158 (conv. in legge 8 novembre 2012, n. 189), dovendo comunque accertarsi se la specificità del quadro clinico del paziente imponesse un percorso terapeutico diverso rispetto a quello indicato da dette linee guida” (Cass. pen., 22 aprile 2015, n. 24455).
In termini pratici, ai fini dell’applicazione della causa di esonero da responsabilità prevista dall’art. 3 del d.l. 13 settembre 2012, n. 158, come modificato dalla legge 8 novembre 2012, n. 189, è necessaria l’allegazione delle linee guida alle quali la condotta del medico si sarebbe conformata, al fine di consentire al giudice di verificare: a) la correttezza e l’accreditamento presso la comunità scientifica delle pratiche mediche indicate dalla difesa; b) l’effettiva conformità ad esse della condotta tenuta dal medico nel caso in esame.

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