Relazione su questione giuridica di diritto penale

Redazione 30/10/04
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a cura della Dott.ssa Monica Cito
ricky.mio@libero.it

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Il vigile urbano ***** di servizio in***** col compito di aiutare i ragazzini della scuola elementare*****nell’attraversamento della strada, intimava al sig.*****, transitante a bordo della propria autovettura, di fermarsi. Quest’ultimo, non ottemperando tempestivamente all’ordine (ritualmente dato) dell’agente, si trovava ad arrestare il veicolo all’altezza del vigile. L’agente contestava la guida spericolata e chiedeva di visionare sia i documenti personali del **** sia quelli del mezzo. Il prevenuto, non aderendo all’invito mossogli, si allontanava. Al che il vigile si occupava di annotare il numero di targa del sig. ****. Il conducente, resosi conto di tanto, parcheggiata l’autovettura, ritornava a piedi e colpiva al viso, con alcuni pugni, l’agente. Tale ultimo evento vedeva l’intervento di due poliziotti in borghese, che si trovavano in loco. L’intervento si sostanziava nell’arresto in flagranza di reato del sig.****. Il vigile*****veniva, intanto, soccorso con trasporto all’Ospedale Civile.

I sanitari gli diagnosticavano lesioni.

Il referto medico attestante lo stato di salute del****veniva allegato alla comunicazione di notizia di reato (ex art. 347 c.p.p.) ed inviato, in uno con la stessa, alla Procura della Repubblica presso il Tribunale competente territorialmente.

L’informativa della P.G. integra una segnalazione obbligatoria e dettagliata avente ad oggetto la notizia criminis e per destinatario il Pubblico Ministero. Nella formulazione originaria del testo normativo ex art. 347 c.p.p. la P.G. era tenuta ad informare il P.M. nel termine di 48 ore. Con la novella del 1992 si è eliminato questo rigido criterio cronologico e lo si è sostituito con la dizione senza ritardo. La ratio dell’originaria formulazione era quella di consentire al P.M. di assumere immediatamente la direzione ed il controllo delle indagini. Tuttavia, secondo il Vigna, spesso la P.G. si trovava in difficoltà soprattutto per i fatti più complessi che implicano lo svolgimento di indagini (appunto di P.G.) prima di detta comunicazione al P.M.

È intervenuta sul punto la L. 479/99 che, al fine di soddisfare precise istanze di economia e speditezza processuale, ha consentito alla P.G. di trasmettere al P.M. con elenchi mensili le denunce a carico di ignoti, sì da consentire provvedimenti di archiviazione cumulativi.

Inoltre, è sempre utile tenere a mente che il verbale dell’ispettore del lavoro non costituisce mera informativa di reato ai sensi dell’art. 347 c.p.p. , poiché contiene l’accertamento o la descrizione di una situazione di fatto suscettibile di modifica nel tempo, per effetto di comportamenti umani o di eventi naturali. Esso va annoverato tra gli atti non ripetibili compiuti dalla P.G., e come tale va inserito nel fascicolo per il dibattimento e ne va data lettura a richiesta di parte e su iniziativa del giudice, essendo utilizzabile come fonte di prova.

Queste note offrono, de relato, un quadro degli atti o fatti suscettibili d’informativa ex art. 347 c.p.p.

Tornando al caso di specie, l’indagato, dopo l’espletamento delle formalità di rito, veniva tradotto nella Casa Circondariale provinciale.

Il P.M. contestava i reati ex artt. 337, 582 e 585, co.1, c.p. (in relazione all’art. 576, co.1, c.p. , che fa riferimento all’art. 61, n.n. 1 e 2 c.p.).

Il bene giuridico tutelato dalla norma ex art. 337 c.p. è quello della sicurezza e della libertà d’azione del p. u. o dell’incaricato di pubblico servizio contro fatti di opposizione violenta. In sostanza, con tale norma si vuole, secondo Fiandaca – Musco, tutelare l’interesse della P.A. a non subire intralci nel momento in cui, per assolvere ai suoi compiti istituzionali, deve procedere all’attuazione della sua volontà.

La condotta consiste, così come per l’ipotesi delittuosa ex art. 336, alternativamente nella violenza o minaccia. Tuttavia, mentre nell’ipotesi di cui all’art 336 c.p. la violenza o minaccia si riferiscono ad un’attività futura del funzionario, nell’ipotesi in esame esse sono poste in essere durante il compimento dell’atto d’ufficio e mirano ad opporsi all’attività in corso.

Per violenza si deve intendere l’esplicazione di energia fisica quantitativamente e qualitativamente idonea (avuto riguardo al caso concreto) a interdire e/o ostacolare il regolare compimento d’un atto d’ufficio o servizio.

Il delitto, caratterizzato dalla forma libera, si consuma nel momento in cui si esercita la violenza o la minaccia, indipendentemente dalla circostanza che la violenza abbia cagionato lesioni personali o che si sia realizzato il male ingiusto minacciato, non occorrendo neppure che la condotta violenta o minacciosa abbia sortito l’effetto voluto d’impedire al pubblico ufficiale di portare a termine il completamento dell’atto d’ufficio.

Dato per acquisito tale ultimo elemento, palese pare la scelta, che il P.M. opera nel caso di specie, di contestare altresì l’art. 582.

Il legislatore ha previsto quattro tipi di lesioni personali dolose. Il primo e secondo comma dell’art. 582 c.p. disciplinano e sanzionano, rispettivamente, i reati di lesione personale lieve e lesione personale lievissima. La prima figura delittuosa è quella dalla quale deriva alla vittima una malattia che ha durata compresa tra i ventuno e i quaranta giorni, ed è perseguibile d’ufficio. La seconda ricorre quando la malattia che ne consegue è guaribile entro il ventunesimo giorno, ed è punibile a querela di parte.

Il bene giuridico tutelato dalla disposizione in esame è l’incolumità individuale della persona offesa. Le altre due ipotesi di lesioni personali dolose (grave e gravissima) sono, invece, disciplinate dal successivo articolo (art. 583 c.p.); o meglio, per utilizzare la dizione normativa, trattasi di circostanza aggravanti speciali.

È orientamento assolutamente prevalente, in giurisprudenza e in dottrina, quello secondo cui l’evento è costituito soltanto dalla malattia, in quanto l’infelice formula legislativa cagionare una lesione da cui deriva una malattia deve essere necessariamente intesa come produrre in qualsiasi modo una malattia.

Problema di non poco conto è, in ogni caso, quello relativo alla definizione del concetto di malattia. La Relazione Ministeriale al progetto del codice penale – nonché un minoritario orientamento dottrinario e la costante giurisprudenza – considerano malattia qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo, ancorché localizzata e non influente sulle condizioni organiche generali. Tralasciando la nozione di ferita, della quale pure s’occupa la giurisprudenza, nel caso di fratture la malattia dura fino al consolidamento del callo osseo, risolvendosi nella possibilità di attendere alle ordinarie occupazioni.

Sono, altresì, considerati malattia il periodo di convalescenza o di riposo dipendenti dalla malattia stessa.

C’è da chiedersi soltanto se l’art. 337 c.p. sia assorbente dell’art. 582.

Il delitto di resistenza a pubblico ufficiale assorbe soltanto quel minimo di violenza che si concreta nelle percosse, e non già quegli atti che, esorbitando da tali limiti, siano causa di lesioni personali. In tale ultima ipotesi, l’ulteriore delitto di lesione, stante il suo carattere autonomo, concorre con quello di resistenza a pubblico ufficiale, con l’effetto che, se l’atto di violenza col quale l’agente ha prodotto consapevolmente le lesioni non è fine a se stesso, ma viene posto in essere allo scopo precipuo di resistere al pubblico ufficiale, si realizza il presupposto per la sussistenza dell’aggravante della connessione teleologica.

Tornando al caso di specie, sussistendo le condizioni per procedersi con giudizio direttissimo (ex art. 449 c.p.p.), veniva disposto in tal senso.

In relazione alle condizioni per il rito, va osservato come, nel procedimento direttissimo, la fase delle indagini preliminari (quando non omessa) si conclude in maniera diversa a seconda che l’imputato sia detenuto (perché arrestato od in custodia cautelare) o sia libero. Nel primo caso, il processo direttissimo viene instaurato mediante la presentazione all’udienza del detenuto; nel secondo caso, mediante la citazione a comparire all’udienza (tertium non datur).

Con riferimento al presupposto dell’avvenuto arresto in flagranza, sono contemplate due alternative: la prima, che l’imputato sia presentato, per la convalida dell’arresto ed il successivo giudizio, direttamente al giudice del dibattimento; la seconda che, a seguito dell’ordinaria convalida del G.I.P., l’imputato venga presentato dal P.M. al giudice del dibattimento entro 15 giorni dall’arresto. Nel primo caso, il giudizio di convalida è riservato al controllo dello stesso giudice del dibattimento. Nel secondo, il controllo sulla legittimità dell’arresto e della convalida è compito esclusivo del G.I.P. , mentre al giudice del dibattimento spetta solo di verificare che l’arresto in flagranza sia stato convalidato e che la presentazione dell’imputato all’udienza sia avvenuta non oltre il quindicesimo giorno dall’arresto.

Il prevenuto era condotto innanzi al Tribunale di****(giudice monocratico) per udienza di convalida e successivo dibattimento. In sede di convalida dell’arresto, il P.M. insisteva per la stessa e per l’applicazione, nei confronti dell’imputato, della misura coercitiva della custodia cautelare in carcere, ritenendo sussistere le esigenze cautelari ex capi A) e C) art. 274 c.p.p.

L’articolo in parola prevede tre tipi di esigenze cautelari: il pericolo di inquinamento probatorio; il pericolo di fuga; il pericolo di recidiva. E le prevede in via alternativa, nel senso che è sufficiente che sussista anche una sola di tali esigenze per giustificare la misura cautelare (Cass. 29/05/1993, n.194729).

Il difensore nulla osservava in ordine alla convalida dell’arresto, ma faceva rilevare l’insussistenza (in concreto) delle esigenze cautelari menzionate e chiedeva che il giudice non desse perciò seguito (con applicazione) alla misura chiesta dall’accusa.

Con ordinanza ad hoc, convalidato l’arresto e riscontrata la sussistenza dei presupposti di legge, veniva applicata all’imputato la misura della custodia cautelare in carcere.

In via preliminare (chiuse le predette procedure ed aperto il dibattimento) la difesa dell’imputato (previo consenso del P.M.) chiedeva l’applicazione di pena condizionalmente sospesa, ai sensi dell’art. 444 c.p.p.

La pena veniva fissata in anni uno e mesi sei di reclusione.

Per il calcolo seguito: previa concessione delle attenuanti generiche, ritenute equivalenti alle aggravanti contestate, ed unificati i reati col vincolo della continuazione. Pena base per il reato di cui al capo A) anni due di reclusione (ex art. 81 c.p.), ridotta alla pena finale, per il rito.

Il Tribunale di****, visti gli artt. 444 e ss. c.p.p. , ritenendo corretta la quantificazione generica del fatto e l’applicazione delle attenuanti generiche, considerata altresì l’incensuratezza del prevenuto, da porsi in giusta equivalenza con le aggravanti contestate al capo B), riteneva l’applicabilità della disposizione ex art. 81 c.p. , in quanto si versava in situazione di condotte assunte in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, nell’ambito di univoche circostanze spazio-temporali (rectius, di tempo e luogo).

Ricorrendone le condizioni di legge (ragionevole presumere che l’imputato si sarebbe astenuto per il futuro dalle ricadute nella commissione d’altri reati) è sembrato opportuno concedere il beneficio della sospensione condizionale della pena, secondo termini e condizioni di legge, attesa l’incensuratezza del soggetto.

Dovendo il giudice deliberare sull’accordo intervenuto tra le parti, non gli è consentito di alterarlo, per cui deve escludersi che possa concedere ex officio la sospensione condizionale della pena, la cui richiesta non sia stata consacrata a verbale; pertanto, può essere concessa soltanto se faccia parte integrante dell’accordo (e non era così nel caso di specie) o se la questione relativa sia devoluta, esplicitamente e specificamente, da entrambe le parti al potere discrezionale del giudicante.

Non è necessaria l’adozione di una particolare formula, per condizionare il patteggiamento alla concessione del beneficio de quo agitur, ed il giudice, dopo aver stabilito l’infondatezza della richiesta, deve rigettare l’intero patteggiamento.

Preclusa è stata, nel caso de quo, la decisione sulle pretese della parte civile. Ma sono state liquidate le spese di costituzione della parte stessa, per applicazione del secondo comma dell’art. 444 (che ha, nella sua nuova formulazione, recepito le indicazioni della sent. 443/90 della Consulta) ponendole a carico dell’imputato.

Le spese vanno liquidate sul presupposto meramente processuale della sola ammissione della costituzione stessa.

Dott.ssa Monica Cito

Redazione

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