Regolamento condominiale e modifiche d’uso delle unità immobiliari

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La Cassazione civile, sez. II, con la sentenza n. 20237 del 18.09.2009 ha ribadito il proprio consolidato orientamento (Cass., n. 1560 del 1995; Cass., n. 9564 del 1997; Cass., n. 11126 del 1994) secondo cui “I divieti e le limitazioni [inerenti alla proprietà esclusiva dei singoli condomini] possono essere formulati nel regolamento sia mediante la elencazione delle attività vietate (in tal caso, al fine di stabilire se una determinata destinazione sia vietata o limitata, basterà verificare se la destinazione stessa sia inclusa nell’elenco) sia mediante riferimento ai pregiudizi che si ha intenzione di evitare (in questo secondo caso, naturalmente, al fine suddetto, è necessario accertare la idoneità in concreto della destinazione contestata a produrre gli inconvenienti che si vollero evitare)”.

La Cassazione consente, dunque, l’applicazione di un criterio cd. misto, stante il quale l’utilizzo delle unità immobiliari soggiace sia a limiti tassativamente indicati nel regolamento sia a limiti il cui superamento è da accertarsi caso per caso.

Pertanto, è da ritenersi che, secondo il primo criterio, il divieto posto dal regolamento, fatta salva la deroga assembleare in senso favorevole, impedisce al proprietario, o all’eventuale conduttore, di dare corso alla propria attività, “senza necessità di verificare in concreto l’idoneità a recare i pregiudizi suddetti”, come avverte la Cassazione nella suddetta sentenza e in altre di analogo tenore anche risalenti, come la sentenza 4554/86.

Nell’altro caso ad essere vietate saranno tutte quelle attività in grado di arrecare disturbo alla tranquillità, al riposo, alla sicurezza dei condomini o al comune decoro, estendendosi il divieto “anche a tutte le destinazioni non espressamente menzionate, che siano comunque idonee a provocare i pregiudizi che si intendono evitare”.

Ciò detto, occorre esaminare casi e modi di eventuali divieti imposti dal regolamento condominiale alla fruizione delle unità immobiliari o comunque inerenti all’amministrazione dell’edificio.

In primo luogo è fatto obbligo di osservare la disposizione contenuta nell’art. 1138 c.c., secondo la quale “le norme del regolamento non possono in alcun modo menomare i diritti di ciascun condomino, quali risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni, e in nessun caso possono derogare alle disposizioni degli artt. 1118 secondo comma, 1119, 1120, 1129, 1131, 1132, 1136 e 1137”. Tali ultime disposizioni riguardano sia i diritti e gli obblighi dei singoli condomini che la nomina e i poteri dell’amministratore di condominio.

Tanto la giurisprudenza quanto la dottrina ritengono che tale divieto riguardi sia il regolamento assembleare, ovvero stabilito con i criteri stabiliti ex art. 1138 c.c., che quello contrattuale, ovvero accettato da tutti i condomini in sede di stipula o sottoscritto dai condomini successivi.

Si tratta, dunque, di norme assolutamente inderogabili.

In secondo luogo, e al netto di quanto appena specificato, non ogni limite o divieto può essere sancito per via regolamentare.

Occorre qui chiarire che, per pacifica giurisprudenza e dottrina, il regolamento di condominio, nella misura in cui statuisca sulle materie di cui all’art. 1135 c.c., riguardanti uso e modalità di godimento delle parti comuni, ripartizione spese e decoro, può essere approntato con maggioranza assembleare. L’assemblea, tuttavia, non potrà statuire, con la medesima modalità, intorno ai diritti soggettivi dei condomini, limitandone il godimento delle parti comuni a vantaggio solo di uno o più di essi, sempreché, come preciseremo a breve, non vi sia il consenso unanime dei condomini (Cass., n. 21287/2004).

Laddove, invece, al regolamento condominiale si pervenga attraverso un contratto o una delibera assembleare accettata all’unanimità, e sempreché si osservino le formalità previste, sarà possibile incidere sui diritti soggettivi dei condomini anche oltre la lettera della legge.

Nello specifico, non si può incidere tout court sui diritti immobiliari dei singoli, sulle loro proprietà esclusive o sulle parti comuni, secondo quanto delibato dalla Suprema Corte con sentenza n. 1314 del 26 gennaio 2004.

Innanzitutto è necessaria la forma scritta sotto pena di nullità, non rilevando i fatti concludenti da cui possa dedursi l’acquiescenza nei confronti di una delibera o di una clausola che sancisca un limite o divieto in materia.

Trattandosi di fattispecie contrattuale, è poi necessario che il il regolamento sia accettato dalla totalità dei condomini, non rilevando le modalità dell’accettazione: il regolamento potrà essere disposto dall’unico proprietario dell’edificio e in seguito accettato dai condomini, contestualmente all’atto di acquisto o con atti separati, quando non approvato dai condomini all’unanimità con delibera assembleare che lo recepisca (Cass., n. 5065/86; Cass., n. 4905/90).

Inoltre, stante il disposto della Cassazione con sentenza n. 00023 del 7 gennaio 2004, perché le restrizioni siano considerate legittime, occorre che il regolamento le preveda in modo chiaro e inequivoco.

Ricorrendo tali presupposti, le clausole regolamentari possono anche porre divieti e limiti al godimento dei beni esclusivi più estesi di quanto non sancisca il codice, con l’obbligo del condomino di adeguarsi alla norma regolamentare in via immediata e diretta, stante il disposto dell’art. 1372 c.c., per cui il contratto ha forza di legge tra le parti (Cass., n. 1195/92; n. 49/92; n. 4554/86; n. 5241/78).

Se ne deduce che il condomino che volesse dare una particolare destinazione d’uso al locale di sua esclusiva proprietà (anche mediatamente, attraverso locazione), poiché limita o condiziona le facoltà inerenti al godimento della cosa comune, non potrà avvalersi di una delibera assembleare adottata a maggioranza ex art 1138 c.c., ma dovrà munirsi di un titolo contrattuale con i requisiti di forma e sostanza atti a modificare le pattuizioni precedenti.

Per converso, qualora non vi fosse l’accettazione del vincolo da parte del condomino in merito a una data utilizzazione dell’alloggio, espressa in una delle forme che si sono dette, non si potrà opporre al condomino il vincolo stesso, sempreché la condotta di quest’ultimo non integri fatti illeciti come quelli asseverati dall’art. 844 c.c. in ordine alle immissioni eccedenti la normale tollerabilità, o comunque recanti pregiudizio alla serenità o al decoro del condominio.

In tale ultimo caso, così come già stabiliva la Corte di Cassazione nella già citata sentenza n. 20237 del 2009, e come si è precisato nella sentenza n. 22892/2013, la destinazione d’uso di attività commerciali le cui immissioni sonore rientrino nei limiti di tollerabilità, non può essere osteggiata dal regolamento condominiale che non statuisca espressamente in tal senso, limitandosi a stabilire un divieto generico di attività lesive del decoro e della tranquillità dell’edificio, vieppiù in assenza di accettazione per iscritto della delibera assembleare in proposito, come nel caso di specie.

Da ultimo, è il caso di richiamare la sentenza della Cassazione civile n. 4920/2006, per la quale, in merito al divieto di destinare i singoli locali a determinati usi, il condominio può chiedere la cessazione della destinazione abusiva tanto al proprietario del locale quanto al conduttore, essendosi in presenza di un litisconsorzio necessario, in quanto le limitazioni d’uso, costituendo oneri reali o servitù, attengono direttamente e immediatamente alla res.

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