Recesso per responsabilità dirigenziale, poteri datoriali privati della pubblica Amministrazione ed effettività della tutela del dirigente

Tirelli Silvio 01/09/11
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1. Il pubblico impiego tra modello burocratico e modello d’azienda: la separazione tra politica e amministrazione; possibilità/doverosità della dirigenza di concorrere alla definizione, correzione, conformazione della policy (casi reali e/o virtuali); precarizzazione della dirigenza e compromissione dell’autonomia (rinvio)

Il pubblico impiego rappresenta un nodo politico-sociale dei più intricati[1].

Tale caratteristica ne ha spesso rallentato l’evoluzione, il suo stare al passo coi tempi, tracciando un cammino che potremmo dire altalenante, se non a tentoni.

In ogni modo, volendo indicare una costante evolutiva degli ultimi trenta anni, essa è certamente ravvisabile nella tendenza al superamento della contrapposizione tra lavoro pubblico e lavoro privato: con il passaggio da un modello burocratico ad un modello manageriale[2].

Si è così concepita la sostituzione delle tradizionali figure del pubblico impiego con schemi privatistici, in modo da far penetrare nell’area pubblicistica norme e tecniche nate nella logica dell’efficienza manageriale[3], per uniformare al meglio nel diritto comune del lavoro[4] le posizioni giuridiche dei dipendenti, sia pubblici, che privati.

La tensione verso il modello aziendale ha naturalmente interessato anche il rapporto tra vertice politico e vertice gestionale della pubblica Amministrazione[5].

Un primo tentativo di disciplina in senso aziendalistico è costituito – come è noto – dal d.P.R. 748/1972[6] (Disciplina delle funzioni dirigenziali nelle amministrazioni dello Stato), il quale ha trasformato in carriera separata la dirigenza dello Stato, prevedendo una  (parziale) autonomia nella gestione dei dirigenti nell’attuazione delle direttive degli organi di indirizzo politico ed una loro responsabilità per i risultati conseguiti dagli uffici a cui  essi sono preposti.

In merito alla suddetta normativa, però, la dottrina parlò di trasformazione incompleta, poiché i vertici dirigenziali erano ancora troppo legati all’autorità politica alla quale competeva, comunque, l’adozione diretta delle scelte più importanti.

Il trasferimento delle competenze dai  ministri ai dirigenti – si osservò – è stato, infatti,  solo parziale e la prevista responsabilità per risultati della dirigenza non sempre ha trovato attuazione. La burocrazia ha, di fatto, rinunciato ai propri poteri in cambio dell’esenzione dalla responsabilità e da eccessive interferenze dei Ministri sulle carriere e sullo stato giuridico-economico[7].

La spinta definitiva per il modello aziendale è molto più recente.

Tutta la legislazione di riforma degli anni novanta riguardante la pubblica Amministrazione, infatti, si muove nella logica di un disegno aziendalistico.

La p.A. è sempre più concepita quale azienda e – specularmente – la disciplina dei suoi vari aspetti (personale, risorse, organizzazione, controlli) è mutuata da modelli privatistici imprenditoriali, all’interno di un disegno che vede nell’assimilazione (o pariordinazione) a schemi aziendali il leit motiv degli interventi normativi interessanti la pubblica Amministrazione.

Sono emersi  – ed oramai affermati – concetti  come quelli di efficienza, efficacia, economicità (art. 1 l. 241/90) quali criteri a cui deve essere orientata l’attività amministrativa. Lo sviluppo economico è stato elevato ad interesse pubblico primario[8] (l. 191/98). Si pone l’accento sui risultati, sul concetto di prodotto, di amministrazione che vende i suoi prodotti all’utenza[9].

Il cittadino, l’utenza vuole risposte ai propri bisogni e la p.A. deve soddisfare tali pretese attraverso un uso sapiente della discrezionalità, adeguando con flessibilità la propria azione e organizzazione[10].

Naturale corollario della trasformazione dell’Amministrazione secondo modelli aziendali è il principio della distinzione[11] tra indirizzo politico-amministrativo e gestione amministrativa.

Affermatosi dapprima a livello locale e settoriale (art. 51 l. 142/90; Dlgs 502/92: riordino della disciplina in materia sanitaria), tale principio ha assunto carattere fondamentalmente esteso a tutte le Amministrazioni con il d.lgs. n. 29/93 ( e successive correzioni ed integrazioni) ed è attualmente riprodotto dall’art. 4 del d.lgs n. 165/01.

Il rapporto tra vertice ministeriale e vertice gestionale viene ora ad  essere improntato a criteri di direzione, con conseguente tramonto del principio di gerarchia[12]. Tuttavia, la distinzione tra politica e amministrazione non deve essere considerata in termini netti: il nesso tra decisione politica ed attuazione amministrativa non è eliminato (ne è eliminabile) completamente.

La frattura non è radicale. La scelta politica è anche frutto dell’apporto del dirigente, il quale partecipa concretamente – anche (ma non solo) attraverso peculiari poteri di proposta – alla determinazione della policy[13].

A conferma di ciò,  può farsi riferimento all’art. 14  ed all’art.16, lett a) e b), del decreto n. 29 (ora artt. 14 e 16 del decreto n. 165/01), secondo i quali, sebbene spetti alla politica la determinazione dell’indirizzo politico-amministrativo, al dirigente generale competono, tuttavia, poteri di proposta tramite i quali egli concorre  alla definizione degli obiettivi (soprattutto quando questi assumono carattere di necessità e sono collegati al rispetto dei diritti fondamentali di doverosa soddisfazione, almeno nell’an), alla loro concreta specificazione, curandone altresì l’attuazione.

E del resto la dirigenza per raggiungere i risultati attesi necessita di risorse umane, economiche, organizzative messe a disposizione dagli organi di governo.

Né può trascurarsi che l’obbligatorio conseguimento dei risultati – conseguente al c.d. imperativo della crescita[14] – deve comunque conformarsi al rispetto a alla valorizzazione dei diritti fondamentali (art. 1, comma 6 , l. 59/97). Il che implica la necessità per la dirigenza pubblica di assumere un atteggiamento di (auto)controllo, di verifica costante e – ove necessario – di correzione e riesame, nel concreto, dell’obiettivo individuato dal vertice politico, laddove la sua pedissequa messa in opera dia vita a risultati, non solo antieconomici, ma  pregiudizievoli per i diritti fondamentali toccati dalla attività di gestione[15]. Con conseguente possibilità/doverosità per la dirigenza, non solo di concorrere alla definizione dell’obiettivo in sede di proposta, ma altresì di sindacarlo correggerlo, adeguarlo ed anche di sottrarsi al comando politico, laddove la sua esecuzione determini il sacrificio ingiusto di interessi meritevoli di protezione, disapplicando o non applicando la direttiva ingiusta,  chiedendone la modifica[16].

A) Si pensi al caso di una madre brasiliana,  sposata con un italiano, residente in Italia ed avente adeguati mezzi economici, alla quale il Ministero degli Interni aveva impedito di ricongiungersi con il figlio minore, nato fuori dal matrimonio e residente in Brasile, poiché, in quanto casalinga e non svolgendo un’attività lavorativa retribuita,  la sua istanza di permesso di soggiorno per coesione familiare non era stata accolta , non essendo la signora una lavoratrice dipendente come – secondo l’interpretazione della p.A. – prescriveva l’art. 4 l. 30.12.1986 n. 943 (Norme in materia di collocamento e trattamento dei lavoratori extracomunitari immigrati e contro le immigrazioni). Avverso i diniego del Ministero, la signora ha proposto ricorso al TAR, il quale ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 cit., nella parte in cui non consentiva il ricongiungimento di un figlio minore di un’extracomunitaria residente in Italia quale coniuga con cittadino italiano, anche ove non svolga attività lavorativa retribuita. La Corte Costituzionale, tuttavia non ha ritenuto necessario pronunciare l’illegittimità della norma impugnata, reputando – in via interpretativa – la fattispecie sottoposta alla sua attenzione già ricompresa e riconosciuta nell’articolo 4 l. 943/86, atteso che anche l’attività di casalinga, in considerazione della sua importanza nel contribuire al buon andamento della famiglia e del suo notevole valore sociale ed economico, rientra nel range protettivo dell’art. 35 Cost. (tutela del lavoro in tutte le sue forme). Orbene, si immagini il dirigente del Ministero che, data la scelta politica di contenere l’immigrazione e ricevuta, dunque, la direttiva di una stretta esecuzione della l. 943/86, si trovi (come in effetti si è trovato) di fronte alla suesposta vicenda, naturalmente prima dell’intervento della Corte. Anche in questo caso, la palmare ingiustizia derivante dal pedissequo perseguimento dell’ipotizzato obiettivo assegnato e l’esigenza di assicurare tutela ad un diritto umano fondamentale, avrebbero consentito – anzi imposto – al dirigente di disattendere la direttiva, ovvero di avvalersi del potere di proposta per conseguirne la modifica;

B) Con sentenza 24 gennaio –3 febbraio 1994 n. 19, la Corte Costituzionale si è pronunciata sulla vicenda di una signora, alla quale la Commissione di vigilanza sull’edilizia abitativa agevolata della Provincia di Bolzano aveva revocato il contributo su mutuo edilizio concessole per la costruzione della propria abitazione, poiché ella non aveva permanentemente dimorato – come prescritto dalla legge – nella propria abitazione, dopo che questa le era stata assegnata ed era stata inizialmente occupata. La donna infatti si era dovuta allontanare dall’abitazione per assistere il padre ammalato ed incapace di provvedere a sè stesso. Tale circostanza, sebbene non conosciuta al momento della revoca del mutuo, anche quando era stata successivamente portata a conoscenza della Commissione non era stata ritenuta idonea per un riesame della decisione adottata. La signora è dunque ricorsa al TAR e, rigettata l’impugnativa, al Consiglio di Stato, il quale, considerato il coinvolgimento nella vicenda di valori fondamentali (famiglia, solidarietà, salute) ha rimesso gli atti alla Consulta, prospettando l’illegittimità della legge provinciale nella parte in cui non ammette deroghe alla clausola della stabile dimora. La Corte, tuttavia, non ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge della Provincia di Bolzano, ritenendo l’inadempimento della signora all’obbligo legislativamente impostole giuridicamente giustificato, essendo, nella specie, l’adempimento di tale obbligo – vigente e prescritto in situazioni ordinarie  – in conflitto con un interesse dell’obbligato, tutelato dall’ordinamento come valore preminente. In altre parole, la Corte Costituzionale ha ritenuto la norma provinciale prescrivente la clausola della stabile dimora non applicabile alla vicenda concreta sottesa alla questione di costituzionalità sottopostale.

Ancora una volta, si pensi al dirigente che, ricevuta,, dal suo vertice politico una direttiva implicante la stretta osservanza della clausola della stabile dimora, si trovi di fronte alla vicenda in parola. L’ingiusto pregiudizio derivante da tale direttiva implicherebbe – nuovamente – per il manager pubblico la possibilità/doverosità di correggere l’obiettivo assegnatogli, disattendendo la direttiva, ovvero  facendosi carico di una sua modifica nelle sedi competenti[17].

L’esame di questi casi-limite vale, peraltro, a cogliere il problema nei suoi termini essenziali ed a evidenziare l’insufficienza di un approccio meramente esecutivo. Ma è evidente che è nei quotidiani rapporti tra politico e dirigente che si devono venire a realizzare – fisiologicamente – le esigenze sopra rappresentate, nel reciproco riconoscimento dei propri rispettivi ruoli e della necessità per entrambi di farsi carico delle conseguenze delle decisioni e dell’impatto che le stesse possono avere sui beni della vita protetti come diritti, soprattutto fondamentali.

Ne deriva, dunque, una necessità di coraggio per il dirigente nel rappresentare gli ingiusti pregiudizi ipoteticamente derivanti a persone o a cose da una direttiva politica, nonché la disponibilità del politico a modificare le proprie scelte al fine di evitare ingiusti pregiudizi.             

La possibilità/doverosità per il dirigente di partecipare, correggere, adeguare la policy assume, inoltre, maggiore valenza se poi si considera che la norma sempre meno predefinisce – ordinandoli gerarchicamente – gli interessi, con aumento, dunque, dell’attività – anche creativa – della pubblica amministrazione e, quindi, dei dirigenti, nel selezionarli, ponderarli e bilanciarli[18].

La realizzazione dell’attività amministrativa – oggi ancor più che nel passato – comporta, dunque, la necessità di una piena integrazione tra l’azione della dirigenza e quella dei vertici politici, attesa la commistione della natura dei fattori che caratterizzano l’una e l’altra. Basti, per esempio, far riferimento all’ipotesi di realizzazione di un accordo di programma – manifestazione di una scelta politica –  che sarà preceduto e che sarà il frutto di una serie di incontri, conferenze di servizi volti ad individuare l’interesse da perseguire e tutelare con l’accordo e che dunque condizionano anche la sua stipula. Incontri preparatori che però comportano l’utilizzo di specifiche competenze tecniche, non possedute dall’organo politico, che possono essere garantite e assicurate solo dalla costante presenza e collaborazione di funzionari e dirigenti[19]

La distinzione, pertanto, non è da intendersi in termini rigorosi, ma è tendenziale[20]; essa implica collaborazione e non contrapposizione, giacchè il corretto funzionamento del sistema non può che basarsi sul raccordo funzionale tra le competenze dell’organo politico e quelle dei dirigenti, caratterizzate da una continua e reciproca necessità di interazione[21].

E proprio in virtù di questo raccordo funzionale e delle esigenze di reciproca interazione che, però, a seguito dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 29/93 si è creato, in materia di dirigenza statale, un sistema contraddistinto dal riconoscimento di un rapporto di carattere fiduciario tra organi di indirizzo politico e dirigenti, in cui valore preponderante assumono l’intuitus personae e la (connessa) temporaneità degli incarichi dirigenziali.

Sistema che, benchè nella sua originaria configurazione prevedesse determinati parametri oggettivi e soggettivi sui quali orientare la decisione ministeriale[22], ha attribuito al vertice politico ampia libertà nella scelta (e nella conferma) dei (propri) dirigenti, ai quali non sono più riconosciute, all’interno dell’organigramma, posizioni funzionali precostituite, non trovando applicazione – con espressa deroga rispetto alla disciplina privatistica applicabile – l’art. 2103 cod. civ..

Di talchè la possibilità di scelta ministeriale e – più in generale – lo ius variandi dell’organo politico non trovano limite in un diritto del dirigente a vedersi assegnata la titolarità di un ufficio dirigenziale, oppure a vedersi confermato nell’incarico in precedenza attribuitogli o – almeno – di essere adibito a funzioni equivalenti (quanto ad importanza e prestigio) a quelle in precedenza svolte[23].

Si è dato, quindi, vita ad un sistema che – sulla falsariga del modello aziendale privato e privilegiando la sintonia tra indirizzo politico e gestione – ha riconosciuto agli organi di indirizzo la possibilità di scegliere il dirigente ritenuto più idoneo al conseguimento degli obiettivi prestabiliti e che – stante il carattere temporaneo degli incarichi dirigenziali e la deroga al dettato dell’art. 2103 cod. civ. – non solo non consente al dirigente di rivendicare il consolidamento (e la conservazione) delle posizioni via via assunte nell’organizzazione amministrativa,  ma lo lascia, altresì, in balia degli organi di indirizzo. Con conseguente precarizzazione della dirigenza e politicizzazione dei suoi vertici[24], nonché compromissione dell’autonomia costituzionalmente riconosciutale.

2. Segue: interventi normativi (d.pr. n. 150/99, legge n. 145/2002, d.lgs n. 150/2009), spoils system (cenni), accentuazione del carattere precario del rapporto vertice politico-dirigenza

La precarizzazione dei dirigenti ha trovato conferma in due interventi normativi, che sebbene emanati da governi espressione di diversi (e alternativi) schieramenti politici, sono entrambi frutto della medesima tendenza, volta a privilegiare ancor di più il vertice ministeriale[25], e – conseguentemente – a rafforzare quel cordone ombellicare oramai esistente tra politica e dirigenza. Il riferimento è al d.P.R. 29.2.1999 n. 150 e alla legge 15.7.2002 n. 145 (c.d. legge Frattini), con i quali espresso riconoscimento normativo è stato dato al c.d. spoils system[26].

Con il d.P.R. n. 150 si era innanzitutto prevista la cessazione degli incarichi dirigenziali esistenti, salvo conferma entro i novanta giorni successivi alla sua entrata in vigore. Inoltre gli incarichi dirigenziali di livello più elevato potevano essere confermati, revocati, modificati o rinnovati entro i novanta giorni successivi al voto di fiducia al governo. Il tutto in un contesto di ampia discrezionalità da parte dell’esecutivo e senza la previa attivazione delle procedure di garanzia comunque previste dalla normativa[27]. Era stata poi prevista una durata (temporanea) di tutti gli incarichi dirigenziali, con un minimo di due anni ed un massimo di sette.

Anche nel 2002 è stata confermata la cessazione automatica (entro il sessantesimo giorno dall’entrata in vigore della legge n. 145) degli incarichi dirigenziali generali; mentre per gli incarichi dirigenziali non generali si è prevista la necessità della loro conferma entro novanta giorni, salvo diverso provvedimento. E, con previsione avente carattere generale – e non una tantum come l’analoga disposizione prevista dal decreto n. 150 – per tutti gli incarichi dirigenziali di livello più elevato si è configurata la loro cessazione, decorsi novanta giorni dal voto sulla  fiducia al governo.

Prevedendo, dunque, un cambiamento automatico di tutti gli incarichi dirigenziali (almeno quelli di livello più elevato) ad ogni cambiamento del vertice politico.

Anche nel nostro ordinamento, quindi, si è voluto introdurre lo spoils-system[28] di matrice americana.

Come è noto su detto tipo di sistema è  intervenuta la Corte Costituzionale che, con un serie di recenti pronunce, ha più volte affermato l’illegittimità costituzionale di meccanismi di spoils system riferiti ad incarichi dirigenziali che comportino l’esercizio di compiti di gestione, cioè di funzioni amministrative di esecuzione di indirizzo politico[29], ritenendo, di converso, costituzionalmente legittimo il sistema in parola quando riferito a posizioni apicali[30], del cui supporto l’organo di governo si avvale per svolgere l’attività di indirizzo politico amministrativo[31].   

Meritevoli di menzione sono anche le modifiche introdotte nel 2002 in tema di conferimento degli incarichi dirigenziali, che vanno tutte nel senso di una ulteriore ed accentuata precarizzazione della dirigenza, con abbandono dei (residui) precedenti dati e parametri obiettivi.

Nel  testo dell’art. 19 del d.lgs 165/01, come modificato nel 2002, ad esempio,  non è più contemplato il criterio della rotazione quale normale sistema di avvicendamento.

Ancora: gli elementi in base quali procedere al conferimento degli incarichi ed, in particolare, le attitudini e le capacità professionali del singolo dirigente sono valutate anche in considerazione dei risultati conseguiti, raffrontati però non – come in precedenza – nella loro oggettiva bontà ed utilità, bensì con specifico riferimento agli obiettivi fissati nella direttiva annuale e negli altri atti di indirizzo del Ministro, ossia in virtù della loro aderenza alle linee programmatiche fissate dagli organi di indirizzo, prescindendo – almeno così pare – da qualsiasi considerazione delle effettive capacità dirigenziali, assumendo valore preponderante ed assorbente la fedele messa in opera delle linee programmatiche ricevute: la necessità di perseguimento dell’obiettivo politico sembrerebbe prefigurare una sorta di sussunzione a dogma dell’elemento fiduciario, assegnando a quest’ultimo peraltro un’accezione per lo più fideistica, quindi insindacabile[32].

La definizione dell’oggetto dell’incarico, gli obiettivi da conseguire, e la durata delle funzioni attribuite non sono più effettuati contrattualmente e, dunque, con un atto, di natura privatistica, bilaterale e paritario, bensì attraverso uno specifico provvedimento – ossia in via unilaterale dal vertice politico – rispetto al quale il contratto individuale costituisce atto successivo ed accessivo, relativo solo agli aspetti economici del rapporto[33].

Si tratta di modifiche che, eliminando criteri oggettivi di individuazione dei dirigenti (quali quello della rotazione) e legando la valutazione dei risultati, non alla loro oggettiva utilità, bensì alla corrispondenza o meno agli indirizzi ricevuti e non prevedendo più una durata minima degli incarichi, hanno comportato non solo un’accentuazione del carattere manageriale del dirigente pubblico, ma altresì una (esasperata) precarizzazione della dirigenza[34], visto che il conferimento dell’incarico, la sua durata, il suo concreto esplicarsi, la sua valutazione e la sua (eventuale) conferma sembrano essere sempre più sganciati da dati obiettivi e legati ad un elemento personale-soggettivistico, fondato sulla esclusiva osservanza delle direttive ministeriali.

Il tutto in un quadro organizzativo che dunque sembrerebbe consentire vere e proprie invasioni di campo da parte del personale politico, senza assunzione delle relative responsabilità e con effetti non solo limitati al rapporto con l’alta dirigenza, ma destinati a ripercuotersi a cascata anche nel rapporto con la dirigenza di livello inferiore, anch’essa scelta (dal fidato dirigente di livello superiore) secondo una linea di comune sentire.

Una parziale correzione del sopra delineato quadro pare essere stata adottata con la c.d. riforma Brunetta.   

Il d. lgs. n. 150 del 2009 ha, infatti, sostituito il comma 1 dell’art. 19 del d. lgs. n. 165 del 2001 ancorando il conferimento dell’incarico anche alla valutazione dei risultati conseguiti in precedenza dal dirigente, ha previsto la conoscibilità dei criteri di scelta e ha reintrodotto una correlazione tra durata dell’incarico e gli obiettivi prefissati, nonché un termine minimo (tre anni) di detta durata.   

3. La responsabilità dirigenziale nel D.P.R. n. 748/1972

La distinzione tra politica ed Amministrazione e la conseguente autonomia della dirigenza rispetto agli organi di indirizzo costituiscono il presupposto della responsabilità dirigenziale.

Come anticipato, tale tipo di responsabilità – anche se in forma parzialmente differente – ha visto il suo primo genus nell’art. 19 del d.P.R. 748/72, il quale, appunto ha sancito la responsabilità dei dirigenti per il buon andamento, l’imparzialità e la legittimità dell’azione degli uffici a loro sottoposti. Responsabilità da valutare con riferimento all’osservanza degli indirizzi generali dell’azione amministrativa emanati dal Governo o dal singolo Ministro per il dicastero di competenza, all’osservanza dei termini e delle altre norme di procedimento previsti dalle disposizioni di legge o di regolamento e con riguardo al conseguimento dei risultati dell’azione degli uffici cui è preposto il dirigente.

Una responsabilità, dunque, di risultato – aggiuntiva (ferme restando le altre norme in materia) – anche per fatto altrui e basata su un rapporto di fiducia tra ministro e dirigente[35].

Quanto alle conseguenze della responsabilità dirigenziale, tale norma prevedeva la rimozione dalle funzioni dirigenziali (con eventuale destinazione ad altre funzioni) ed  in caso di rilevante gravità o di reiterata responsabilità, il Consiglio dei Ministri poteva deliberare il collocamento a riposo, per ragioni di servizio, dei dirigenti (ma solo quelli generali o appartenenti a qualifiche superiori), anche se non sono mai stati collocati a disposizione (art. 19, comma 7, d.P.R. 748/72).    

Né, ovviamente, è mancato l’apporto della giurisprudenza (a dir la verità esigua)  nel tentativo di tracciare gli aspetti salienti della responsabilità in parola.

Il Consiglio di Stato, tracciandone le differenze dalla responsabilità disciplinare, che è personale, l’ha qualificata come un tipo di responsabilità che trascende i limiti del comportamento personale del soggetto e comprende anche l’azione complessiva dell’ufficio avvicinandosi …ad alcune ipotesi di responsabilità civile per fatto altrui (culpa in eligendo, culpa in vigilando),  seppur con tutti i limiti che la cautela impone in siffatti raffronti. È una responsabilità che il giudice amministrativo ha avvicinato a quella politica, in quanto implica un giudizio non tanto di colpevolezza, quanto di accertata inidoneità all’esercizio di determinate funzioni o di insussistenza di un rapporto fiduciario, le cui conseguenze – coerentemente – danno luogo non a sanzioni vere e proprie, bensì alla rimozione da quelle funzioni, eventualmente anche alla destinazione a funzioni diverse ed, in caso di rilevante gravità, al collocamento immediato a riposo per ragioni di servizio.

Una responsabilità di risultati: non rileva tanto che il dirigente abbia o meno assolto i propri doveri (profilo questo semmai valutabile sotto l’aspetto disciplinare), bensì valore assorbente assume il fatto che i risultati complessivi dell’azione dell’ufficio siano più o meno corrispondenti, quantitativamente e qualitativamente, alle ragionevoli attese[36] dell’organo di indirizzo.

E ciò all’interno di un rapporto di intima fiducia tra vertice politico e dirigente preposto ad un determinato ufficio. Difatti, come osservato in dottrina[37], è per l’affievolimento o il venir meno della fiducia riposta nel dirigente – e non per sua colpa o dolo – che egli poteva essere – addirittura – collocato a riposo per ragioni di servizio e dunque privato dell’impiego.

Siamo di fronte, quindi,  ad una responsabilità che nei rapporti tra indirizzo (politico-amministrativo) e concreta esecuzione mutua i suoi canoni di valutazione dalla disciplina dettata per l’azienda privata, nel tentativo di avvicinare l’organizzazione amministrativa alla realtà aziendale.

Tanto è vero che la citata giurisprudenza , non ha esitato a parlare tout court di responsabilità manageriale, paragonandola alla responsabilità propria degli amministratori e dirigenti delle grandi imprese.

Al riguardo, infatti, occorre sottolineare, come il giudice amministrativo abbia avvertito l’esigenza di una raffronto tra Amministrazione pubblica e impresa privata e di sottoposizione dell’attività della p.A. ad una valutazione da condursi secondo i tipici canoni aziendali,  sia pure con tutte le differenze di finalità e di metodo che corrono tra la Pubblica Amministrazione e l’impresa, ritenendo  (possibile, anzi opportuno, anzi) necessario, valutare l’operato anche della prima in termini di efficacia (rapporto tra fini perseguiti e risultati ottenuti) e in termini di efficienza (rapporto tra mezzi impiegati e risultati ottenuti)[38].

4. La responsabilità dirigenziale nella privatizzazione del pubblico impiego

L’istituto della responsabilità dirigenziale è stato previsto anche nel d.lgs 29/93 (e successive modificazioni ed integrazioni) e i suoi caratteri hanno ovviamente risentito dei principi ispiratori della riforma del pubblico impiego.

In particolare, secondo il principio di distinzione tra politica ed amministrazione – il quale ha determinato il potenziamento e l’accrescimento delle attribuzioni e dell’autonomia della dirigenza – la responsabilità dirigenziale ha visto aumentare il suo carattere di managerialità, atteso che la condotta del dirigente viene giudicata, ancor di più in virtù dei risultati concreti conseguiti[39].

Scomparso ogni riferimento alla legittimità dell’azione (ma, si noti, anche al buon andamento ed all’imparzialità),  a norma dell’art. 20, comma 1, del decreto legislativo n. 29, i dirigenti generali ed i dirigenti erano responsabili del risultato dell’attività svolta dagli uffici ai quali sono preposti, della realizzazione dei programmi e dei progetti loro affidati in relazione agli obiettivi dei rendimenti e dei risultati della gestione finanziaria, tecnica ed amministrativa, incluse le decisioni organizzative e di gestione del personale.

L’attenzione si sposta, dunque, in maniera ancora più netta, sul  risultato, il quale sembra divenire, il parametro per valutare la correttezza e la bontà dell’agire amministrativo[40].

Ciò, naturalmente non significa che il principio di legalità sia rinnegato. Al contrario esso assume un ruolo ancor più pregnante perché teso al raggiungimento di un risultato concreto, utile, giusto e quindi giuridico[41].

È  questo un profilo di particolare interesse, poiché, ai fini della valutazione della condotta dirigenziale, diviene essenziale non solo il raggiungimento effettivo dei risultati attesi, ma anche la modalità ed i termini in cui gli obiettivi ed i risultati vengono definiti. Di conseguenza, occorre anche domandarsi in che misura tale definizione incida sul loro perseguimento e che cosa accada qualora la sua pedissequa messa in opera possa dar luogo a  risultati antigiuridici, con conseguente dovere del dirigente generale di evitarne la realizzazione. 

A seguito della riforma deve, poi, ritenersi – si è anticipato – accentuato anche il carattere politico di tale responsabilità, giacché la dirigenza è legata ancor di più ai vertici ministeriali da un rapporto basato sulla fiducia, che vede il dirigente – almeno di livello più elevato – (co)protagonista (non solo dell’esecuzione, ma anche) nell’effettuazione delle scelte e delle priorità da mettere in opera.

Il principio di distinzione tra politica ed amministrazione, quindi, pur determinando l’assegnazione di compiti e ruoli differenti, non esclude ma,   anzi, implica la collaborazione fra politica ed amministrazione[42].

Ed è in tale contesto normativo di marcata collaborazione che, ex art. 20 d.lgs n. 29/93 (originaria formulazione), l’inosservanza delle direttive e i risultati negativi potevano comportare per (tutti) i dirigenti il collocamento a disposizione per la durata massima di un anno; ed in caso di responsabilità particolarmente grave e reiterata per i dirigenti privatizzati il licenziamento sub specie di recesso per giusta causa, mentre per i dirigenti generali (all’epoca esclusi dalla privatizzazione) era ancora previsto il collocamento immediato a riposo per ragioni di servizio di cui all’art. 19, comma 7, d.P.R. 748/72. Prevedendo dunque misure di estinzione del rapporto di lavoro, aventi portata radicale ma che potevano scaturire solo in caso di responsabilità notevolmente qualificata (dalla particolare gravità o dal reiterarsi di comportamenti non efficienti ed efficaci e, comunque, non corrispondenti alle direttive ricevute) e che presupponeva comunque la presenza di entrambi i presupposti.

A tal proposito, invero, la dottrina[43] ha prontamente sottolineato il nesso esistente tra i parametri di valutazione della responsabilità in parola.

La mancata osservanza delle direttive ed il conseguimento di risultati negativi sono tra loro imprescindibilmente concorrenti, nel senso che l’inosservanza delle direttive, di per sé, pur potendosi configurare come un’infrazione sotto altro profilo, quale ad esempio quello disciplinare, non integra tuttavia un’ipotesi di responsabilità dirigenziale. Analogamente, il risultato negativo della gestione senza l’intervenuta inosservanza della direttiva non configura neanch’esso un’ipotesi di responsabilità dirigenziale, dovendosi, in tal caso, far risalire ed imputare all’organo che ha posto la direttiva, l’esito negativo della gestione.

Inoltre, il richiamo alle  ragioni di servizio …postula … l’esigenza che il collocamento a riposo sia il risultato di una comparazione tra l’interesse dell’amministrazione a privarsi delle prestazioni del dipendente e l’interesse dell’amministrazione stessa a mantenerlo comunque in servizio.

L’art. 20 cit. ha poi subito una serie di modifiche ed è stato abrogato dal d.lgs 31 marzo 1998 n. 80 (art. 43), con  il quale si è dato avvio alla seconda privatizzazione del pubblico impiego, eliminando – ferme alcune riserve – gli ultimi strascichi di regime pubblicistico lasciati ancora in piedi dal decreto n. 29 ed, in particolare, assoggettando alla disciplina civilistica anche la figura del dirigente generale.

Il decreto n. 80 ha, inoltre, riscritto la disciplina del conferimento, della revoca degli incarichi dirigenziali e della relativa responsabilità.

Ulteriori modifiche sono poi state apportate dall’art. 7 del d.lgs n. 387/98.

La disciplina della responsabilità dirigenziale risultante dai citati interventi normativi è stata infine riordinata e ribadita in sede di stesura del t.u. sul pubblico impiego, approvato con il d.lgs 165/01[44].

In particolare, l’art. 21 del decreto n. 165, nel riprodurre le precedenti disposizioni, ha previsto che i risultati negativi dell’attività amministrativa e della gestione o il mancato raggiungimento degli obiettivi …comportano per il dirigente interessato, la revoca dell’incarico … e la destinazione ad altro incarico. Mentre nel caso di grave inosservanza delle direttive impartite dall’organo competente o di ripetuta valutazione negativa …il dirigente, previa contestazione e contraddittorio, può essere escluso dal conferimento di ulteriori incarichi di livello dirigenziale corrispondente a quello revocato, per un periodo non inferiore a due anni. E nei casi di maggiore gravità, l’amministrazione può recedere dal rapporto di lavoro, secondo le disposizioni del codice civile e dei contratti collettivi.    

In buona sostanza, sono state previste quattro ipotesi in cui poteva configurarsi la responsabilità dirigenziale (accertamento dei risultati negativi; mancato raggiungimento degli obiettivi; grave inosservanza delle direttive; ripetuta valutazione negativa dell’attività e della gestione), che sul piano sanzionatorio comportavano la revoca dell’incarico conferito e la destinazione ad altri compiti (prime due ipotesi), oppure l’esclusione dal conferimento di ulteriori incarichi e, nel caso di maggiore gravità, la risoluzione del rapporto di lavoro (terza e quarta ipotesi)

A seguito dei decreti correttivi del 1998, quindi, sul piano delle conseguenze della responsabilità dirigenziale, la figura del dirigente pubblico è in toto equiparata al manager privato, anche per quanto attiene alla disciplina applicabile nel caso di cessazione del rapporto nel caso di grave responsabilità.

5. La responsabilità dirigenziale dopo le riforme Frattini e Brunetta

Gli ultimi interventi normativi in tema di dirigenza pubblica hanno interessato, ovviamente, anche il peculiare aspetto della responsabilità dirigenziale.

Il testo dell’art. 21, comma primo, come modificato dalla legge n. 145/2002 sancisce che il mancato raggiungimento degli obiettivi, ovvero l’inosservanza delle direttive imputabili al dirigente comportano …l’impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale e che in relazione alla gravità dei casi, l’amministrazione può, inoltre, revocare l’incarico collocando il dirigente a disposizione …ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo.

È pur vero che in detto testo con la riforma Brunetta (come si vedrà a breve) sono stati introdotti alcuni correttivi tendenti ad assicurare una più oggettiva valutazione dell’operato dirigenziale, tuttavia non può sfuggire che ad una si è avuta, una semplificazione (recte: generalizzazione) delle ipotesi in cui è possibile configurare una responsabilità dirigenziale, ridotte dalle quattro in precedenza indicate a soli due casi (mancato raggiungimento degli obiettivi e inosservanza delle direttive), inserendo sul piano sanzionatorio – o meglio delle conseguenze derivanti dall’accertata responsabilità – la misura dell’impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale.

Mentre, in relazione alla gravità dei casi, il vertice politico ha la possibilità di revocare l’incarico o di recedere del rapporto.

Prevedendo, dunque, una ipotesi aggravata non tipizzata, a differenza di quanto sancito nel vecchio testo dell’art. 21,  secondo il quale, invece, la revoca dell’incarico, o addirittura,  la risoluzione del rapporto, non solo erano tra loro normativamente graduate, nel senso che si poteva procedere al recesso solo nei casi di maggiore gravità, ma  erano altresì collegate a fattispecie tassative ed individuate (grave inosservanza delle direttive e ripetuta valutazione negativa)

Il che – tenuto conto della valorizzazione dell’intuitus  personae che ispira la riforma Frattini – sembra lasciare  agli organi di governo un’insindacabile possibilità di utilizzare tali misure secondo logiche di parte, tese ad allontanare il personale non gradito, per collocare ai vertici dell’Amministrazione dirigenti di cui sia certa la fedeltà.

Anzi, giova sottolineare, liberarsi del dirigente non gradito sembra essere divenuto ancor più facile, visto che – data l’assenza di una durata minima dell’incarico – il vertice ministeriale dovrà solo attendere la sua naturale scadenza, senza necessariamente dover adottare misure sanzionatorie, con conseguente valore residuale della responsabilità dirigenziale[45].

Anche detto sistema, pare ricevere parziali correzioni dal legislatore del 2009.

L’art. 40 del d.lgs n. 150/2009 ha, invero, introdotto il comma 1 ter all’art. 19 d.lgs n. 165/2001, sancendo che gli incarichi dirigenziali possono essere revocati esclusivamente nei casi e con le modalità di cui all’art. 21, comma 1, secondo periodo.

La norma in commento., inoltre, ha ancorato l‘accertamento del mancato raggiungimento degli obiettivi alle risultanze del sistema di valutazione previsto dal d.lgs n. 150 e legittima la revoca soltanto nei casi di responsabilità dirigenziale e nel rispetto di precise garanzie procedimentali, ossia del principio del giusto procedimento ex l. n. 241 del 1990 (adozione della revoca con atto comunicato al dirigente con congruo preavviso, motivato e previo contraddittorio)[46].

Pare potersi affermare che così operando il legislatore abbia voluto garantire un minimum di stabilità nell’incarico conferito, obbligando le parti al rispetto di garanzie mutuate dai principi ex l. 241/1990, procedimentalizzando l’iter decisionale, ancorchè all’interno di una logica datoriale privatistica e negoziale, il cui assetto è rimasto, però, sostanzialmente immutato

6. Il rapporto fiduciario tra organi di indirizzo politico-amministrativo ed organi di gestione: la necessità di ancorare l’elemento fiduciario su dati obiettivi; la fiducia come mezzo per il miglior perseguimento dell’interesse pubblico

Il progressivo (e per certi versi, inesorabile) accostamento tra dirigente pubblico e manager privato ha preso le mosse dalla necessità di costruire la macchina amministrativa secondo un disegno aziendale, in cui valore preponderante è dato alla fiducia riposta dall’organo di indirizzo nel suo manager/dirigente per la realizzazione del programma di governo.

Il rapporto ministro-dirigenza è infatti sempre più basato su un elemento fiduciario, con conseguente possibilità del vertice ministeriale di poter scegliere direttamente e discrezionalmente i dirigenti di livello più elevato, ma anche con conseguente rischio per il dirigente di essere sempre più contiguo e legato al potere politico e di perdere – di fatto – quell’autonomia che la riforma ha inteso riconoscergli.

Occorre – a questo punto – pertanto analizzare  in che termini debba intendersi l’elemento fiducia, l’intimo contatto tra direzione e gestione e, soprattutto, su quali basi esso debba fondarsi.

A tal riguardo, sia la dottrina sia la giurisprudenza hanno avvertito la necessità di ricondurre il rapporto fiduciario in termini fisiologici e di ancorare i suoi presupposti a caratteri oggettivi, di obiettivo riscontro, nella consapevolezza del necessario inserimento di detto rapporto all’interno di un circolo virtuoso teso al  perseguimento dell’interesse pubblico.

Non è mancato, invero, chi ha avvertito che la relazione fiduciaria tra vertice politico e dirigenza debba essere intesa non in termini di affinità partitica o di contiguità, bensì in termini di continuità[47], quale mezzo, tenuto conto di dati obiettivi, che assicuri – appunto – una continuità dell’azione amministrativa, intesa quale corrispondenza costante tra l’agire della p.A. con i fini individuati dal vertice politico, che non può sopportare cambiamenti estemporanei, determinati da eventi contingenti o da scelte del momento dettate da logiche di parte[48]. E ciò onde poter realizzare  il  principale compito dell’Amministrazione: dare attuazione all’indirizzo e alle scelte di fondo degli organi politici. Compito che – seppur implica una dipendenza funzionale del potere amministrativo dal potere del Governo – deve essere realizzato da una posizione di indipendenza operativa e nel rispetto dell’imparzialità e del buon andamento, per il miglior esercizio delle funzioni pubbliche.

L’esigenza di ancorare l’elemento fiduciario a parametri oggettivi, di effettivo riscontro, funzionali all’ottimale perseguimento dell’interesse pubblico ha trovato terreno fertile anche in giurisprudenza che ha definito la fiducia quale fiducia nel miglior esercizio delle funzioni pubbliche, da valutare secondo un giudizio fondato secondo i normali criteri della fedeltà del pubblico impiegato rispetto agli organi di vertice e della sua neutralità rispetto alla persone titolari di quegli organi ed all’avvicendarsi al Governo delle correnti politiche.

Il rapporto fiduciario non può, dunque, basarsi su un intuitus personae, fondato su affinità di idee personali o politiche, o generica compatibilità o simpatia, ma deve consistere – per quanto è possibile agli uomini – nella ricerca di dati obiettivi, con riferimento alla probabilità di svolgimento ottimale di mansioni pubbliche per un periodo di tempo indipendente dalle vicende governative[49]. È fiducia tecnica, basata sulla conoscenza del dirigente, delle sue qualità, della sua esperienza e preparazione professionale, della sua cultura: ossia su parametri in base ai quali è possibile giungere ad una ragionevole previsione che l’azione del dirigente sarà conforme e coerente con gli obiettivi politici fissati dal governo e sarà espletata da una posizione di imparzialità e neutralità[50]

Il che implica – parimenti – un dovere del ceto politico di agire secondo imparzialità e buon andamento, prescindendo da logiche di parte e di procedere al conferimento degli incarichi dirigenziali secondo un giudizio prognostico – che sulla base di circostanze obiettivamente rilevabili – dia adeguate garanzie che la funzione pubblica sia esplicata nel miglior modo possibile. Con esplicitazione delle ragioni serie e di spessore[51]e che inducono verso la scelta di un determinato dirigente (anche in luogo di un altro)[52]. Ragioni che devono riguardare – si ribadisce – la fissazione degli obiettivi, ossia i risultati che il vertice politico prefigura e l’idoneità del dirigente scelto a conseguirli, nel rispetto dei criteri regolanti l’azione amministrativa.

Ed è in questa prospettiva che si muove – ad esempio – l’ordinanza 2.9.2009 n. 208[53] del T.A.R. Molise, I sezione, in tema di nomina di un direttore generale di A.S.L.. Decisione il cui valore esemplare è ancor più significativo trattandosi nella specie di alta dirigenza, ambito nel quale l’intuitus personae è ancor più accentuato.

Un’associazione di categoria delle imprese del settore sanitario è ricorsa la giudice amministrativo avverso la deliberazione di giunta regionale molisana di nomina del nuovo direttore generale di una a.s.l.. ritenuta dall’associazione ricorrente lesiva del proprio interesse a che il settore de quo sia organizzato secondo imparzialità e buon andamento  in quanto la scelta del dirigente era stata effettuata senza  indicazione degli obiettivi da realizzare.

Ed il T.A.R. ha accolto l’istanza cautelare annessa all’impugnativa, atteso che la nomina del direttore generale … in assenza di specifici obiettivi da perseguire, incide sull’imparzialità dell’organo di vertice della A.S.L. rispetto ai possibili condizionamenti da parte dell’organo politico, nonché – soprattutto – sulla efficienza, efficacia ed economicità della gestione, verificabili solo attraverso la puntuale predeterminazione degli obiettivi gestionali[54].

La necessaria previsione del risultato a cui è tenuto il vertice politico caratterizza ontologicamente il potere di scelta del dirigente e lo conforma imponendogli un precipuo dovere di esplicitare in modo puntuale e dettagliato gli obiettivi gestionali da affidare, consentendo al giudice di verificare l’ancoraggio della electio a parametro obiettivo[55].

Il gradimento politico deve essere letto non in termini di schieramento, bensì – secondo un parametro di neutralità – in termini di idoneità (oggettiva) allo svolgimento (ottimale) dei compiti previsti.

La lettura fisiologica e neutrale della fiducia, del resto, sembra essere stata recepita anche dal legislatore, il quale nella prime stesure della disciplina per il conferimento degli incarichi dirigenziali ha fatto riferimento ad alcuni parametri oggettivamente riscontrabili che tenevano effettivamente conto delle attitudini e delle capacità (dimostrate) dal dirigente. Lettura che però – come detto in precedenza –  è stata messa da parte a seguito degli interventi normativi del 2002[56] e parzialmente ripresa con la riforma del 2009.

7. Il potere pubblico di collocamento a riposo per ragioni di servizio e la doverosa valutazione della responsabilità dirigenziale in termini di risultato concreto

Occorre, a questo punto, spostare l’indagine sulle conseguenze previste per la responsabilità dirigenziale.

In particolare occorre fare riferimento ai casi di responsabilità grave e dunque di estinzione del rapporto di lavoro, ed analizzare in base a quali parametri il potere ministeriale era sindacabile secondo la precedente prospettiva (e disciplina) pubblicistica, se tali parametri possono ritenersi ancora validi a seguito della riforma del pubblico impiego ed, in caso negativo, quali siano i nuovi criteri a cui tale potere debba essere conformato.

Secondo la previgente disciplina pubblicistica (art. 19, comma 7, d.P.R. 748/72, ripreso anche dall’art. 20 del decreto n. 29, nelle sue prime formulazioni) il collocamento a disposizione o a riposo per ragioni di servizio del dirigente (ma solo generale) era disposto all’esito di un procedimento da svolgersi in contraddittorio con l’interessato.

In tale contesto, l’Amministrazione doveva procedere a quella comparazione tra l’interesse (pubblico) a privarsi delle prestazioni del dipendente e l’interesse (pubblico/privato) a mantenerlo (ed ad essere mantenuti) nell’incarico od in servizio, nonché procedere alla verifica della sussistenza – contemporanea – di tutti i presupposti (inosservanza delle direttive e risultati negativi) e requisiti (gravità o reiterarsi della condotta) richiesti dalla norma.

Sotto questo aspetto, la giurisprudenza, formatasi sotto la vigenza del d.P.R. n. 748/1972[57] – pur sottolineando che in materia di responsabilità dirigenziale vi è la più ampia discrezionalità nella triplice valutazione: dei risultati dell’attività amministrativa come più o meno negativi (rispetto ai programmi prefissi, alle risorse impiegate, ecc.); del nesso causale tra i detti risultati e le eventuali carenze del dirigente preposto; della congruità del provvedimento conclusivo – ha  evidenziato come tale ampia discrezionalità implichi, tuttavia, che il provvedimento di collocamento a riposo per motivi di servizio sia supportato da una motivazione che dia ampiamente ed adeguatamente conto delle suddette valutazioni.

La gravità delle conseguenze del provvedimento in parola imponeva all’organo di indirizzo politico un obbligo di evidenziazione in concreto dell’inosservanza delle direttive e dei contestati risultati negativi della gestione con esplicitazione – nella loro oggettività – sia dei fatti posti a fondamento della contestata responsabilità, sia delle ripercussioni negative sull’efficienza e sulla tempestività dell’azione amministrativa[58]

La radicalità della misura comportava, quindi, una doverosa, adeguata considerazione dei risultati – negativi – concretamente conseguiti dal dirigente generale e, conseguentemente, un dovere, per il vertice ministeriale,  di obbligatoria verifica circa la sussistenza effettiva di tutti i presupposti necessari per l’emanazione del decreto di collocamento a riposo in parola e, parimenti, un dovere di previsione delle conseguenze e degli effetti derivanti dalla decisione che si stava per adottare, la quale, dunque, doveva dar compiutamente conto degli addebiti contestati e della loro effettiva e concreta valenza negativa.

Inoltre, la considerazione adeguata degli effettivi risultati conseguiti non poteva prescindere dalla definizione ministeriale (in concorrenza con il dirigente) degli obiettivi, i quali – necessariamente – dovevano (e devono) essere individuati con precisione, realismo, concretezza e programmati secondo una tempistica pertinente.

Se così non fosse stato, il potere sanzionatorio del ministro si sarebbe colorato d’arbitrarietà o – per contro – di fronte ad obiettivi irrealizzabili, si sarebbe dovuto concludere per una generale incensurabilità della dirigenza.

Per dirla diversamente, il potere di collocamento a riposo per ragioni di servizio, in quanto funzionale al conseguimento (recte: alla garanzia di conseguimento) del pubblico interesse, era anch’esso obbligato al rispetto di quei principi fondamentali (adeguatezza al caso concreto – ragionevolezza,  proporzionalità), caratterizzanti ogni (buona, giusta, utile, ect) decisione che, un’amministrazione, imparziale e tesa al buon andamento[59], è chiamata a porre in essere[60], e comportanti la necessità di valutare la possibilità di ipotesi alternative, secondo la regola del mezzo più mite[61].

 

 

8.  Il potere privato di recedere dal rapporto in caso di responsabilità dirigenziale: l’esigenza (giurisprudenziale) di salvaguardare l’autonomia della dirigenza; permanenza dell’obbligo in capo alla politica di evidenziare in concreto la giusta causa del recesso

 

La natura del potere di estinguere il rapporto di impiego deve, tuttavia, ritenersi mutata a seguito della riforma del lavoro alle dipendenze della pubblica Amministrazione.

In  dottrina ed in giurisprudenza si afferma sempre più spesso che oramai – con riguardo al rapporto con i propri dipendenti – l’Amministrazione non è più titolare di un potere amministrativo e, quindi, …di … una potestà discrezionale, ma esercita le sue prerogative all’interno di un ambito di valutazione e di scelta contrattualmente attribuito alla parte datoriale[62].

La riforma del pubblico impiego ha, invero, sostanzialmente attribuito a tutti gli atti dell’Amministrazione direttamente o indirettamente connessi alla gestione del rapporto di lavoro natura privatistica o, quantomeno, valenza essenzialmente datoriale.

Si tratta quindi di atti non più qualificabili come provvedimenti amministrativi, ma equiparabili a tutti gli effetti a quelli emessi da un datore di lavoro privato, soggetti, pertanto, al regime di diritto civile. Con l’ulteriore conseguenza che da essi scaturiscono diritti ed obblighi sul piano esclusivamente privatistico[63]. Né, peraltro, tale assunto pare essere messo in crisi dal ritorno al provvedimento per il conferimento degli incarichi dirigenziali. Infatti – pur prescindendo da qualsiasi analisi circa la natura (pubblica o privata) di tale atto, non sembrano sussistere dubbi circa sulla configurazione privatistica degli atti ad esso successivi – esclusa forse la revoca per responsabilità dirigenziale[64] – trattandosi comunque di misure inerenti alla gestione del rapporto di lavoro[65]. Ed in ogni caso deve concludersi per la natura privatistica dell’atto di recesso, attesa la sua peculiare regolamentazione contrattuale.

Nella (nuova) ottica privatistica, dunque – pur con le riserve espresse in precedenza –  non sembrano più essere pertinenti – o quantomeno avere valore assorbente – né la tradizionale qualificazione in termini di interesse legittimo (puro) attribuita alla posizioni della dirigenza, né i tradizionali canoni di comportamento ai quali deve attenersi la p.A. nell’esercizio (corretto) delle sue potestà discrezionali, le quali, in quanto “privatizzate” tendono a sfuggire agli usuali canali di controllo dell’eccesso di potere.

In siffatta situazione, occorre allora domandarsi, in primis se innanzi a poteri datoriali privati della p.A., le posizioni giuridiche dei dirigenti risultino rafforzate o meno a seguito della (completa) civilizzazione del rapporto di impiego ed, in secondo luogo, in base a quali parametri il potere sanzionatorio privato (recte: di recesso dal rapporto di lavoro) dell’Amministrazione possa essere controllato e sindacato nonchè, soprattutto, quali strumenti di tutela, in caso di revoca dall’incarico e, soprattutto, di risoluzione del rapporto per responsabilità dirigenziale,  siano attualmente accordati al dirigente.

Con riferimento al primo profilo, si è detto che la logica aziendale sottesa alla riforma del pubblico impiego ha accentuato il carattere di managerialità della dirigenza, la quale – almeno con riferimento ai dirigenti di livello più elevato – ha assunto, anche in virtù delle sue funzioni di proposta e di impulso (ossia quelle più direttamente raccordabili all’attività politica) un ruolo di cerniera[66] tra indirizzo politico e attività amministrativa, che sembra giustificare – seppur con i dovuti correttivi – una comunque larga discrezionalità del vertice ministeriale nelle nomine e nel conferimento degli incarichi.

Discrezionalità che sembrerebbe operare, simmetricamente, anche per quanto attiene alle ipotesi di cessazione del rapporto per ragioni di servizio.

Tali posizioni, invero, poiché funzionali al concreto perseguimento degli interessi dell’organizzazione (come specificati nel programma ministeriale o di governo) potrebbero essere considerate – secondo una prospettiva prettamente privatistico-imprenditoriale – anche immediatamente “sacrificabili”, qualora il dirigente non fosse in grado di assicurarne il conseguimento.

Pur nell’ottica della separazione[67], agli organi di indirizzo politico è riconosciuta la facoltà di scegliere i tecnici ai quali affidare la realizzazione del programma grazie al quale si è ottenuta la vittoria elettorale[68]. Ma tale scelta implica – almeno prima facie –  la possibilità per il Governo di privarsi immediatamente del dirigente dimostratosi incapace, anche considerando che il medesimo partecipa (direttamente o indirettamente) alla effettiva concretizzazione – in termini di fattibilità – di tale programma. 

Il che, tra l’altro, non pare nemmeno in contrasto con la distribuzione dei poteri di direzione e di gestione, tra politica e dirigenza, conseguente alla riforma del pubblico impiego[69].

Alla dirigenza  oramai è attribuito un potere di gestione pieno, da esercitarsi autonomamente, nell’ambito delle direttive ministeriali,  e non comprimibile dai vertici politici se non in via straordinaria. In altre parole, l’opzione per il modello direttivo – rispetto a quello gerarchico, in precedenza sussistente tra ministro e dirigente – demanda alla completa autonomia – e quindi responsabilità – del dirigente l’attuazione concreta delle scelte programmatiche. Autonomia che, però, a ben guardare, rischia di esser compromessa dal carattere precario dell’incarico ricevuto[70].

Il potere dell’organo politico non si esaurisce, infatti, solo all’atto del conferimento, ma – quasi come una spada di Damocle – trova manifestazione anche in sede di (eventuale) rinnovo, con possibilità di scegliere – in luogo di quella in precedenza attribuita – una pluralità di posizioni dirigenziali, caratterizzate da differenti contenuti professionali e retributivi.

Se poi si tiene conto che al conferimento degli incarichi ed al passaggio ad incarichi diversi non si applica l’art. 2103, 1° co. del codice civile (art. 19, comma 1, d.lgs 165/2001) – con conseguente possibilità di essere assegnato a mansioni inferiori – risulta evidente che ai vertici politici è assegnato il potere di attribuire il dirigente ad un incarico di rilievo organizzativo, livello di responsabilità e valore economico inferiore a quello da ultimo occupato, consentendo così una sorta di retrocessione nella carriera del medesimo …anche non a seguito dell’accertamento di una qualche responsabilità ministeriale[71].

La logica aziendale, dunque, pur attribuendo alla dirigenza un ambito di operatività piena più esteso, può – di fatto – pregiudicare – l’autonomia del dirigente, che corre il concreto rischio di essere minata e compromessa dal(lo stra)potere politico.

La giurisprudenza costituzionale ha avvertito la gravità di tale pericolo. Tanto è vero che la Corte Costituzionale, tutte le volte che ha avuto modo di occuparsi della privatizzazione della dirigenza, con riferimento, alla possibilità degli organi di indirizzo politico di porre fine al rapporto di impiego per grave responsabilità dirigenziale ha sempre mostrato una tensione (recte: preoccupazione) alla salvaguardia dell’autonomia della dirigenza.

La Consulta, pur affermando che per la dirigenza non è prevista una garanzia costituzionale di autonomia da attuarsi necessariamente con legge attraverso uno stato giuridico particolare che assicuri stabilità e inamovibilità, rientrando dunque nella discrezionalità del legislatore la definizione dell’ambito della privatizzazione, ha però sempre ribadito che, in ogni caso, la disciplina (privata) del rapporto non può travalicare i limiti sanciti dall’art. 97 Cost., nonché condurre verso un’assimilazione con il lavoro privato tale da sfociare nel libero arbitrio di parte (pubblica) datoriale[72].

La riforma del lavoro pubblico deve, quindi, conformarsi ai principi di buon andamento, imparzialità e ragionevolezza. Conformità che la giurisprudenza costituzionale ancora  a parametri obiettivi e di effettivo riscontro.

Invero, proprio con riferimento al licenziamento per responsabilità dirigenziale, la Corte ha precisato che l’applicabilità al rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti delle disposizioni previste dal codice civile non comporta di per sé che la pubblica Amministrazione possa liberamente e tout court recedere dal rapporto di impiego, ma semplicemente che la valutazione dell’idoneità professionale è affidata a criteri e procedure di carattere oggettivo – assistite da un’ampia pubblicità e dalla garanzia del contraddittorio – a conclusione delle quali soltanto può esercitare il recesso[73].

A seguito della privatizzazione del rapporto, inoltre, alle posizioni della dirigenza, secondo la Corte, deve attribuirsi la qualificazione di diritto soggettivo. Pertanto il maggior rigore della responsabilità dirigenziale, conseguente alla distinzione tra indirizzo e gestione, deve essere accompagnato da un rafforzamento delle garanzie di conservazione del rapporto di impiego.

Rafforzamento da effettuarsi attraverso la specificazione delle peculiari responsabilità, la tipicizzazione delle misure sanzionatorie adottabili, nonché la previsione di adeguate garanzie procedurali nella valutazione dei risultati e dell’osservanza delle direttive ministeriali. E con la previsione, inoltre, del modo e dei tempi in cui si possa pervenire alla risoluzione definitiva del rapporto[74].

Riferendoci ora ai parametri di controllo e sindacato del potere di revoca e di recesso, deve tenersi presente che attualmente l’amministrazione può … recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo (art. 21 d.lgs 165/2001), alle quali è demandata l’individuazione delle modalità secondo le quali esercitare il recesso.

Tale circostanza, unitamente all’esame delle norme contrattuali in materia, induce a ritenere che quello in esame sia un potere contrattualmente definito e disciplinato. Pertanto, in sede di suo controllo e sindacato, trovano applicazione quei principi generali in base ai quali è normalmente valutata l’attività pattizia dei privati[75].

Un potere, quindi, da esercitarsi innanzitutto secondo il canone fondamentale della correttezza[76] (art. 1175 c.c.) e che presuppone una valutazione dell’attività dirigenziale operata secondo correttezza e buona fede (art. 1366 c.c.), con obbligo, dunque, di individuare i fatti impeditivi della prosecuzione del rapporto e, pertanto, di esteriorizzare le ragioni per le quali il contestato inadempimento (recte: il risultato negativo) assume importanza (art. 1455 c.c.) e di esplicitare la giusta causa che non consente la prosecuzione del rapporto[77].

Difatti, la contrattazione collettiva  prescrive sempre l’indicazione dei motivi oggettivi e soggettivi del recesso, nonché la previa contestazione dell’addebito per ottenere la risoluzione unilaterale del rapporto di servizio[78], presupponendo, ovviamente, che tali motivi debbano sussistere.

Stando così le cose, pare potersi sostenere che, anche in una prospettiva squisitamente privatistica,  è ancora gravante sugli organi di indirizzo politico il dovere di adottare una decisione fondata su presupposti obiettivi e su valide ragioni. Dovere stringente, poiché connaturato ad un potere (ormai) paritario, dai confini pattiziamente definiti.

In altre parole, anche a seguito della riforma del lavoro pubblico, è ancora  il risultato, concretamente considerato, raffrontato con gli obiettivi prefissati e le direttive ricevute e le risorse a disposizione ed inteso come entità certa, oggettivamente e effettivamente prevedibile e poi realizzabile[79], la maggiore garanzia di cui dispone la dirigenza nei confronti dei vertici ministeriali, i quali hanno il dovere di indicare addebiti pertinenti e rilevanti, in grado di dimostrare i risultati negativi[80], nonché la loro preponderanza, se non assorbenza, rispetto alla bontà degli altri obiettivi conseguiti. 

 

9. Giurisdizione ordinaria ed effettività di tutela: configurabilità di una tutela reale per il dirigente pubblico (a differenza del manager privato)

 

L’attenzione deve a questo punto spostarsi sui poteri attribuiti al giudice ordinario nell’ipotesi in cui l’Amministrazione disponga contra ius la cessazione del rapporto di lavoro per responsabilità dirigenziale. In altre parole, occorre domandarsi quale sia il grado di effettività della tutela accordata al dirigente licenziato ingiustamente e, più specificatamente, se all’accertamento dell’illegittimità del licenziamento possa conseguire una tutela di tipo meramente risarcitorio – come avviene nel settore privato –  oppure se vi siano anche margini di tutela restitutoria, con possibilità, dunque, di reintegrazione del dirigente nel “posto”.

A tal riguardo, si ricorda che con la devoluzione alla giurisdizione ordinaria di tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro pubblico, incluse quelle concernenti …la responsabilità dirigenziale (art. 63 d.lgs 165/2001), al giudice del lavoro è stato attribuito il potere  di adottare nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti, di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati (comma 2 norma citata).

Dalla lettera di tale norma, parte della dottrina ha dedotto che, oramai, ai diritti azionati dal lavoratore pubblico – nella specie di livello dirigenziale -deve (quantomeno) riconoscersi il medesimo grado di tutela accordato al lavoratore privato[81].

Il giudice civile ha infatti la possibilità di emanare nei confronti della p.A. la pronuncia che ritenga più adeguata ad assicurare tutela al diritto azionato in giudizio, il provvedimento cioè concretamente idoneo a soddisfare l’interesse sotteso all’esercizio dell’azione[82].

Siamo di fronte, quindi, ad una tutela piena, con possibilità di sentenze aventi anche effetti costitutivi o estintivi del rapporto di lavoro[83].

Dalla lettera di tale norma pare possibile dedurre la titolarità in capo al giudice del lavoro del potere di emanare sentenze costitutive, intese sia nel senso di decisioni che “costituiscono” nuovi rapporti o “ricostituiscono” rapporti risolti dall’Amministrazione[84], sia nel senso di decisioni di annullamento di atti contra ius, con gli effetti propri della sentenza di tale tipo. Vale a dire non solo con effetto eliminatorio, ma anche con effetti  ripristinatori. Ne deriva, in tale prospettiva, la possibilità per il dirigente ingiustamente licenziato di ottenere una  tutela non dissimile da quella riconosciutagli nel precedente assetto[85].

E ciò, soprattutto considerando che i provvedimenti che il giudice del lavoro ha la facoltà di adottare non risultano tipicizzati, con possibilità, dunque,  –di adottare una decisione che tuteli adeguatamente la situazione fatta valere in giudizio.

Tra l’altro, se così non fosse, ci troveremmo di fronte all’assurdo giuridico che un mero cambiamento di giurisdizione comporterebbe la perdita della specificità di tutela di cui, invece, in precedenza era assicurata al ceto dirigenziale[86].

Tuttavia la configurabilità di una tutela reale da luogo, inevitabilmente, a profili di disparità rispetto al differente regime di tutela – solo risarcitoria – accordato al manager privato in caso di recesso datoriale contra ius e, conseguentemente, a problemi di compatibilità con la disciplina del lavoro pubblico privatizzato, in cui si è visto, il carattere fiduciario del rapporto tra Ministro e dirigente risulta accentuato.

Sul punto sembra, però, potersi affermare che la suddetta disparità non costituisce violazione del principio di uguaglianza, in quanto coerente con la natura dei diritti tutelati.

Le posizioni assunte dal manager privato all’interno dell’impresa sono, invero, esclusivamente connesse al perseguimento dei privati e personali interessi dell’imprenditore, con conseguente possibilità di risolvere il rapporto per il semplice venir meno della fiducia in precedenza accordata, anche per motivi di ordine prettamente soggettivistico.

Differente è invece lo status assunto dal dirigente all’interno dell’organizzazione amministrativa, in quanto chiamato – sempre ed in ogni caso – al perseguimento e alla cura di interessi della collettività.

Significativa al riguardo è un’ordinanza del Tribunale di Benevento[87], con la quale il giudice del lavoro ha annullato una deliberazione di conferimento di incarico primariale ed ha ordinato all’Amministrazione di conferire l’incarico ad altro dirigente,  emanando una pronuncia costitutiva del rapporto dirigenziale, poiché dall’esame dei curricula prodotti dagli aspiranti risultava che il candidato in precedenza nominato aveva dei requisiti nettamente minori rispetto a quelli del ricorrente.

Né alcun rilievo, per il giudice del lavoro, ha avuto la circostanza che l’Amministrazione convenuta fosse un’azienda sanitaria, ossia una p.A. concepita ed organizzata secondo una logica e modelli tipicamente privatistico-imprenditoriali, assumendo valore assorbente nel campo della sanità pubblica la necessità che i posti di dirigente siano assunti dalle persone più meritevoli[88].

Il menzionato dato giurisprudenziale evidenzia, dunque, la diversità del dirigente pubblico, le cui posizioni – seppur qualificabili oramai in termini di diritto soggettivo ed attinenti ad un rapporto paritario – risultano sempre funzionalizzate non agli interessi (parziali) di un transeunte ceto politico-governativo, ma al perseguimento ed alla messa in opera di un’attività istituzionalmente indirizzata a soddisfare – direttamente o indirettamente – esigenze (generali) della collettività nel miglior modo possibile, in coerenza con i compiti dell’Amministrazione pubblica.

La loro attività, in altri termini, è caratterizzata da un elemento funzionale (soddisfacimento dei bisogni di interesse generale) che non è dato rinvenire nell’attività privata imprenditoriale, anche se indirizzata e coordinata a fini sociali[89].

D’altronde, la configurabilità di una tutela (reale) della stabilità del rapporto, sarebbe coerente con la garanzia di imparzialità e buon andamento dell’attività amministrativa[90]. Imparzialità e buon andamento da garantire, parimenti, sia nell’attività volta all’emanazione dei provvedimenti, sia in quella con cui sorgono o sono gestiti rapporti giuridici disciplinati dal diritto privato anche quando gestisce il proprio personale[91].

A ciò devono aggiungersi le esigenze  di garanzia dell’autonomia della dirigenza[92], nonché la tipicizzazione delle misure sanzionatorie adottabili[93].

In quest’ottica, il giudice del lavoro potrebbe, dunque, sindacare ed accertare l’insussistenza dei presupposti del licenziamento e, considerato che a detto accertamento è collegato anche un diritto alla prosecuzione del rapporto, potrebbe ipotizzarsi l’adozione di una pronuncia – di immediata reintegrazione – funzionale alla natura del diritto accertato e corrispondente alla vera domanda del dirigente ricorrente.

10. Conclusioni problematiche (e non definitive)

Si è naturalmente consapevoli della problematicità delle argomentazioni sopra esposte, giacché oramai la scelta connessa alla riforma del pubblico impiego è – si è visto – quella di attribuire alla p.A. la capacità ed i poteri del privato datore di lavoro. Scelta di privatizzazione totale che dovrebbe avere i suoi effetti anche nel campo della tutela.

Ma proprio la capillare estensione di tale scelta  sembra profilare ipotesi di contrarietà con l’art. 98 Cost., poiché la perdita di autonomia e l’assoggettamento fattuale ai vertici ministeriali, conseguenti anche ad una tutela meramente risarcitoria, potrebbe contrastare con l’essere a servizio esclusivo della Nazione, nonché  essere in contrasto con il principio della differenziazione secondo ragionevolezza[94].

In proposito, quantomeno lungimirante deve considerarsi quella attenta dottrina che, con riguardo alle intuitive differenze tra la posizione del titolare di un ufficio che esercita potestà pubbliche e quella dell’addetto allo stesso ufficio, nonché nell’ambito dei non titolari di funzioni, tra coloro che concorrono alla formazione della volontà e alla realizzazione dell’azione degli enti pubblici e coloro che ne restano estranei, ha proposto una privatizzazione parziale del rapporto con la pubblica Amministrazione, riferita cioè solo a coloro che si trovano in posizione di sostanziale estraneità rispetto all’organizzazione ed ai fini dell’ente[95]

La risposta (forse) definitiva a tali interrogativi è, allo stato, rimessa al concreto uso che il giudice del lavoro pubblico farà degli strumenti di tutela attribuitigli dall’art. 63 d.lgs 165/2001 ed alla sensibilità che sarà capace di mostrare – giudicando le vicende sottoposte al suo esame – nella ricerca del giusto contemperamento tra l’interesse pubblico della collettività ed i poteri datoriali privati e gli interessi del singolo dirigente ad esso collegati.

 


[1]M. RUSCIANO., L’unificazione normativa del lavoro pubblico e del lavoro privato, DLRI, 1989, p. 143; dello stesso Autore vd.anche, L’impiego pubblico in Italia, Bologna, Il Mulino, 1978

[2] Sull’evoluzione storica del pubblico impiego vd. S. CASSESE, L’amministrazione pubblica in Italia, Bologna, Il Mulino, 1974; e La formazione dello stato amministrativo, Milano, Giuffrè, 1976; G. MELIS, Burocrazia e socialismo nell’Italia liberale, Bologna, Il Mulino, 1990; e Due modelli di amministrazione tra liberismo e fascismo: burocrazie tradizionali e nuovi apparati, Roma, Pubblicazioni degli archivi di Stato, 1988; M. SALVATI, Il regime e gli impiegati, Bari, Laterza, 1992. Per la teoria generale del pubblico impiego cfr. A. AMORTH, Contributo alla teoria del rapporto di pubblico impiego, Milano, Giuffrè, 1936; Santi ROMANO, Diritto amministrativo, Padova, Cedam, 1937, pp. 187 ss.; Sullo statuto degli impiegati civili dello Stato vd. BENNATI e DI GIAMBATTISTA, Lo stato giuridico e la carriera degli impiegati civili dello stato, Napoli, 1975. Con riferimento alla dirigenza vd. S. BATTINI, Il personale, in S. CASSESE (a cura di) Trattato di Diritto Amministrativo, Milano 2003; G. GARDINI, L’imparzialità amministrativa tra indirizzo e gestione. Organizzazione e ruolo della dirigenza pubblica nell’amministrazione contemporanea, Milano 2003,

[3]B. IACONO, La tipologia dei rapporti di lavoro, in M. RUSCIANO e L. ZOPPOLI (a cura di), L’impiego pubblico nel diritto del lavoro, Torino, Giappichelli, 1994, p. 149.

[4]M. RUSCIANO, L’unificazione normativa,  cit...

[5] Sulle differenze tra attività politica e attività amministrativa, cfr. G. MARONGIU, L’attività direttiva nella teoria giuridica dell’organizzazione, Padova, 1988; M. R. SPASIANO, L’organizzazione comunale, paradigmi di efficienza pubblica e buona amministrazione, Napoli, 1995 p. 114 ss.; V. FANTI, L’atto politico nel governo degli enti locali, in Diritto e processo amministrativo, n. 2/2008, p. 433 ss..

[6]Un commento sul Dpr 748/72 è offerto da S. TERRANOVA., I dirigenti nell’amministrazione dello Stato, FA, 1973, pp. 230 ss.; invece per il dibattito dottrinale sulla dirigenza prima della riforma del lavoro pubblico cfr. A. D’ALBERTI(a cura di), La dirigenza pubblica, Bologna, Il Mulino, 1990; G. CECORA (a cura di), Tendenze evolutive e proposte di riforma del pubblico impiego, Bologna, Il Mulino, 1992; M. RUSCIANO, Rapporto di lavoro pubblico e privato: verso regole comuni?, LD, 1989, p. 371; C. D’ORTA, Pubblico impiego: quale privatizzazione?, RI, 1991, p. 305

[7] C. D’ORTA, Management e pubblica amministrazione in Italia: gli antefatti, in AA.VV., La riforma del pubblico impiego, Bologna, 1994, p. 63 ss. Sulle motivazioni del fallimento della prima riforma della dirigenza pubblica vd. S. CASSESE, La carriera del burocrate: dirigenza politica ed amministrazione in Italia, in Sociologia del lavoro, 1981, p. 105; M. D’ALBERTI, Per una dirigenza pubblica rinnovata, in M. D’ALBERTI (a cura di), La dirigenza pubblicaI, cit., p. 16.

[8] Si noti che secondo le leggi di riforma Bassanini il perseguimento dello sviluppo economico deve avvenire nel rispetto dei diritti fondamentali. Sul rapporto tra sviluppo economico e diritti fondamentali intesi non solo come limite, bensì quale fattore di conformazione dell’attività economica cfr. L. IANNOTTA, Previsione e realizzazione del risultato nella pubblica Amministrazione: dagli interessi ai beni, in DA n. 1/99 p. 57 ss.

[9]  La dottrina più attenta ha fin da subito avvertito la necessità di distinguere il concetto di risultato amministrativo da quello di risultato in senso strettamente economico, tipico dell’azienda privata, cfr. L. IANNOTTA, Previsione e realizzazione del risultato nella pubblica Amministrazione: dagli interessi ai beni, cit., p. 62 ss;  M.R. SPASIANO, Funzione amministrativa e legalità di risultato, Giappichelli, 2003, p. 102 ss.; vd. anche F.G. SCOCA, Attività amministrativa, voce in Enc. Del Dir. (VI aggiornamento) Milano 2002, p. 100 nota 117 il quale rileva come l’attenzione ai risultati si denota per la prima volta nella disciplina della dirigenza amministrativa (D.P.R. 748/1972) ove in sede di responsabilità dirigenziale, si fa riferimento ai risultati negativi dell’organizzazione del lavoro e dell’attività dell’ufficio (art. 19, 3° comma). L’affermazione piena della rilevanza dei risultati si ha peraltro con le riforme degli anni ’90: sempre in tema di disciplina della dirigenza amministrativa si prevedono procedure di verifica dei risultati conseguiti (art. 20 D.Lgs n. 29 del 1993: v. ora l’art. 20 D.Lgs n. 165 del 2001). Nella legge di riforma delle funzioni di controllo della Corte dei Conti (legge n. 20 del 1994) si stabilisce che la Corte accerta la rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa agli obiettivi stabiliti dalla legge, valutando comparativamente costi, modi, e tempi dello svolgimento dell’azione amministrativa.

[10]C. D’ORTA.-E. DIAMANTI, Il pubblico impiego, in S. CASSESE.–C. FRANCHINI (a cura di), L’amministrazione pubblica italiana, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 45.

[11] Sul termine distinzione in luogo di quello separazione cfr. C. Cost. 15.10.1990 n. 453, in Giur. Cost., 1990, II, p. 2706 ss, con commenti di A. AZZARITI, Brevi note su tecnici, amministrazione e politica, ivi, p. 2713 ss. e di C. PINELLI, Politica e amministrazione: una distinzione per l’ordine convenzionale, ivi, p. 2723 ss. Tale ultimo A. evidenzia il come il fondamento della tesi della Corte Costituzionale trovi conferma nella circostanza che l’attività amministrativa non sia meramente esecutiva dell’indirizzo politico, bensì attuativa di esso e come tale chiamata ad elaborarlo, e svilupparlo, di modo che la contrapposizione tra politica e amministrazione assume valore convenzionale e non ontologico. Sul rapporto tra politica e amministrazione vd. anche F. MERLONI, Amministrazione neutrale e amministrazione imparziale (a proposito dei rapporti tra politica e amministrazione), in DP, 1997 p. 319.

[12] P. DE LISE, in Atti del XLIV Convegno di Studi di scienza dell’Amministrazione.

[13] Sul concorso della dirigenza al policy making, cfr. C. D’ORTA, Commento agli articoli 16 e 17, in A. CORPACI, M. RUSCIANO, L. .ZOPPOLI (Commentario a cura di), La riforma dell’organizzazione dei rapporti di lavoro e del processo nelle amministrazioni pubbliche (D.lgs 3 febbraio 1993 n. 29 e successive modificazioni e integrazioni), in NLCC, 1999, p. 1149. Cfr. anche M. CLARICH, Riflessioni sui rapporti tra politici e amministrazione, in D.A. n. 3-4/2000 p. 361.

[14] L. IANNOTTA, Previsione e realizzazione del risultato, cit.

[15] L. IANNOTTA, Principio di legalità e amministrazione di risultato, in C. PINELLI (a cura di), Amministrazione e legalità, fonti normative e ordinamenti, Giuffrè Editore, 2000, p. 39, il quale, in questa prospettiva di autocontrollo e verifica permanente dell’operato dell’Amministrazione, individua (p. 47 ss) nel rapporto tra amministrazione e legge anche gli strumenti procedurali e processuali attraverso i quali evitare decisioni e risultati ingiusti: esercizio dei poteri cautelari ex art. 7 l. 241/90; disapplicazione della norma ingiusta; esercizio della facoltà di chiedere la modifica di disposizioni palesemente incostituzionali; qualora la norma sia talmente stringente da precludere la possibilità di  altre soluzioni, proposizione di un ricorso per conflitto di attribuzione tra Amministrazione e Parlamento fondato sul sacrificio di un bene concreto in rapporto al quale la p.A. rivendichi la sua riserva di funzione; impugnazione da parte della Amministrazione coartata delle norme – se regolamentari – limitative; proposizione di un’azione di accertamento in funzione anticipatoria. È interessante, inoltre notare, come l’ A. precisi (p. 49) che tutte le iniziative ipotizzate come attivabili in sede procedimentale lo sono ancor di più in sede processuale. Interpretazione adeguatrice, disapplicazione, inapplicazione, ma anche sindacato sul mancato doveroso esercizio del potere di modifica normativa sono tutte realtà alle il giudice amministrativo può accedere (p. 50), aprendo – in questa prospettiva – la strada anche al sindacato sulla funzione politica. Sindacato che però richiede – in sede procedimentale – il coraggio della dirigenza ed – in sede processuale – quello del giudice.    

[16] È quasi superfluo aggiungere che tale possibilità/doverosità necessita – specularmente – della possibilità/doverosità di una tutela giurisdizionale per il dirigente che si “sottrae” al comando politico ingiusto, subendone le (parimenti) ingiuste ripercussioni. Sul sindacato della funzione politica vd. nota precedente

[17] La vicenda esposta sub C) è già riportata in L. IANNOTTA, Previsione e realizzazione del risultato, cit. p. 77, ed in L. IANNOTTA, L’uomo nel diritto, in Studi in onore di Feliciano Benvenuti, Mucchi Editore, 1996, p. 1758-1759. Per la vicenda riportata sub A) sia consentito rinviare a S. TIRELLI, Diritto al ricongiungimento dei genitori con i figli, appendice a L. IANNOTTA, Principio di legalità e amministrazione di risultato, cit. p. 57 ss.

[18] Sulla crisi della legge a predefinire l’interesse pubblico da perseguire vd. G. BERTI, Dalla unilateralità alla consensualità nell’azione amministrativa, p. 32: la legislazione di oggi è una serie farraginosa di proposte normative e non dunque di norme finite. Le leggi contengono frammenti di normatività … Non si saprebbe neppure come giustificare oggi quella linea normativa della legalità, secondo la quale, il comando legislativo, in quanto rivolto all’amministrazione, avrebbe una valenza diversa, anzi positiva, a differenza della valenza puramente negativa delle legge in quanto rivolta a regolare rapporti interpretativi; … solo attraverso il perdurare di formule giudiziarie amministrative, usate per comodo di giudizio, che si ha l’impressione di persistere di una legalità positiva o di fini, la quale aveva senso inverso in confronto a leggi di contenuto generale, una organizzazione amministrativa a impronta soggettivistica, e agli atti amministrativi come contenenti una volontà imperativa.  

[19] Cfr. M.R. SPASIANO, L’organizzazione comunale, paradigmi di efficienza pubblica e buona amministrazione, Napoli, 1995,  p. 150-152.

[20] T. MIELE, Commento all’art. 21, in AA.VV., L’impiego pubblico, Milano, Giuffrè Editore, 2003, p. 435.

[21] T. MIELE, cit..

[22] Quali: la natura e le caratteristiche dei programmi da realizzare; le attitudini e le capacità professionali del singolo dirigente, anche in relazione ai risultati conseguiti in precedenza; il criterio della rotazione degli incarichi che di norma deve essere applicato; la necessità di attingere essenzialmente al personale interno; l’apertura al personale  esterno, il quale, comunque, deve possedere una particolare e comprovata qualificazione professionale, un’esperienza pregressa di incarichi dirigenziali almeno quinquennale o una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica obiettivamente desumibile (cfr. art. 19 d.lgs 165/2001, nel testo previgente alle modifiche introdotte dalla legge n. 145/2002). Cfr. anche  F. FIGORILLI, Giurisdizione piena del giudice ordinario e attività della pubblica amministrazione, cit..

[23] Cfr. Trib. Catania, ordinanza 9.5.2000; Trib. Potenza, ordinanza 29.12.1999; Cass. Civ. SS.UU., 15 dicembre 2000 n. 1267; Tribunale Santa Maria Capua Vetere, 10 ottobre 2000, in Giust. civ., 2001, I, 2525; Tribunale di Roma, 19 febbraio 2002, in Giust. civ., 2002, 230 e Tribunale di Lucca, 6 febbraio 2001, in Giust. civ., ibidem, 231, nelle quali si sostiene che: la posizione di dirigente non è più uno status permanente e riservato ai soggetti avvinti da un rapporto organico con la P.A., ma si atteggia a situazione funzionale legata al conferimento, sia a soggetti interni che a soggetti esterni, di un incarico temporaneo in una logica squisitamente fiduciaria; nel senso di un diritto soggettivo del dirigente al conferimento dell’incarico Trib. Grosseto 29.1.2002 n. 31; Trib. Bologna 23.4.2001.

[24] Le espressioni in corsivo sono di S. CASSESE, La controriforma della burocrazia, in Il Sole-24 Ore, 21 febbraio 1999, p. 1. Vd. anche S. BATTINI, Il personale, in S. CASSESE (a cura di), Trattato di Diritto Amministrativo, parte generale, Milano, Giuffrè Editore, 2000, p. 481; M. CLARICH, Riflessioni sui rapporti tra politici e amministrazione, cit..

[25] Cfr. S. CASSESE, Il nuovo regime dei dirigenti pubblici italiani: una modificazione costituzionale, in Giornale di Diritto Amministrativo n. 12/2002, p. 1341 ss..

[26] In particolare l’art. 8 del d.p.r. n. 150/99 e l’art. 3, comma 7, della legge 145/2002

[27] Cfr. art. 8 d.P.R. 29.2.1999 n. 150.

[28] Al riguardo però TAR Lazio, II ter, 8.4.2003 n. 3276, in Giustizia Amministrativa n. 2/2003, p. 549, per il quale occorre evitare di utilizzare il termine spoils system, sia perché negli atti pubblici deve essere adoperata la lingua italiana, sia perché tale istituto di origine statunitense non trova corrispondenza nel nostro ordinamento ed in ogni caso troverebbe ostacolo nei principi costituzionali che reggono l’organizzazione della pubblica Amministrazione. Nota il TAR Lazio infatti che la burocrazia, per definizione costituzionale, ha caratteri di professionalità (agli uffici pubblici non solo quelli iniziali si accede in base al merito), esclusività (i pubblici dipendenti sono all’esclusivo servizio della Nazione), produttività nel pubblico interesse, imparzialità, legalità, indipendenza.

[29] C. Cost. sentenze n 124 del 2011, nn. 224 e 34 del 2010, nn. 390 e 351 del 2008, nn. 104 e 103 del 2007).

[30] C. Cost. sentenza n. 233 del 2006.

[31] C. Cost. n. 304 del 2010. Sullo spoils system come corretto dalla Corte Costituzionale cfr. D. MONE, La dirigenza pubblica nell’ordinamento italiano attraverso il difficile rapporto tra politica e amministrazione, in Diritto e Processo Amministrativo n. 2/2011, p. 579 ss, a cui si rinvia per ulteriori approfondimenti, in particolar modo con riferimento alla problematica relativa all’indeterminatezza della distinzione fra dirigenti fiduciari e dirigenti tecnici che caratterizza la legislazione nonché la stessa giurisprudenza costituzionale; F. MERLONI, Lo spoils system è inapplicabile alla dirigenza professionale: dalla Corte nuovi passi nella giusta direzione, Commento alle sentenze n. 103 e 104 del 2007, in Le Regioni n. 5/2007; F, LOGIUDICE, G. NERI, La dirigenza pubblica: lo spoils system dalla giurisprudenza costituzionale alla recente manovra d’estate, in www.altalex.com 20.10.2010.

[32] M. R. SPASIANO, Organizzazione e risultato amministrativo, intervento al Convegno Principio di legalità e Amministrazione per risultati, Palermo 27-28 febbraio 2003, il quale, d’altro canto, sottolinea come un’organizzazione amministrativa orientata al risultato presupponga una dirigenza amministrativa fortemente responsabilizzata, non sottoposta a incontrollabili condizionamenti politici ed avverte come, oramai, l’unica, reale forma di verifica dell’operato della alta dirigenza consista nel riscontro, da arte degli organi politici, del persistere della corrispondenza della fiducia accordata all’atto di nomina. In un quadro quindi che peraltro colloca persino gli organismi preposti alla valutazione dei dirigenti in una posizione del tutto priva di effettiva portata,  risultando anch’essi di nomina degli stessi organi politici.

[33]Sotto questo profilo è di intuitiva evidenza la volontà del legislatore di ritornare verso schemi pubblicistici  (tendenzialmente) rivolti a reintrodurre nell’area pura del diritto amministrativo  e nel binomio autorità-discrezionalità gli atti di nomina dei dirigenti (almeno quelli di livello più elevato), secondo un disegno che però pare tradire lo spirito della riforma del decreto legislativo n. 29 (e sue successive modificazioni) tesa ad una progressiva attrazione del pubblico impiego nella disciplina del diritto comune. Ritorno verso schemi pubblicistici che dovrebbe interessare non solo gli atti di conferimento degli incarichi dirigenziali, ma – per il principio del contrarius actus – anche gli atti di revoca per responsabilità dirigenziale, non sottoposta infatti alla regole della contrattazione collettiva, creando in tal guisa una sorta di schizofrenia del c.d. potere sanzionatorio, il quale sembra avere le caratteristiche e le prerogative della pubblicità nel caso di revoca, mentre risulta contrattualmente definito – e dunque privatizzato – nelle ipotesi più gravi di recesso dal rapporto. Con conseguenze differenti non solo nel momento della sua manifestazione (che a seconda dei casi avrà natura provvedimentale o paritaria) ma anche per quanto attiene ai parametri di sindacato del suo esercizio. E ciò sebbene anche al potere di revoca dell’incarico debba riconoscersi una indubbia valenza e natura datoriale ed in quanto influente sul rapporto dovrebbe avere la stessa natura (privatistica) degli altri atti di cui all’art. 5 d.lgs n. 165/2001.

[34] S. CASSESE, Il nuovo regime dei dirigenti pubblici italiani: una modificazione costituzionale, cit..

[35] L. TORCHIA, La responsabilità dirigenziale, in Giornale di Diritto Amministrativo, n. 9/1995, p. 943.   

[36]Le parti in corsivo sono tratte da Cons. Stato, IV, 24.5.1983 n. 330 in CS, I, 1983 p. 497. Sulla distinzione tra responsabilità gestionale e amministrativa vd. anche Corte dei Conti, sez. giur. per il Piemonte,  13 aprile 2000, n. 1192/EL/2000, con nota di L. OLIVIERI, Il potere di direttiva dell’organo politico nei confronti dei dirigenti – contenuti dell’attività direttiva e confini con quella gestionale, in www.diritto.it., secondo il quale: La sentenza con chiara argomentazione giuridica contribuisce a sgomberare il campo dell’indagine da un equivoco di fondo: la responsabilità gestionale, ed in particolare quella che incombe sui dirigenti, è cosa diversa dalla responsabilità amministrativa. Quest’ultima scatta e si verifica in presenza degli elementi psicologici del dolo e della colpa grave, qualora si accompagnino ad un’azione causativa dell’effetto di un danno all’erario, derivante dalla violazione di regole di condotta amministrativa ed in particolare dalla violazione delle norme sostanziali e procedimentali poste a guida dell’attività gestionale. Estremamente efficace è il passaggio della sentenza, ove si sottolinea che “il dirigente deve, dunque, essere in grado di saper utilizzare le risorse umane, finanziarie e strumentali nel rispetto delle regole cui è improntata l’azione della p.a., dove certamente il momento dell’efficienza non deve essere dissociato da quello della legalità/garanzia (criterio quest’ultimo posto a tutela della collettività amministrata). Secondo S. BATTINI, Il personale, cit., pp. 548-549, in base al principio della responsabilità dirigenziale, il dirigente non incorre in responsabilità per propri comportamenti e decisioni, adottati in violazione di norme giuridiche, ma per i risultati complessivi dell’attività della struttura cui è preposto, nel caso in cui essi siano negativi sul piano del rapporto costi-rendimenti (efficienza), oppure non rappresentino la realizzazione degli obiettivi prefissati (efficacia): si tratta, dunque, di una responsabilità per inidoneità alla funzione (e non per colpa) e per fatto altrui, o, meglio, per un risultato determinato anche da comportamenti di altri soggetti. A. Patroni Griffi, Politica e amministrazione nella funzione di governo in Italia, Francia e Regno Unito, London, 1999, pp. 104-  107 sototlinea la necessità di tale forma di responsabilità in un sistema caratterizzato da un rapporto di separazione fra politica ed amministrazione al fine di garantire l’omogeneità tra indirizzo e gestione. 

[37] A. M. SANDULLI, Manuale di Diritto Amministrativo, 1984.

[38] La modernità di tali affermazioni risulta  evidente se si considera che lo stesso Consiglio di Stato, nel parere reso dall’Adunanza Generale il 31 agosto 1992, in relazione al disegno di legge della delega n. 421/92 (pubblicato in FI, 1993, III, p. 4 e ss, con nota di G. ALBANESE) escludeva la possibilità e la convenienza di adottare, sia pure parzialmente, la disciplina privatistici del lavoro, la quale attiene solamente a rapporti di dare e avere, di fare e di dare, di dirigere con efficienza e di eseguire con esattezza, nell’ambito di un’attività imprenditoriale guidata dalle regole del mercato. Sulla responsabilità dirigenziale cfr. anche Cons. Stato, VI, 14.11.1988 n. 1236; C. Conti Piemonte, sez. giurisd, 13.4.2000, n. 1192, in Riv. Corte Conti 2000, f  5, p. 98

[39] M. U. FRANCESE, La responsabilità dirigenziale dei dirigenti della P.A. nel d.lgs 3 febbraio 1993 n. 29, FA, 1994, p. 2623. Circa il dovere della dirigenza di perseguire i risultati attesi è appena il caso di notare che spesso la nostra dirigenza risulta ancora poco formata ed influenzata da una cultura di risultato e poco incline ad agire per programmi e direttive e molto più tesa, per tradizione, al mero rispetto del dato normativo e procedurale. Il che porta ovviamente il discorso sulla necessaria formazione di una dirigenza di alta qualità ì, capace – come nel modello francese – di passare indifferentemente dal pubblico al privato e viceversa. Non sembra offrire una soluzione in questo senso la l. 145/2002 che pure prevede un mercato della dirigenza pubblica e privata. Interessante – anche per la sua garanzia di qualità rispetto al modello di spoils system che si va delineando nel nostro ordinamento – è il suggerimento di M.R. SPASIANO che sulla falsa riga del Civil service britannico propone la previa individuazione di dirigenti dotati di comprovata professionalità, da inserirsi in appositi elenchi dai quali poi  scegliere i nominativi più graditi

[40] L. IANNOTTA, Previsione e realizzazione del risultato nella pubblica Amministrazione: dagli interessi ai beni, in DA n. 1/1999, p. 57 ss. dello stesso autore vd anche Scienza e realtà: l’oggetto della scienza del diritto amministrativo tra essere e divenire, in DA n. 4/1996, p. 579 ss.; La considerazione del risultato nel processo amministrativo: dall’interesse legittimo al buon diritto, in DPA n. 2/1998 p. 327 ss.; Principio di legalità e amministrazione di risultato, in C. PINELLI (a cura di), Amministrazione e legalità, Giuffrè Editore, 2000, p. 37 ss.

[41] Sul rapporto tra legalità e risultato oltre ai citati lavori di L. IANNOTTA, cfr. anche il contributo di M.R. SPASIANO, Funzione amministrativa e legalità di risultato, cit, tendente ad inglobare la previsione di risultato nel principio di legalità.

[42] L. TORCHIA, La responsabilità dirigenziale, cit., p. 945; Cfr. anche Cons. Stato, IV, 6.4.1993 n. 393, cit.. Sulla responsabilità dirigenziale vd. anche F.G. SCOCA, Il rapporto di lavoro con le Amministrazioni pubbliche, in AA.VV., Diritto Amministrativo, Bologna, Monduzzi Editore, 1998 p. 832 ss.

[43]M. U. FRANCESE, La responsabilità dirigenziale dei dirigenti della P.A. nel d.lgs 3 febbraio 1993 n. 29, FA, 1994,, p. 2627 e p. 2629.

[44] Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.

[45] G. FALCON, Riforma della pubblica amministrazione e responsabilità della dirigenza, in Regioni, 1998 p. 1203, secondo il quale la responsabilità dirigenziale avrebbe carattere eventuale e speciale, essendo fatta valere la vera responsabilità alla scadenza dell’incarico.

[46] Sull’applicabilità del giusto procedimento e della garanzie procedimentali al lavoro pubblico in caso di revoca dell’incarico dirigenziale cfr. S. GLINIANSKI, Riforma Brunetta: il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali tra fiduciarietà del rapporto e il rispetto di un giusto procedimento negoziale, in www.lexitalia.it/p/10/glinianski_incarichi.htm. Favorevole all’estensione delle regole garantiste ex l. 241/1990 anche agli atti di conferimento e revoca degli incarichi dirigenziali sono altresì T.A.R. Campania, Napoli, 27.5.2005 n. 7184; T.A.R. Liguria 18.1.2003 n. 76; T.A.R. Puglia, Lecce, 14.12.2001 n. 7900. Secondo codesta giurisprudenza la comunicazione dell’avvio del procedimento favorisce l’instaurarsi di una dialettica tra le parti della relazione lavorativa il cui effetto è un giusto contemperamento tra l’interesse personale di chi intende evitare una modificazione peggiorativa del proprio status personale e l’interesse pubblico della stessa organizzazione ad una più completa e adeguata rappresentazione di tutti gli elementi da valutare per una corretta allocazione del personale dirigenziale disponibile (così S. GLINIANSKI, Riforma Brunetta: il conferimento e la revoca … cit.). In senso contrario cfr. C. Cass, sez. lav. 14.4.2008 n. 9814, per la quale gli atti di conferimento o di revoca dell’incarico dirigenziale non sono ascrivibili tra gli atti amministrativi , ma hanno natura negoziale, con loro sottrazione quindi alle regole del procedimento e connessa applicazione delle norme del codice civile, tra cui gli artt. 1175 e 1375. Ritengono applicabili gli articoli del cod. civ. appena citati, alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento ex art. 97 cost., anche C. Cass., sez. lav. 30.9.2009 n. 20979 e C. Cass, VI civ., 12.10.2010 n. 21088.

[47]M. R. SPASIANO, Riflessioni sparse in ordine alla nomina ed alla risoluzione del contratto dei direttori generali delle aziende sanitarie locali, in Riv. Amm. Regione Campania n. 2/1996, p. 132 e 133; Circa il rapporto tra politica e dirigenza, dello stesso autore vd. anche L’organizzazione comunale. Paradigmi di efficienza e buona amministrazione, Napoli, 1995, p. 97 ss.; vd. anche F. FIGORILLI, Giurisdizione piena del giudice ordinario e attività della pubblica amministrazione, Torino, Giappichelli Editore, 2001, p. 204. A parere di C. VIDETTA, Impiego pubblico (voce), in Dig. Disc. Pubbl. (Aggiornamento), 2000, p. 336,  il rapporto di fiducia che lega la dirigenza al Governo è in contraddizione con un contesto normativo … che mira a valorizzare la distinzione tra momento politico e momento di gestione. Contra O. FORLENZA, Pronte le regole per la dirigenza statale: l’amministrazione cerca la via che porta in Europa, in Guida al Diritto, 1998 n. 16, p. 86: Ove ciò non fosse si avrebbe un ministro politicamente responsabile dei risultati … della gestione, ma impossibilitato a scegliersi ex ante i dirigenti più idonei a realizzare il programma da egli stesso delineato.

[48] Cfr. TAR Lazio, II ter, 8.4.2003 n. 3276, in Giustizia Amministrativa n. 2/2003 p. 549 ss, che sebbene riferita ai casi di spoils system ex art. 6 l. 145/2002 (possibilità per il primo Governo di una nuova legislatura di confermare o revocare le nomine degli organi di vertice conferite dal Governo precedente nei sei mesi antecedenti la scadenza naturale della legislatura) esprime considerazioni aventi carattere senz’altro generale. . In questa prospettiva vd. anche C. Cost. 5.3.2010 n. 81 (in http://www.lexitalia.i/p/10/ccost_2010-03-05-1.htm), che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 161, d.l. 3.10.2006 n. 262 (conv. In l. 24.11.2006 n. 286) nella parte in cui dispone che gli incarichi dirigenziali a personale non appartenenti ai ruoli della p.A. cessano ove non confermati entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto. Secondo la Corte la previsione di una cessazione automatica ex lege e generalizzata degli incarichi dirigenziali interni a livello generale viola, in carenza di idonee garanzie procedimentali, i principi costituzionali di buon andamento ed imparzialità e, in particolare, il principio di continuità dell’azione amministrativa che è strettamente correlato a quello di buon andamento dell’azione stessa; questi principi valgono anche in presenza di incarichi dirigenziali conferiti al personale non appartenente ai ruoli di cui all’art. 23 d.lgs n. 165/2001. In tali casi, infatti,  la mancanza di un previo rapporto di servizio con l’amministrazione conferente non è idonea ad incidere sulle regole di distinzione tra attività di indirizzo politico-amministrativo e compiti gestori dei dirigenti e conseguentemente sull’applicabilità dei principi costituzionali sopra richiamati. 

 

[49] Le parti in corsivo sono tratte da Cons. Stato, IV, 6.4.1993 n. 393, in CS 1993, I, p. 486 ss; in termini cfr. anche Cons. Stato, IV, 5.2.1999, n. 120, in FA, 1999 p. 318. In dottrina vd anche L. TORCHIA, La responsabilità dirigenziale, cit., p. 945.

[50] Cfr. ancora TAR Lazio, II ter, 8.4.2003 n. 3276 cit. Pone l’accento sull’imparzialità anche  C. Cost. 23.3.2007 n. 103 in Lexitalia.it, p. http://www.lexitalia.it/p/71/ccost_2007-03-23.htm secondo la quale la contrattualizzazione del rapporto di lavoro della dirigenza pubblica non implica che la p.A. abbia la possibilità di recedere liberamente dal rapporto stesso. Se così fosse si verrebbe ad instaurare uno stretto legame fiduciario tra le parti, che non consentirebbe ai dirigenti generali di svolgere in modo autonomo ed imparziale la propria attività gestoria.

[51] Ancora TAR Lazio, II ter cit. e vedi la riforma del 2009 che ha sancito la conoscibilità dei criteri di scelta del dirigente, correlati all’obiettivo da perseguire (cfr. art. 19, commi 1 e 1bis, d.lgs n. 165/2001 come modificato dal d.lgs n. 159/2009).

[52] È da segnalare che anche prima della riforma del 2009 la giurisprudenza ordinaria – facendo leva sui principi di buona fede e correttezza, quali esplicazione di quelli di buon andamento ed imparzialità ex art. 97 Cost., ha ritenuto che detti principi obbligano la p.A. a valutazioni comparative, all’adozione di adeguate forme di partecipazione ai processi decisionali e ad esternare le ragioni giustificatrici delle scelte; laddove pertanto l’Amministrazione non abbia fornito nessun elemento circa i criteri e le motivazioni seguiti nella selezione dei dirigenti ritenuti maggiormente idonei agli incarichi da conferire, è configurabile inadempimento contrattuale suscettibile di produrre danno risarcibile (così Cass. civ., VI, 12.10.2010 n. 21088). Secondo la giurisprudenza, tuttavia, la predeterminazione dei criteri non comporta un automatismo nella scelta, che resta rimessa alla discrezionalità del datore di lavoro … al quale non può sostituirsi il giudice, salvo che si tratti di attività e non discrezionale (così Cass. civ., sez. lav., 30.9.2009 n. 20979).

[53] In Lexitalia.it, p. http://www.lexitalia.it/p/92/tramolise_2009-09-02o.htm, con commento di K. PALLADINO, Direttori generali Asl e politica.

[54] Il corsivo è tratto dall’ordinanza in commento.

[55]Sul rapporto tra risultato e sindacato giurisdizionale sia consentito rinviare a S. TIRELLI, Risultato e spazio libero dell’Amministrazione, in Diritto & Diritti www.diritto.it; 2011, in cui è già riportata, peraltro, la vicenda decisa dasl TA.R. Molise

[56] Tuttavia cfr. ancora TAR Lazio II ter, 8.4.2003 n. 3276 che da una lettura fisiologica della legge 145/2002, individuando la sua finalità proprio nell’esigenza di garantire la continuità dell’azione amministrativa rispetto agli obiettivi fissati in sede politica. Continuità che deve essere maggiormente assicurata a seguito della normale alternanza tra i vari esecutivi espressione di diverse appartenenze politiche conseguente al nostro sistema politico tendente al bipolarismo.

[57] Cons. Stato, IV, 24.5.1983 n. 330, cit..  Per la validità di tale giurisprudenza anche per la responsabilità dirigenziale ex d.lgs 29/93 vd. M. U. FRANCESE, La responsabilità dirigenziale dei dirigenti della P.A. nel d.lgs 3 febbraio 1993 n. 29, cit., p. 2625.

[58] Cfr. TAR, Lazio, II, 18.9.1997, n. 1435, in TAR; I,  1997 p. 3501,; 19.9.1997 n. 1436.

[59] Sui principi di imparzialità e buon andamento vd. U. ALLEGRETTI, Imparzialità e buon andamento, in Dig. Disc. Pubbl, VIII, Utet, Torino, 1993, pubblicato anche in Amministrazione pubblica e Costituzione, Cedam, 1996, p. 79 e ss. Per una concezione dei principi di buon andamento e d’imparzialità quali parametri di giudizio dell’azione amministrativa al servizio della persona cfr. R. MARRAMA, I principi regolatori della funzione di organizzazione pubblica, in AA.VV., Diritto amministrativo, cit., p. 407 e ss., in particolare pp. 411-414; sui legami tra i due principi citati e la tutela delle situazioni soggettive vd. L. IANNOTTA., Motivi di ricorso e tipologia degli interessi nel processo amministrativo, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1989, p. 271 ss.

[60]U. ALLEGRETTI, Amministrazione e Costituzione, in  Amministrazione pubblica e Costituzione, cit., p. 11: I compiti dello stato sono felicemente espressi dalla Costituzione, nella maniera più diretta, esplicita e consapevole, attraverso le formulazioni … degli art. 2 e 3. consistono, tutti insieme, nel riconoscimento, garanzia e perfezionamento dei diritti dell’uomo, della dignità e dello sviluppo della persona, considerata singolarmente e nei gruppi in cui si organizza. Dunque questo è anche il grande compito cui partecipa l’amministrazione: servire gli uomini.

[61]Cfr. G. MORBIDELLI, Il procedimento amministrativo, in AA.VV., Diritto Amministrativo II, cit., p. 1212 e ss., in particolare nota 6. Sul principio di mitezza come costante del diritto amministrativo cfr anche R. FERRARA, Introduzione al diritto amministrativo, Bari, Laterza, 2002.

[62] Cfr. A. SANDULLI, La proporzionalità dell’azione amministrativa, Padova, Cedam, 1998, p. 231 e 232; F. PANARIELLO, L. GIUGLIANO e V. AMIRANTE, Commento all’art. 68, in A. CORPACI, M. RUSCIANO, L. ZOPPOLI (Commentario a cura di), La riforma dell’organizzazione dei rapporti di lavoro e del processo nelle amministrazioni pubbliche, cit., p. 1450. In giurisprudenza vd. Cass., SS.UU., 24.2.2001 n. 41, , in Gior. di Dir. Amm. N. 8/2001 con commento di D. IARIA, La Cassazione e gli interessi legittimi nel rapporto di lavoro pubblico, p. 805 ss.. Secondo la Cassazione, una volta fondato il rapporto di lavoro su base paritetica, ad esso rimane estranea ogni connotazione autoritativa discrezionale, pertanto quand’anche la lesione lamentata dal prestatore di lavoro derivi dall’esercizio di poteri discrezionali dell’amministrazione datrice di lavoro, la situazione soggettiva lesa dovrà classificarsi …come interesse legittimo di diritto privato, da riportare, quanto alla tutela giudiziaria, all’ampia categoria dei diritti di cui all’art. 2907 cod. civ. Sulla compatibilità dell’interesse legittimo con i principi del diritto privato è nota oramai Cass., SS.UU., 2.11.1979 n. 5688, in Giust. civ., 1980, I, p. 357 con nota di F. PIGA ed ampiamente commentata anche con riferimento alla giurisprudenza successiva da L. IANNOTTA, Atti non autoritativi ed interessi legittimi, Napoli, 1984, p. 75 ss..

[63] Cfr. Tribunale Milano, Sez. Lavoro, ord. 11.4.2000; Tribunale La Spezia, Sez. Lav., ord. 26.4.1999; Trib. Isernia, ord. 20.1.1999; Pret. Venezia, ord. 21.4.1999; Pretura Napoli, ord. 24.3.1999; Pretura Napoli, ord. 11.12.1998. La giurisprudenza citata, tuttavia, avverte che residuando limitate manifestazioni di potere autoritativo non può dirsi del tutto eliminata la dicotomia diritto soggettivo-interesse legittimo. Vd. però Cass. ult. cit.. In dottrina vd. F. FIGORILLI, Giurisdizione piena del giudice ordinario e attività della pubblica amministrazione, cit.; C. ZOLI, Subordinazione e poteri del datore di lavoro privato e pubblico a confronto, in Dir. Pubbl. 1997, p. 406; M. CLARICH, La nuova disciplina del lavoro nelle amministrazioni pubbliche, in L. VANDELLI, C: BOTTARI, O. ZANASI (a cura di), Organizzazione amministrativa e pubblico impiego, Rimini, 1995, p. 22.

[64] Vd. nota n. 33

[65] Sulla natura pubblica o privata degli atti di conferimento di incarichi dirigenziali cfr. per la loro accezione pubblicistica  M. CLARICH e D. IARIA, La riforma del pubblico impiego, Rimini, 1999; L. TORCHIA, La responsabilità dirigenziale, cit.; è per la tesi privatistica P. SORDI, I confini della giurisdizione ordinaria nelle controversie di pubblico impiego, in Arg. Dir. Lav. 1999, p. 179,  esprimono perplessità sull’inserimento nell’area pubblicistica V. TESONE e E.A. APICELLA, Corte di Cassazione e Consiglio di Stato in contrasto sulla natura pattizia o contrattuale delle determinazioni datoriali nel rapporto di impiego privatizzato, in FA, 1999 p. 2167; Sul ritorno al provvedimento per il conferimento di incarichi dirigenziali e sulle posizioni della giurisprudenza e della dottrina in proposito cfr. D. MONE, La dirigenza pubblica nell’ordinamento italiano attraverso il difficile rapporto tra politica e amministrazione, cit. p. 567, nota 86, in giurisprudenza vd.  TAR Puglia, Lecce, I, 6.2.1999 n. 271, in TAR, I, 1999 p. 1539 e Trib Udine ordinanza 28.8.2000 in www.giust.it ; Cass. S.U. 11.6.2001 n. 7859, in www.giust.it n. 7-8/2001 con nota di L. OLIVIERI, per la quale gli atti di conferimento degli incarichi sono atti di gestione del personale rispondenti nel lavoro pubblico, come nel lavoro privato, ad uno schema normativamente unificato che non è quello del potere pubblico ma quello dei poteri privati.; in tal senso cfr. anche Cass, SS.UU. n. 10288/2003. Sulla necessità di non porre in essere nette distinzioni e sulla natura mista del pubblico impiego per la concorrenza di fonti pubbliche e private vd. però Cass, S.U, ordinanza 6.2.2003 n. 1807 in Giustizia Amministrativa n. 2/2003 p. 537 ss..in tal senso vd anche Corte Cost. 27.3.2003 n. 89, ibidem, p. 542 ss.   

[66] Corte Cost. 25.7.1996 n. 313, Cons. Stato, II, 1996 p. 1298 ss, pubblicata anche in Giur. cost., 1996, p. 2584, con nota di C..PINELLI, Imparzialità, buon andamento e disciplina differenziata del rapporto di lavoro dirigenziale.

[67] S. BATTINI, Il personale, cit., p. 482, ritiene la c.d. separazione fra politica e amministrazione regola di distribuzione interna delle funzioni attribuite ad amministrazioni pubbliche. Cfr. anche M. CLARICH, Riflessioni sui rapporti tra politici e amministrazione, cit., che in luogo di separazione preferisce il termine distinzione.

[68] Cfr. O. FORLENZA, Pronte le regole per la dirigenza statale: l’amministrazione cerca la via che porta in Europa, in Guida al Diritto, 1998 n. 16, p. 86: Ove ciò non fosse si avrebbe un ministro politicamente responsabile dei risultati … della gestione, ma impossibilitato a scegliersi ex ante i dirigenti più idonei a realizzare il programma da egli stesso delineato;  M. CLARICH, Riflessioni sui rapporti tra politici e amministrazione, cit., p. 371.  

[69] Sul rapporto tra vertici ministeriali e dirigenza vd. C. D’ORTA, La sopraordinazione dei ministri secondo il d.lgs 3 febbraio 1993 n. 29. Poteri di avocazione, annullamento e decisione dei ricorsi gerarchici sugli atti dei dirigenti, in FA, 1994, p. 1329 e ss..

[70] Cfr. S. CASSESE, La controriforma della burocrazia, in Il Sole-24 Ore, 21 febbraio 1999, p. 1, che ritiene l’intero sistema caratterizzato dalla precarizzazione della dirigenza e dalla politicizzazione dei suoi vertici.

[71] L. RINALDI, Autonomia, poteri e responsabilità del dirigente pubblico: un confronto con il manager privato, Torino, Giappichelli Editore, 2002, p. 117.

[72] Corte Cost. 25.7.1996 n. 313, cit; vd. anche C. Cost. ord. 30.1.2002 n. 11, in GDA n. 4/2002 p. 377 ss. con commento di A. ZUCCARO, La privatizzazione del rapporto dei dirigenti generali davanti alla Corte Costituzionale. Per una lettura in termini di incostituzionalità delle norme introdotte dalla legge Frattini v.d. S. CASSESE, Il nuovo regime dei dirigenti pubblici, cit.. Sull’autonomia costituzionale della dirigenza vd. PASTORI, La pubblica amministrazione, in G. AMATO e A. BARBERA (a cura di), Manuale di Diritto Pubblico, p. 533, CARIOLA, La nozione costituzionale di pubblico impiego, Milano, 1991, p. 28 e 59 ss. Secondo tale A. nell’art. 97 Cost. è ricompresa la distinzione dell’amministrazione dalla politica, oltrechè la condanna di quelle pratiche degenerative che importano la strumentalizzazione delle cariche pubbliche a fini politici o personali.

[73] C. Cost. ord. 30.1.2002 n. 11, cit.; cfr. anche C. Cost. 5-23 luglio 2001 n. 275, in G.U. 1.8.2001 n. 30, IV serie speciale, p. 19 ss.

[74] C.Cost. 9-16.5.2002 n. 193, Pubblicata in G.U. 22.5.2002 n. 20, I° Serie speciale, p. 13 e ss. , su Guida al Diritto del 10 agosto 2002 n. 31, p. 98 e ss, con nota di O. FORLENZA, Prima di disporre la rimozione dall’impiego devono essere applicate misure alternative, ivi, p. 101 e ss. e su Gior. Dir. Amm. n. 9/2002 con commento di G.GARDINI, L’attività dirigenziale tra responsabilità e stabilità, p. 939 e ss.. Cfr. anche C. Cost. 5-23 luglio 2001 n. 275, cit..

[75] A. SANDULLI, La proporzionalità dell’azione amministrativa, cit., parla, anche se con esclusivo riferimento alle sanzioni disciplinari di controllo tipicamente contrattualistico.

[76] L. IANNOTTA, Atti non autoritativi ed interessi legittimi, cit., p. 79. Sul tema degli atti non autoritativi dopo la riforma del 2005 dello stesso A. vd. L’adozione degli  atti non autoritativi secondo il diritto privato, in Riv. Trim. di Diritto Amministrativo 2006, p. 353 ss..

[77] Sul sindacato dei poteri datoriali privati della pubblica amministrazione secondo correttezza e buona fede cfr. Trib. Belluno, ordinanza 22 maggio 2002, in www.giust.it n. 5/2002.; Trib. Benevento, ordinanza 28 agosto 2000, in www.giust.it. n. 7-8/2000; Trib. S. Angelo di Lombardi, sentenza 10 maggio 2001 n. 342, in www.giust.it. n. 5/2001; Cons. Stato, IV, 19.4.1999 n. 601, in Cons. Stato 1999, I, p. 584., cfr. anche la giurisprudenza 2008, 2009 e 2010 della Cassazione e quella di merito in precedenza citata. Sul recesso per giusta causa cfr. anche Cass. civ., sez. lav., 19.6.2007 n. 14186 secondo la quale la giusta causa ex se fa venir meno l’indefettibile vincolo fiduciario che caratterizza il rapporto di lavoro in genere ed in special modo quello dirigenziale.

[78] Cfr. G. GARDINI, L’attività dirigenziale tra responsabilità e stabilità, cit. p. 944.

[79] L. IANNOTTA, Previsione e realizzazione del risultato nella pubblica Amministrazione, cit. p. 101.

[80] L. RINALDI, Autonomia, poteri e responsabilità del dirigente pubblico: un confronto con il manager privato,cit., p. 226.

[81] F. PANARIELLO, L. GIUGLIANO, V. AMIRANTE, Commento all’art. 68, in A. CORPACI, M. RUSCIANO, L. .ZOPPOLI (Commentario a cura di), La riforma dell’organizzazione dei rapporti di lavoro e del processo nelle amministrazioni pubbliche, cit., p. 1450.

[82] B. SASSANI, Il passaggio alla giurisdizione ordinaria del contenzioso sul pubblico impiego, in PERONE e SASSANI (a cura di), Processo del lavoro e rapporto alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, Padova, 1999, p. 10.

[83] A tal proposito si sottolinea come la Corte Costituzionale, pur affermando la pienezza di tutela delle posizioni della dirigenza, si muova ancora nella prospettiva di sindacato sull’atto: la cognizione del giudice del lavoro comprende tutti i vizi di legittimità, senza che sia possibile operare distinzioni tra le norme sostanziali e procedurali, di modo che allo stesso giudice ordinario resta affidata la pienezza della tutela, estesa a tutte le garanzie procedimentali del rapporto previste dalla legge e dai contratti e quindi comprende anche i vizi formali (Corte Cost. 193/02). Prospettiva che  se non estranea, non è però appieno rispondente alla logica del giudice ordinario, fondata non tanto sul sindacato sull’atto, bensì sul sindacato sul rapporto..

[84] Esempi di pronunce costitutive del rapporto dirigenziale sono offerti da: Trib. Mantova, 27.12.2001 n. 186, in www.giust.it  n. 2/2002, che ha reintegrato un segretario comunale rimosso senza alcuna motivaione per semplice venir meno del rapporto di fiducia;. Trib. S. Maria Capua Vetere, ordinanza 14.12.2000 in www.giust.it n. 1/2001 che ha reintegrato un segretario comunale nell’incarico rimosso a causa di un addebito mai contestato in precedenza ; Trib. Novara, ordinanza 24.11.2000 n. 2482, in www.giust.it n. 12/2000, che ha dichiarata illegittima la revoca dall’incarico disposta senza alcuna giustificazione; Trib. Parma, ordinanza 28.3.2001 n. 125, in www.giust.it n. 4/2001, che ha dichiarato illegittima l’assegnazione a mere funzioni di staff – per il concreto demansionamento subito – di dirigente in precedenza preposto ad ufficio comunale di rilevanza strategica; Trib. Roma, ordinanza 19.12.2001, in www.giust.it n. 1/2002 che ha reintegrato un dirigente revocato dall’incarico perché la revoca pregiudicava le aspettative del ricorrente a vedersi attribuito un incarico equivalente; Trib. S.Angelo dei Lombardi, 10.5.2001 n. 342, in www.giust.it n. 5/2001 che ha reintegrato un dirigente comunale nel precedente incarico poiché le nuove funzioni non erano corrispondenti ed equivalenti a quelle svolte in precedenza.

[85]Cfr. F. FIGORILLI, Giurisdizione piena del giudice ordinario e attività della pubblica amministrazione, p. 229 ss., in particolare nota n. 140,  il quale, seppur con riferimento ai casi di nomina e revoca dei dirigenti pubblici, segnalando l’inidoneità del modello contenuto nelle riforme del pubblico impiego e richiamando L. IANNOTTA (Atti non autoritativi ed interessi legittimi, cit., p. 75) rileva che  il cambiamento di giurisdizione non può, comunque, comportare perdita di tutela. Con riferimento alle situazioni soggettive dei dipendenti degli enti pubblici economici, L. IANNOTTA (ult. cit.) già ebbe modo di evidenziare che, se fosse stata tenuta ferma l’alternativa diritto soggettivo-interesse di fatto e, comunque, se non si fosse data una veste giuridica alle situazioni in esame, il cambiamento di giurisdizione ed in particolare una giurisdizione tradizionalmente garantistica, tra l’altro, per avere ad oggetto non solo l’atto ma il rapporto, si sarebbe tradotto, per tali situazioni, non solo in una perdita di effettiva tutela, ma addirittura nella degradazione ad interessi privi di rilevanza giuridica.     

[86] B. SASSANI, Il passaggio alla giurisdizione ordinaria del contenzioso sul pubblico impiego, cit. p. 8. Con riferimento ai rischi di una tutela solo per equivalente conseguente al passaggio di giurisdizione, parte della dottrina aveva paventato una colossale espropriazione dei mezzi di tutela dell’impiegato pubblico. Cfr. CECCHELLA, La tutela giurisdizionale dei diritti nella riforma del pubblico impiego, in Giur. It., 1992, IV, c. 258 e ss.. 

[87] Già citata alla nota 77.

[88] Interesse merita anche la giurisprudenza – ordinaria ed amministrativa – formatasi in tema di conferimento e revoca degli incarichi di segretario comunale, il quale  può essere scelto con ampia discrezionalità dai vertici politici dell’ente locale. Senonchè, in più sentenze si sottolinea come il generico riferimento al carattere fiduciario del rapporto, senza l’indicazione di ulteriori indiscutibili elementi,  sia di per sé insufficiente a giustificare la scelta di un determinato soggetto, in presenza di una pluralità di domande. O, parimenti, si è stigmatizzata la nomina di un segretario comunale in sostituzione di quello in carica, attuata senza alcuna esternazione delle ragioni fondanti la sostituzione (TAR Friuli Trieste, 17.12.1998 n. 1540, in TAR 1998, II, p. 2837; TAR Campania, V, 15.2.1999 n. 377, ibidem, 1999, I, p. 1478; TAR Friuli, 18.1.1999 n. 9, in Giur. It., 1999, p. 1092). Mentre con riferimento alla revoca dall’incarico, il Tribunale di Udine ha avuto modo di affermare che il segretario comunale (ma il discorso è estensibile anche alle alte figure dirigenziali) non è revocabile ad nutum  e cioè per il semplice fatto di non godere più della fiducia o di non rispondere più alle esigenze dei soggetti che rivestono le varie cariche dell’Ente …ma solo quando commetta delle gravi violazioni ai suoi doveri di collaborazione dell’Ente, istituzionalmente inteso (Ord. Trib. Udine, 28.8.2000, in www.giust.it. La giurisprudenza citata , come quella precedente è altresì segnalata da L. RINALDI, Autonomia, poteri e responsabilità del dirigente pubblico: un confronto con il manager privato, cit., p. 224 e ss., nonché da F. FIGORILLI, Giurisdizione piena del giudice ordinario e attività della pubblica amministrazione, cit., p. 201 a cui si rimanda, seppur con le differenze (tendenziali e problematiche) di conclusioni rappresentate nella nota precedente,  anche per più ampi riferimenti giurisprudenziali. L’elemento fiduciario ed il suo venir meno si rivelano, pertanto, idonei a giustificare la nomina, la revoca e – anche – la risoluzione del rapporto d’impiego solo se la scelta operata dai vertici politici è assistita da un’adeguata ed oggettiva verifica della competenza e della professionalità dell’interessato o, per contro, dell’incompetenza e dell’incapacità gestionale (Cfr. Corte Cost. 24.5.1988 n. 331, in Giur Cost., 1988, p. 1359; Corte Cost. 25.7.1996 n. 313, cit.; Cons. Stato, IV, 26.4.2000 n. 2493, in Gior. Dir. Amm. N. 7/2000, p. 694; in dottrina vd.  M. R. SPASIANO, Riflessioni sparse in ordine alla nomina ed alla risoluzione del contratto dei direttori generali delle aziende sanitarie locali, cit., p. 132).

[89] Cfr Cass. SS. UU., 30.3.2000 n. 71, in CS, II, n. 5-6/2000, p. 914. Sulla necessaria funzionalizzazione e connessione al pubblico interesse dell’attività di diritto privato della pubblica Amministrazione vd. A. AMORTH, Osservazioni sui limiti dell’attività amministrativa di diritto privato, in Arch. Diritto Pubbl. 1938, p. 463; C. MARZUOLI, Principio di legalità ed attività di diritto privato della pubblica amministrazione, Milano, 1982.

[90] Cfr. C. Cost. n. 193/02 cit., Corte Cost., Ordinanza 16-30.1.2002 n. 11, in G.U., I° Serie speciale, 6.2.2002 n. 6, p. 47.

[91] Così Cons. Stato, Ad. Plen. 22.4.1999 n. 4, in CS n. 4/1999, p. 561.

[92] Propende per una maggiore stabilità della dirigenza come garanzia della sua autonomia L. RINALDI, Autonomia, poteri e responsabilità del dirigente pubblico: un confronto con il manager privato, cit., p. 235, per la quale è troppo evidente il rischio di indebolimento della classe dirigente, assoggettandola completamente alla volontà della maggioranza in quel momento al governo.

[93] Cfr. C. Cost. 9-16-5.2002 n. 193, cit., p. 15. vd. anche G.GARDINI, L’attività dirigenziale tra responsabilità e stabilità, cit..

[94]Cfr.  Corte Cost. ord. 16-30.1.2002 n. 11, cit..    

[95]A. ROMANO, Pubblico impiego e contrattazione collettiva, aspetti pubblicistici. Relazione al XXV Convegno di studi di scienza dell’Amministrazione, Varenna – 1979, in Giur. Cost. 1980, I, p. 886.; sulle esigenze di differenziazione vd. anche G. COCCO, Disciplina differenziata e specialità del rapporto di pubblico impiego, Roma, 1984, p. 91 ss.    

Tirelli Silvio

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