Recenti orientamenti sull’applicazione del rito Fornero

Redazione 25/01/19
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di Roberto Bonatti*

* Ricercatore dell’Università di Bologna

Sommario

Paragrafo 1

Paragrafo 2

Paragrafo 3

Paragrafo 4

A distanza di ormai quasi sette anni dalla sua introduzione, il c.d. rito Fornero – applicabile alle controversie aventi ad oggetto la cessazione del rapporto di lavoro a seguito di licenziamento (di cui all’art. 1, commi 48 e ss., della legge n. 92 del 2012) – appare ancora di attualità, per le numerose questioni che la casistica propone. Peraltro, il tempo trascorso dalla novella legislativa che lo ha previsto è del tutto fisiologico affinché il contenzioso, sviluppatosi in tutte le proprie fasi e gradi di giudizio, giunga in cassazione. E ciò anche per un rito che, nell’intenzione del legislatore, presenta caratteri di indubbia celerità procedimentale, ancor più marcati che nel rito ordinario del lavoro, a sua volta è mediamente già più rapido rispetto al rito ordinario di cognizione.

Per la verità, fin dal principio era apparso che numerose questioni processuali avrebbero necessitato di un chiarimento per via giurisprudenziale. La ragione principale di ciò risiede nella tecnica normativa, che consta di uno scarno corpo di disposizioni, perlopiù contenute in commi di un articolo molto lungo e complesso. Il risultato è un insieme di regole processuali non organico ed in larga misura incompleto, che richiede un’accurata opera di interpretazione sistematica delle norme speciali applicabili al nuovo rito e di verifica della possibilità di applicare le norme generali sul rito del lavoro previste dal c.p.c. in mancanza di disposizioni specifiche nel contenzioso sui licenziamenti.

La diversificazione dei riti e dei modelli di tutela porta sempre con sé il rischio e l’inconveniente di identificare esattamente il campo di applicazione del rito speciale, per distinguere in modo univoco l’uso dell’un rito anziché dell’altro. È un inconveniente non di poco conto, se si considera che la questione sul rito applicabile è comunque questione preliminare che deve essere affrontata e decisa dal giudice e che dunque impiega risorse e tempo che, nel processo, potrebbero essere utilizzate in modo più efficace ed efficiente.

Anche per il rito speciale per i licenziamenti si sono posti e si pongono problemi non dissimili.

Essi possono essere raggruppati e classificati sotto due direttrici distinte: da un lato, questioni attinenti all’oggetto proprio del rito Fornero, ossia comprendere esattamente quali sono le controversie relative al rapporto di lavoro assoggettate al rito speciale sui licenziamenti e quali, invece, restano regolate dal rito del lavoro tradizionale; l’altra direttrice riguarda invece le questioni relative alle domande connesse con quelle proprie del rito Fornero, per stabilire se e quale tipo di connessione giustifica l’attrazione di tali domande – che autonomamente sarebbero escluse dall’applicazione del nuovo rito – all’interno di una medesima controversia avente quale domanda principale proprio quella relativa ad un licenziamento che ricade nell’ambito di applicazione del rito Fornero.

Sotto il primo profilo, la casistica giurisprudenziale mette chiaramente in risalto quanto sia ampia la tendenza ad intendere estensivamente l’oggetto della domanda proponibile con il rito Fornero.

In questo senso, appare ormai consolidato il principio affermato dal giudice di legittimità relativo all’applicabilità del rito speciale alla domanda di accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro con un soggetto nominativamente diverso dal formale datore di lavoro1. In questi casi, sebbene la controversia non riguardi (o non riguardi soltanto) la legittimità della cessazione del rapporto di lavoro e del licenziamento, ma principalmente questioni soggettive rispetto al soggetto che assuma la veste di datore di lavoro, tuttavia la domanda trova pur sempre fondamento sull’illegittimità della cessazione di un rapporto di lavoro, e dunque va esaminata con il rito accelerato previsto per tali tipi di controversie.

In altri termini, ogni volta che la domanda riguardi la (ri)costituzione di un rapporto di lavoro che si è interrotto essa va proposta nelle forme del rito Fornero, anche qualora l’accoglimento della domanda stessa dipenda essenzialmente dall’accertamento dell’elemento soggettivo del contratto di lavoro, e non dall’oggetto dello stesso ovvero dai fatti che ne hanno determinato la cessazione.

Processualmente, la soluzione appare del tutto corretta dal momento che l’impugnazione di un licenziamento illegittimo si fonda su di una pluralità di fatti costitutivi, tra cui certamente l’esistenza di un contratto di lavoro tra le parti prima al momento della cessazione del rapporto di lavoro stesso. Cosicché, ai fini dell’applicazione della legge n. 92 del 2012 è del tutto indifferente se sia controverso l’oggetto del contratto (per esempio, se era legittima l’apposizione del termine; oppure se esso prevedeva il licenziamento quale sanzione disciplinare per il fatto materialmente contestato al lavoratore) oppure l’identità delle parti del rapporto stesso.

Merita di essere segnalata in questo senso una recente pronuncia della Cassazione2 che chiarisce come anche l’accertamento sulla natura del rapporto, se subordinato o di altro tipo, è attratta dal rito Fornero se essa sia preliminare rispetto alla valutazione di legittimità del licenziamento impugnato.

Ciò che appare invece di più immediato interesse è la precisazione, che si rinviene nella giurisprudenza della Cassazione, in ordine alla necessità di verificare che in tali casi la prospettazione di fatto contenuta nel ricorso non sia artificiosa o pretestuosa, il che accade quando la domanda tendente ad ottenere la prosecuzione del rapporto di lavoro sia manifestamente inammissibile o infondata, ed inserita nel ricorso esclusivamente al fine di operare una non consentita scelta del rito. Questa situazione si potrebbe verificare, ad esempio, nel caso in cui il lavoratore chieda la conversione di un rapporto di lavoro a termine con una pubblica amministrazione in uno a tempo indeterminato, stante il divieto costituzionale di accesso al pubblico impiego senza previo superamento di un concorso.

L’applicabilità del rito Fornero è stata dichiarata anche in relazione alla domanda volta al pagamento della retribuzione dovuta per il periodo compreso tra la data della risoluzione del rapporto di lavoro e quella della sua materiale ed effettiva cessazione3, dal momento che anche in tali situazioni il diritto controverso richiede l’accertamento degli effetti, almeno sul piano temporale, del licenziamento e dunque trova nel licenziamento stesso il suo fatto costitutivo.

[1] Cass. lav. n. 2303 del 30 gennaio 2018; conf. Cass. lav. n. 17775 del 8 settembre 2016.

[2] Cass. lav. n. 21959 del 10 settembre 2018.

[3] Cass. lav. n. 7586 del 27 marzo 2018.

Più problematica è la soluzione che si prospetta alla seconda delle questioni che abbiamo indicato, in relazione alla vis attrattiva del rito Fornero rispetto alle domande connesse con quelle relative al licenziamento. Si tratta più propriamente di domande nelle quali l’accertamento sugli effetti del licenziamento, a differenza dei casi appena esaminati, non rappresenta uno dei fatti costitutivi del diritto ma è mera questione pregiudiziale per la soluzione di altra questione, che si fonda su fatti costitutivi differenti.

Nella prassi, il problema si è posto soprattutto in relazione a domande accessorie rispetto a quella di reintegrazione, oppure a domande alternative ad essa ed in particolare di condanna al risarcimento per equivalente nel caso in cui non operi la tutela reale.

Rispetto a queste questioni, gli orientamenti paiono discordi.

Per l’applicabilità del rito Fornero propende il dato normativo di cui all’art. 1, comma 48, della citata legge n. 92 del 2012, secondo il quale con il ricorso possono essere proposte domande diverse da quelle aventi ad oggetto il licenziamento ma soltanto se sono fondate su identici fatti costitutivi. Utilizzando l’interpretazione letterale, ed avvalendosi di una nozione ampia di fatto costitutivo, si giungerebbe alla conclusione che ogni domanda che tragga origine dai medesimi fatti che hanno dato oggetto al licenziamento sarebbe soggetta al rito Fornero, ivi compresa appunto quella di tutela solo obbligatoria laddove quella reale non sia ritenuta applicabile. In contrario si è però osservato4 che in questo modo si finirebbe per vanificare la ratio del rito speciale, che è senza dubbio quella di celerità su talune situazioni del rapporto di lavoro particolarmente delicate, come sono appunto le vicende estintive dello stesso.

La giurisprudenza di legittimità non risulta abbia ancora avuto modo di esaminare approfonditamente queste tematiche: certamente la soluzione dipende da quale aspetto si intenda perseguire, se la celerità del rito speciale anche a costo di offrire rapidamente una tutela solo parziale del diritto (nella specie, la tutela reale) ovvero se l’opposto fine di offrire al lavoratore una tutela completa in forme più rapide a quelle ordinarie in relazione alle vicende estintive del rapporto di lavoro.

A mio giudizio, non giova alle parti la parcellizzazione e frammentazione del contenzioso che si può generare in relazione ad un licenziamento, perché né il lavoratore né il datore di lavoro ha alcun vantaggio nel duplicare il contenzioso. Ma soprattutto dovrebbe far propendere per la prima soluzione l’osservazione che le due domande, appunto perché alternative, mantengono un elevato rischio di potenziale contrasto tra le due decisioni, rischio che può essere evitato soltanto consentendo per quanto possibile che sia il medesimo giudice, nella medesima sentenza, a decidere quale delle due domande merita accoglimento. Né pare convincente obiettare che il rischio potrebbe comunque essere limitato dalla disciplina del giudicato, nel senso che la celerità del rito Fornero è tale da produrre la cosa giudicata sostanziale sull’inapplicabilità della tutela reale in un tempo molto inferiore rispetto alla decisione del giudice sulla domanda di tutela obbligatoria. Ciò in quanto da un lato il giudicato sulla domanda retta dal rito Fornero richiede pur sempre un non trascurabile lasso di tempo, specialmente se la questione viene riproposta nelle sedi d’impugnazione; d’altro lato, proprio l’obiettivo di tutela rafforzata del lavoratore, che è alla base dello stesso rito speciale, dimostra che il lavoratore ha pur sempre diritto ad iniziare immediatamente la controversia volta ad ottenere il risarcimento per equivalente, senza che ciò sia in alcun modo condizionato dal giudicato sulla domanda di reintegrazione.

[4] Per es. Trib. Catania, sez. lavoro, n. 4976 del 5 dicembre 2018.

Un aspetto sul quale la norma non sembra offrire soluzioni univoche è la disciplina della domanda riconvenzionale: l’art. 1, comma 56, della legge n. 92 del 2012, infatti, ammette la domanda riconvenzionale nella fase di opposizione ed a condizione che la stessa sia fondata su fatti costitutivi identici rispetto a quelli posti a fondamento della domanda principale. Resta tuttavia da comprendere se ciò escluda l’ammissibilità di una domanda riconvenzionale proposta già nella fase sommaria.

In altri termini, la norma, anche a livello letterale, non esclude la proponibilità della domanda riconvenzionale nella prima fase, sebbene si debba convenire sul fatto che una soluzione affermativa potrebbe apparire contraria all’obiettivo di maggiore rapidità del rito speciale, ed in particolare della sua prima fase sommaria. Conseguentemente, parrebbe logico immediatamente concludere che la domanda riconvenzionale resta ammissibile soltanto eventualmente nella fase di opposizione, che trasforma la prima fase sommaria in un vero e proprio giudizio di primo grado a cognizione piena.

Tuttavia, vi sono delle situazioni in cui non ha senso rimandare alla fase di opposizione l’introduzione nel giudizio di una domanda riconvenzionale, perché ciò otterrebbe invece l’effetto opposto, di appesantire e rallentare il giudizio, nel quale invece sarebbe ottimale poter trattare congiuntamente la domanda principale e quella riconvenzionale fin da principio, ossia fin dalla fase sommaria.

Emblematica è la situazione affrontata dalla sentenza della Cassazione, sez. lavoro, n. 30433 del 23 novembre 2018: il giudizio, secondo il rito Fornero, era stato in quel caso attivato in prevenzione dal datore di lavoro, e non dal lavoratore licenziato; naturalmente, la domanda principale consisteva in una azione, di mero accertamento, sulla legittimità del recesso intimato. Il lavoratore, già nella fase sommaria, aveva così proposto domanda riconvenzionale, al fine di ottenere non soltanto l’accertamento contrario, ma anche la pronuncia di condanna alla tutela reale con il conseguente reintegro nel posto di lavoro.

La corte si preoccupa anzitutto di ribadire che, anche nelle controversie in tema di licenziamenti illegittimi, l’interesse ad agire va riconosciuto un interesse anche in capo al datore di lavoro in relazione alla domanda di accertamento della legittimità del licenziamento intimato al lavoratore5. Questa situazione si colloca, più in generale, nel tema dell’ammissibilità delle domande svolte in prevenzione, ed in particolare dell’accertamento negativo sull’esistenza di un diritto altrui. Per tali situazioni, l’attualità e la concretezza dell’interesse ad agire richiede un’indagine, caso per caso, sulla situazione di fatto allegata dall’attore. L’interesse ad agire potrà pertanto essere riconosciuto soltanto in presenza di una comprovata situazione di incertezza sull’esistenza o meno di tale diritto, non eliminabile senza l’intervento del giudice, che si pone quale condizione (o come una delle condizioni) di un pregiudizio concreto ed attuale in capo all’attore6.

L’esistenza di un autonomo interesse ad agire in capo al datore di lavoro in ordine all’accertamento negativo del diritto del lavoratore alla prosecuzione del rapporto permane anche nella situazione in cui il lavoratore abbia già proposto domanda di accertamento dell’illegittimità del licenziamento e di condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro, salva ovviamente l’applicazione alle due domande delle regole sulla connessione ovvero sulla continenza di cause ex art. 39 c.p.c.7.

Se dunque è pacifica la possibilità che nello stesso giudizio vengano introdotte contemporaneamente le due domande, di accertamento mero della legittimità del licenziamento da parte del datore di lavoro e di accertamento della sua illegittimità con condanna alla reintegra da parte del lavoratore, resta da stabilire con quale tecnica processuale ciò possa avvenire nelle controversie soggette al rito Fornero.

In una situazione come quella affrontata dalla pronuncia in commento, l’applicazione della regola prevista dall’art. 1, comma 56, della legge n. 92 del 2012, e cioè di rimandare l’ammissibilità della domanda riconvenzionale del lavoratore alla fase di opposizione, significherebbe da un lato diminuire la tutela processuale del lavoratore licenziato, che invece il rito Fornero ha inteso proteggere in modo più rapido ed effettivo; dall’altro, consentirebbe al datore di lavoro di bloccare la pronuncia sommaria, propria della prima fase del processo, semplicemente agendo in prevenzione rispetto al lavoratore licenziato.

Benché non ve ne si faccia cenno, questa seconda situazione sarebbe riconducibile sostanzialmente ad un abuso del processo da parte del datore di lavoro, che, chiaramente prevedendo l’azione giudiziale del lavoratore licenziato, anticipasse l’iniziativa processuale di quest’ultimo allo scopo di impedire una pronuncia, sommaria ma rapida, di eventuale condanna alla reintegrazione.

[5] Interesse riconosciuto anche in altre situazioni relative alla regolarità dello svolgimento del rapporto di lavoro: ad esempio, in caso di domanda di accertamento negativo della legittimità di uno sciopero proclamato dalle organizzazioni sindacali (Cass. lav. n. 24653 del 3 dicembre 2015), o nel caso di accertamento di quale sia il reale datore di lavoro a seguito della cessione di un ramo d’azienda (Cass. lav. n. 16262 del 31 luglio 2015) ovvero ancora di accertamento dell’esatta determinazione dei compensi dovuti, anche nel caso in cui essi non siano ancora maturati (Cass. lav. n. 4496 del 21 febbraio 2008, in Mass. giust. civ., 2008, 2, p. 268).

[6] Per tale ragione, è stato ritenuto insussistente l’interesse ad agire del datore di lavoro rispetto ad una domanda volta ad accertare se il comportamento del lavoratore, valutabile sotto il profilo disciplinare, fosse o meno in grado di ledere, per la sua gravità, l’elemento fiduciario alla base del rapporto di lavoro (Cass. lav. n. 14756 del 30 giugno 2014).

[7] Cass. lav. n. 7096 del 9 maggio 2012 in Mass. giust. civ., 2012, 5, p. 579; Cass. lav. n. 6891 del 14 luglio 1998 in Mass. giust. civ., 1998, p. 1527.

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