Recensione dell’opera “L’ordinamento giuridico” di Santi Romano.

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La prima edizione de “L’ordinamento giuridico” di Santi Romano (1875-1947) risale al 1917; l’Autore curò poi una seconda edizione, con aggiunte, pubblicata nel 1945.

La continuità dell’atteggiamento teoretico dell’Autore gli permise di ripubblicare la medesima opera sostanzialmente inalterata a quasi trent’anni di distanza rispetto alla prima edizione, nonostante i forti sconvolgimenti e la totale destabilizzazione di un periodo storico così profondamente concitato.

Il testo si compone di due parti: la prima dedicata al concetto di ordinamento giuridico e la seconda alla pluralità degli ordinamenti giuridici ed alle loro relazioni.

Nella prima parte, in particolare, l’Autore affermò che la definizione del diritto non possa coincidere con la definizione delle norme che lo compongono. Il diritto dovrebbe contenere il concetto di società (ubi jus ibi societas; ubi societas ibi jus), di ordine sociale (in modo da escludere ogni elemento che sia da ricondursi al puro arbitrio o alla forza materiale, cioè non ordinata) e di organizzazione (struttura, posizione della stessa società in cui si svolge e che esso costituisce come unità, come ente per sé stante).

Il nucleo centrale del pensiero di Santi Romano è contenuto nell’affermazione secondo cui “ogni ordinamento giuridico è un’istituzione, e viceversa ogni istituzione è un ordinamento giuridico”. L’ordinamento è sempre e necessariamente giuridico, proprio perché lo scopo tipico del diritto è quello dell’organizzazione sociale.

Ed invero, già nel 1910 (Lo stato moderno e la sua crisi, in Rivista di diritto pubblico) il Giurista aveva affermato che lo Stato, rispetto agli individui ed alle comunità che ne fanno parte, è un ente a sé che riduce ad unità i vari elementi di cui è composto, ma non si confonde con nessuno di essi; lo Stato, infatti, sarebbe dotato di un potere che gli deriva dalla sua stessa natura e dalla sua forza, cioè la forza del diritto.

Anche in seguito, nella sua opera Principi generali del diritto e diritto costituzionale (1930), l’Autore ebbe occasione di confermare tale concezione, definendo il diritto come “l’ordinamento sociale nei suoi elementi più fondamentali e più stabili, cioè nelle sue istituzioni”, “una delle facce del prisma iridescente della civiltà”.

Santi Romano fu il principale fautore della teoria cd. istituzionistica (o istituzionalista) del diritto, teoria pluralista (l’ordinamento giuridico non sarebbe uno soltanto) che analizza la funzione dell’ordinamento giuridico. Essa prese spunto dagli studi del giurista francese Maurice Hauriou e fu seguita da illustri giuristi (tra cui Vezio Crisafulli, Carlo Esposito e Massimo Severo Giannini).

M. Hauriou (1856-1929), tuttavia, delineò un concetto più ampio di istituzione (definendola ”organizzazione sociale”) ed, al contempo, più ristretto (limitandolo a quelle sole organizzazioni sociali che avessero raggiunto un certo grado di sviluppo e di perfezione).

Santi Romano criticò la concezione del diritto come “regola di condotta”; a suo avviso, occorre invece partire dal tutto, cioè dall’istituzione, in una prospettiva olistica che richiama quella aristotelica; essa, peraltro, permette di risolvere meglio una serie di questioni che difficilmente possono trovare soluzione se affrontati come questioni di teoria della singola norma giuridica.

Il giurista Paolo Grossi, Giudice costituzionale dal 2009, ha sottolineato (nel suo articolo Santi Romano: un messaggio da ripensare nella odierna crisi delle fonti, in Rivista trim. di dir. e proc. civ. 2006) che sembra quasi che Romano abbia raccolto un suggerimento proposto già da Cicerone nel De legibus: concepire il diritto come un insieme di comandi costituirebbe “una percezione volgare, che immiserisce la dimensione giuridica e, anzi, la tradisce”.

Per questo motivo, la teoria istituzionalista si contrappone alla teoria cd. normativa, sostenuta (tra gli altri) dal giurista austriaco Hans Kelsen (1881-1973), che analizza, invece, la struttura dell’ordinamento giuridico. Quest’ultimo sarebbe un insieme di norme disposte secondo una rigida scala gerarchica e facente capo ad un’unica norma fondamentale (cd. Grundnorm). Tale norma, non posta ma presupposta, costituirebbe l’elemento di coesione del sistema, sul quale lo stesso si svilupperebbe ed articolerebbe. La teoria normativa è monista: l’ordinamento giuridico sarebbe uno solo, ma si suddividerebbe in tanti ordinamenti particolari che farebbero tutti capo alla norma base.

Un aspetto importante della teoria romaniana è costituito dalla sanzione: solo lo Stato, infatti, sarebbe in grado di imporre i propri comandi, avendo il monopolio della forza; ma esisterebbero anche altre sanzioni (per esempio, quella canonica) che, pur non avendo la forza di coazione statuale, si rivelerebbero comunque efficaci.

Nel 1926, Santi Romano ebbe modo (nel suo Corso di diritto internazionale) di approfondire tali studi ed affermò che, perché un ordinamento possa considerarsi giuridico, è sufficiente che questo, “essendo una struttura sociale, offra delle garanzie, che possono essere dirette o indirette, immediate o mediate, preventive o repressive, sicure o soltanto probabili e quindi incerte”; e tali garanzie sarebbero presenti non solo nel diritto statale, ma anche in quello internazionale.

Quanto poi al rapporto tra diritto ed etica, Romano prese spunto dalla celebre affermazione di Jellinek (contenuta in Die socialethische Bedeutung von Recht, Unrecht und Strafe, 1908) secondo cui “il diritto rappresenta il minimum etico”, per sostenerne la veridicità solo parziale. Il diritto, infatti, secondo Romano, rappresenterebbe non solo una quantità di morale, ma anche di economia, di tecnica, di costume, etc. Non sarebbe possibile, tuttavia, misurare a priori tale quantità: pertanto, non necessariamente si tratterebbe di un minimum.

Infine, Santi Romano sosteneva che, per ogni definizione di diritto, il termine di confronto fosse specialmente dato dal cd. problema del diritto internazionale. Anche il diritto internazionale, come quello statuale, si affermerebbe inizialmente come istituzione, come risultato necessario dell’organizzazione interstatuale. Il momento in cui sorge il diritto internazionale non sarebbe segnato, come sosteneva la dottrina allora dominante, dagli accordi internazionali, bensì dal sorgere della stessa comunità internazionale odierna.

Come l’Autore ebbe modo di sottolineare nel suo Corso di diritto internazionale (1926), un carattere importante della comunità internazionale è quello per cui essa è un ente politico, cioè un ente a scopi generali; in sostanza, “nessuno scopo è specificamente proprio di essa e nessuno le è necessariamente estraneo”.

Nella seconda parte, l’Autore spiega il principio della pluralità degli ordinamenti giuridici ed analizza le loro relazioni.

Gli ordinamenti giuridici sarebbero una pluralità, in quanto il diritto scaturirebbe dalla struttura della società. Per questo motivo, la seconda parte del libro dimostra di essere strettamente collegata alla prima: il principio della pluralità degli ordinamenti giuridici, infatti, discenderebbe direttamente ed inevitabilmente dalla nozione stessa di diritto e di ordinamento giuridico.

Il principio della pluralità troverebbe applicazione anche nel caso delle istituzioni illecite, poiché non vi sarebbe, in tal senso, alcuna dipendenza necessaria ed assoluta del diritto positivo dalla morale (diversamente da quanto sostenuto dai giusnaturalisti).

In un’opera del 1930 (Principi generali del diritto e diritto costituzionale), Santi Romano riferì un caso giudiziario, risalente a trent’anni prima, molto significativo a questo proposito: a Roma, davanti alla Corte d’Assise, risultò che un ladro, al momento della divisione del bottino, avesse detto ai suoi poco onorevoli colleghi: <Badiamo a far le cose giuste>. L’episodio costituirebbe un chiaro esempio del principio secondo cui il diritto sia assolutamente indissolubile da ogni società in senso proprio.

L’elaborazione della teoria di Santi Romano sulla pluralità degli ordinamenti giuridici trova spiegazione anche da un punto di vista storico, oltre che giuridico. All’epoca, all’interno dell’ordinamento giuridico italiano coesistevano, infatti, l’ordinamento statuale e quello canonico della Chiesa cattolica. Quest’ultimo vigeva in virtù della singola coscienza dei cittadini cattolici, ma non era riconosciuto dallo Stato, in ragione delle condizioni politiche che seguirono alla presa di Roma ed alla creazione dello Stato unitario.

Contestualmente, si dovette affrontare la questione dei rapporti tra ordinamento statuale nazionale ed ordinamento internazionale, la cui esistenza come ordinamento giuridico autonomo iniziava ad essere teorizzata proprio in quegli anni.

Il principio della pluralità è stato applicato dall’Autore a tutte le organizzazioni dotate di una certa autonomia ed individuabili all’interno dell’ordinamento statale: la famiglia, le associazioni e persino le organizzazioni criminali. La mafia, ad esempio, ha norme la cui efficacia di coazione è, a volte, addirittura superiore a quella statuale.

Portando alle estreme conseguenze questa impostazione, fu poi sostenuto da Salvatore Romano che ogni singolo contratto darebbe vita ad un ordinamento: i soggetti sarebbero i contraenti; il complesso normativo -che costituirebbe diritto obiettivo- sarebbe costituito dal contenuto contrattuale.

Peraltro, non può dimenticarsi che, soprattutto negli anni in cui Santi Romano scriveva, si evidenziò la forte difficoltà dello Stato a governare ed ordinare il mutamento sociale, economico e tecnico. Si trattava di un contesto secolarizzato, composto da soggetti giuridicamente uguali, dopo che il potere aveva cancellato ogni forma associativa (come sottolineò lo stesso Santi Romano ne Lo stato moderno e la sua crisi); lo Stato veniva visto come unico garante della pubblica felicità, espressione della volontà generale della nazione resa concreta da una rappresentanza politica assai idealizzata. A sua volta, il Codice del 1942 pretendeva di racchiudere l’ordine giuridico all’interno di un sistema chiuso di regole irrigidito in un testo scritto, puntiglioso, che aspirava ad essere autosufficiente ed immutabile.

Nella seconda parte, Santi Romano analizza altresì i vari tipi di istituzioni che possono aversi: originarie e derivate, semplici e complesse, e così via.

Lo Stato, ad esempio, viene definito come un’istituzione con fini generali. Tuttavia, non è un ente universale: i suoi fini sono universali nel senso che questi non sono positivamente e singolarmente determinati; in astratto e potenzialmente, sono sempre estensibili. Romano osserva inoltre che, in concreto, uno Stato che includa fra gli oggetti del suo diritto ogni possibile esplicazione della vita dei suoi membri, non esiste e non è mai esistito.

Invero, l’Autore affronta anche il tema delle lacune dell’ordinamento giuridico: un ordinamento giuridico potrebbe ben dichiarare come suo principio fondamentale la propria limitazione a determinate materie, in modo che quelle non contemplate debbano considerarsi giuridicamente irrilevanti e quindi come un settore in cui non riconosce né diritti né obblighi.

Nel 1925, Santi Romano ebbe modo (con il suo saggio Osservazioni sulla completezza dell’ordinamento statale) di approfondire l’esame di questa tematica, precisando che “la lacuna c’è, anche quando esista una norma per rimediarvi, finché coloro che non hanno, in base a questa, il potere non provvedono effettivamente a reintegrare o sostituire l’istituzione caduta”. Il problema delle lacune, pertanto, si porrebbe diversamente, a seconda che l’ordinamento si consideri come un sistema di norme o come un sistema istituzionale; si tratta di due punti di vista diversi che non si escludono ma si integrano. Inoltre, ciò confermerebbe l’impossibilità di ridurre tutto l’ordinamento giuridico all’aspetto normativo.

Infine, L’ordinamento giuridico si conclude con un esame minuzioso delle relazioni intercorrenti tra i diversi ordinamenti giuridici, che si risolve in quello della rilevanza che ciascuno di essi può avere per l’altro: subordinazione, presupposto, coordinamento, e così via.

In conclusione, il mio parere su “L’ordinamento giuridico” di Santi Romano non può che essere ampiamente positivo.

Ho ammirato, innanzitutto, il grande rigore logico e metodologico dell’opera.

Ritengo l’esposizione degli argomenti chiara ed accurata e condivido l’affermazione di V.E. Orlando secondo cui “in pochi autori, come nel Romano, il diritto, per la forma dell’esposizione, si avvicina tanto alla matematica. Ma anche un teorema di Euclide ha la sua bellezza, per quanto riposta”.

Ho apprezzato, inoltre, la coraggiosa scelta di spostare l’attenzione dal diritto privato al diritto pubblico (considerando il primo come mera specificazione del secondo), ma facendo sempre attenzione a non ripetere alla rovescia gli inconvenienti prodotti dal rilievo centrale che fino ad allora aveva avuto il diritto privato nell’elaborazione delle definizioni giuridiche.

Peraltro, nel periodo storico considerato, il diritto pubblico, soprattutto al di fuori delle costituzioni scritte rigide, era in gran parte costituito da diritto consuetudinario. Pertanto, l’insegnamento del Maestro si rivela attuale anche per questo motivo: sebbene il diritto pubblico italiano odierno sia in gran parte contenuto in testi scritti, la globalizzazione  giuridica (con il pluralismo di canali di produzione giuridica, anche privati, che essa comporta) e la rivoluzione tecnica (specialmente quella info-telematica, ma non solo) dell’ultimo ventennio ripropongono il problema del rilievo delle fonti di diritto non scritto. Tali cambiamenti hanno introdotto nuovi problemi, che spesso si tenta invano di risolvere ancora con una tecnica giuridica fortemente ancorata al diritto romano.

Più in generale, il superamento della teoria normativa comportò la possibilità di tener conto dei vari interessi sussistenti a livello di società civile.

Inoltre, sarebbe interessante analizzare gli effetti che il diritto comunitario avrebbe avuto sulla concezione romaniana, con speciale riferimento alle direttive cd. self executing (aventi efficacia diretta negli ordinamenti degli Stati) ed al principio di sussidiarietà (principio organizzativo del potere che traduce nella vita politica, economica e sociale l’ulteriore principio secondo il quale il fulcro dell’ordinamento giuridico sarebbe la persona, intesa come individuo in relazione, e perciò le funzioni pubbliche devono competere in prima istanza a chi è più vicino alle persone ed alle loro necessità e risorse).

A quasi un secolo dalla prima edizione dell’opera dell’Autore, l’opera in esame rappresenta un punto di riferimento dottrinale insostituibile per la costruzione dei vari pluralismi, peraltro consacrati nella Costituzione repubblicana (entrata in vigore, com’è noto, il 1° gennaio 1948).

Inoltre, permette di comprendere meglio l’odierna crisi delle fonti e, conseguentemente, costituisce una valida premessa per la risoluzione di tale problematica.

Personalmente, condivido pienamente anche l’opinione di Santi Romano relativa al rapporto tra etica e diritto.

Una nota negativa, a mio parere, è costituita dal fatto che, nel corso della trattazione, l’Autore effettua numerosi rinvii a propri studi ulteriori che inizialmente si propose di comporre, ma che in realtà compose solo in parte.

L’ultima parte, poi, relativa alle relazioni tra i diversi ordinamenti giuridici, risulta un po’ appesantita: l’accuratezza del metodo rischia di andare a discapito dell’efficacia della trattazione.

Inoltre, trattandosi di un testo della prima metà del Novecento, talvolta i periodi grammaticali appaiono lunghi e contorti.

Per lo stesso motivo, il libro non è di facile reperibilità nelle librerie.

La veste grafica è ben curata.

Dott.ssa di ricerca Cadelano Sara

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