Recensione a: Franco Dionesalvi, diritto alla cultura e politiche culturali: le teorie di una prassi, coessenza, Cosenza, 2008, 1-246

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 “Diritto alla cultura e politiche culturali: le teorie di una prassi” costituisce un lavoro compatto, significativo, ricco di annotazioni attinte dal diritto comparato, dalla politica del diritto, dalla sociologia e dalla filosofia politiche. Tuttavia, le tre parti che lo costituiscono[1] possono essere autonomamente studiate e fruite dal lettore. Il fatto che l’Autore non abbia inteso ricavare dalla trama unitaria tre spezzoni anche editorialmente distinti pare del resto in linea con le scelte sin qui compiute dall’esperimento di editoria e associazione culturale “Coessenza”, una realtà che propone laboratori di lettura e giornate di studio e di attività legate ai luoghi (come quartiere fisico e topos) della città. Ciò precisato, la prima sezione del lavoro affronta il tema della cultura in quanto ambiente ideologico espressione di una comunità: il senso dell’ideologia non è qui, marxianamente, quello di “falsa coscienza”, semmai più vicino a un eadem sentire, che, previa la lezione di Pareyson, appare al tempo stesso performativo, cioè (auto)costituente(si). In questa parte del testo, risulta appropriato il raffronto tra la posizione di Bauman e quella di Derrida, autori, come per parti diverse Beck[2], Habermas[3] o Deleuze[4], largamente frequentati anche dai giusfilosofi. Tuttavia, la posizione di Bauman, almeno cercando di contestualizzare la teoria della liquidità in una prospettiva di riforma giuridica, non pare convincente quando paragona per globalismo e trans-nazionalismo i richiedenti asilo e i migranti per motivi economici a ogni elite politico-finanziaria. Innanzitutto, anche per quanto riguarda il profilo dei diritti culturali, richiedenti asilo e migranti in cerca di lavoro rappresentano due realtà in poco o niente omogenee[5]: il nesso causale tra la loro condizione originaria e la novella nomadanza è l’unico tratto che li accomuna, anche perché ben facilmente un regime dispotico sui diritti di libertà avrà interesse a contrarre i diritti sociali, destinando al proprio entourage la quota sostanziale delle risorse complessive. Ma diversa è la cultura del perseguitato politico da quella del migrante: solo modus (movimento) et causa (la non accettabilità del loro status di autoctoni in un territorio dato) li rendono simili, ma la specificazione della causa movendi e la futura aspettativa di vita divergono chiaramente. E, a maggior ragione, quanto è diversa la mobilità delle forze economiche? Essa è impositiva, di tipo disciplinare, perché ha come scopo monitoraggio e attacco di mercati. Non è imposta, dalla fame o dalla repressione o incidenter tantum dalle due cose insieme. Né è detto che sia portatrice univoca ed esclusiva di alcuna delle due. La posizione di Derrida pare invece concentrarsi sulla dialettica tra inclusione e resistenza: Derrida respinge, nota Dionesalvi[6], la matrice paternalistica di un welfare volto a contenere, ammorbidire il dissenso –recte, i dissensi; ritiene l’accoglienza esercizio di resistenza, almeno nel senso in cui, seguendo la suggestione lévinasiana[7], la posizione dell’accogliente ne implica la sopravvivenza, esattamente come per l’accolto.
Il testo tenta di reperire una nozione operativa di “cultura” nel quadro delle fonti internazionalistiche, ma non si nasconde i gravi limiti “definitori” che affliggono uno degli strumenti più interessanti al riguardo, la Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli. Innanzitutto, e forse nel non rimarcare questa lacuna Dionesalvi segue le orme del multiculturalista Kymlicka[8], il diritto alla cultura ha una componente individuale che non può ritenersi, come il “legislatore convenzionale” parrebbe pure suggerire, assorbita e risolta nel più vasto diritto (all’esistenza) delle culture “popolari”. E, non secondariamente, la mancata delineazione di un’accezione basica e comunemente accetta di “cultura” rende particolarmente difficile garantire l’efficacia degli artt. 13-15: se accettiamo che un regime politico sia un’espressione culturale, spesso legata a filo doppio con le vicende storiche di un “popolo”, e che è violenza imporre ad altri un’organizzazione di stato che essi non riconoscono, anzi collettivamente e… culturalmente intendono combattere[9], Enduring Freedom è o non è una violazione dei richiamati articoli della Carta di Algeri? Queste note sulle fonti internazionali non esauriscono le sezioni del testo più interessanti per il giurista: se nella parte dedicata alla esperienza del Comune di Cosenza nella promozione di iniziative culturali è possibile saggiare praticamente numerose di quelle norme del diritto amministrativo che regolano le attività degli enti locali, nella ricostruzione della situazione italiana trovano un peso significativo le riforme compiute tra l’inizio di questo decennio e la fine del precedente, sottolineando la diversità prospettica che teoricamente avrebbe dovuto distinguere il ciclo “Bassanini”[10] dalla novella relativa al Titolo V della Costituzione[11]. Dionesalvi, del resto, comprende come quelle trasformazioni giuridiche siano frutto dei mutamenti intervenuti nella politica parlamentare e, spingendo il ragionamento sino alle sue fondamenta, il modo più efficace per modificare gli indirizzi politico-parlamentari è la conquista del consenso elettorale. I “partiti massa”, sulla conquista del consenso, hanno costruito immagini ed immaginari, in definitiva “culture”, teorie e prassi… dei partiti della Prima Repubblica. L’inculturazione che tentano di operare i moderni partiti “contenitore” è scientificamente molto più dinamica, perché più dinamico è l’apprezzamento (o deprezzamento) di costumi e consumi sociali, ma è anche progetto molto più definitivo, perché all’immagine come mezzo sostituiscono l’immagine come fine. E Dionesalvi registra con preoccupazione: le arretratezze e gli scarsi spazi creativi che caratterizzavano i partiti tradizionali, connotati da forte disciplina interna, ed anche le rincorse feticistiche che rischiano di connotare l’agone politico contemporaneo[12].
L’ultima parte del lavoro si sofferma sull’esperienza pratica dell’Autore come assessore alla Cultura: tuttavia l’approccio è del tutto originale per “riletture” di questo tipo. Innanzitutto, vengono esemplificate alcune particolari rassegne ed iniziative come espressione di un orientamento di politica generale volto a penetrare in un contesto meridionale, contraddistinto da depressione economica e da cedimenti nella qualità relazionale dei rapporti umani. E, a seguire, l’Autore cerca di ricostruire le ragioni che rendono una maggiore apertura sulle politiche culturali comunque appagante per migliorare, –rectius: qualificare, il benessere di una data comunità. Seguendo un metodo storiografico recentemente diffusosi nella dottrina statunitense, partire da inquadramenti teorici vasti per testarne la validità nei contesti locali più periferici, “Diritto alla cultura e politiche culturali: le teorie di una prassi” può forse in questo ultimo frammento sembrare apologetico. Ma ciò non ne mina la freschezza argomentativa, la capacità di collezionare testi giuridici e tesi di studio molteplici, la schiettezza nel delineare il senso più intimo della cultura, la liberazione ed il riscatto[13]
 
 Domenico Bilotti


[1]Il concetto di cultura” in F. DIONESALVI, Diritto alla cultura e politiche culturali: le teorie di una prassi, Cosenza, 2008, 16-53; “Le politiche culturali”, ibidem, 55-175; “Un caso concreto. Le politiche culturali del comune di Cosenza dal 1994 al 2005”, ibidem, 177-235.
[2] L’aspetto più interessante nel discorso di Beck, sebbene di solito s’enfatizzi la descrizione dell’ambiente contemporaneo come “iper-modernità”, pare a mio avviso quello relativo alla secolarizzazione che, in luogo dell’inculturazione, sembra caratterizzare le confessioni religiose più diffuse, determinando per converso l’espansione di minoranze sempre più settarie. Cfr. U. BECK, Il Dio personale. La nascita della religiosità secolare, Roma-Bari, 2009.
[3] In questo caso interessante il rifiuto della propaganda dell’unilateralismo, anche se, ad avviso di chi scrive, non disarticolata da un eccessivo apprezzamento di fondo per il “modello sociale europeo”. Cfr. sul punto (a cura di) G. BORRADORI, Filosofia del terrore. Dialoghi con Jürgen Habermas e Jacques Derida, Roma-Bari, 2003.
[4] La enucleazione di una prospettiva culturale è propedeutica allo svolgimento di quasi tutte le altre attività definitorie. Cfr. ex plurimis G. DELEUZE, F. GUATTARI, Che cos’è la filosofia?, Torino, 2002.
[5] Non bastasse lo statuto epistemologico, la tentazione sarebbe quella di rivolgersi al diverso statuto giuridico. Prendendo ancora una volta l’art. 1 dello Statuto dei Rifugiati (in realtà, più spesso: CONVENZIONE SULLO STATUS DEI RIFUGIATI, Ginevra, 28 luglio 1951), “Chi, […] temendo di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, gruppo sociale o a causa delle proprie opinioni politiche […]” (traduzione mia; sottolineato mio). L’idea del gruppo sociale qui non rappresenta una nozione economicistica, ma etnografica, se non addirittura stigmatica (es: paria).
[6] Cfr. F. DIONESALVI, Diritto alla cultura e politiche culturali, cit., 32.
[7] Una pista simile ha già ottenuto significativi riscontri. Si vedano: E. DIENI, Il diritto come “cura”. Suggestioni dall’esperienza canonistica, in “Stato, Chiese e Pluralismo Confessionale” (rivista telematica), http://www.statoechiese.it, giugno 2007, e in specie 60-63; ID, Diritto & Religione vs. “nuovi” paradigmi, Milano, 2008.
[8] Che del resto l’A. riporta in lingua originale, cfr. W. KYMLICKA, Multicultural citizenship, Oxford, 1995.
[9] Se a difesa di una iconoclastia da scempio e da dominazione, da sfregio (o bottino) di guerra, potrebbe per esempio invocarsi l’art. 14, la riflessione proposta nel testo richiama in realtà il seguente art. 15 (“[…] che non gli sia imposta una cultura […] estranea […]”).
[10] Tra l’altro, le richiamate riforme hanno finito con l’investire in modo significativo settori ampi dell’associazionismo di tendenza, non di rado chiamato in gioco da Dionesalvi anche nella sua ricerca. Cfr. G. LEZIROLI, Dalla Legge Siccardi alla Legge Bassanini. Itinerario storico e giuridico su vicende e problemi dell’istituto autorizzativo in materia ecclesiastica, Torino, 2000; più di recente, A. MANTINEO, Enti ecclesiastici ed enti non profit. Specificità e convergenze, Torino, 2002. Il discorso può avere portata ancora più generale, quando “[…] i governi abbandonano il ruolo che svolgevano nella fase keynesiana e socialdemocratica di elargire finanziamenti a tappeto, le organizzazioni che operano nell’area no-profit si rivolgono altrove per cercare sponsorizzazioni […]” in C. CROUCH, Postdemocrazia, Roma-Bari, 2003, 56.
[11] Una certa varietà di vedute, e una altrettanto scoperta vicinanza cronologica alla realizzazione della riforma, in (a cura di) F. RIGANO, E. BETTINELLI, La riforma del titolo V della Costituzione e la giurisprudenza costituzionale. Atti del Seminario (Pavia, 6/7 giugno 2003), Torino, 2004.
[12][…] il ricorso all’industria dello spettacolo quale fonte di idee su come catalizzare l’interesse in politica, la progressiva incapacità dei cittadini di oggi nel dare forma ai loro interessi, la crescente complessità tecnica delle questioni e il fenomeno della personalità si possono spiegare come risposte ad alcuni problemi della postdemocrazia […]” in C. CROUCH, Postdemocrazia, cit., 36
[13][…] la cooperativa Bis viene sganciata dalle altre, e invece che ai servizi sociali viene affidata all’assessorato alla cultura […]. In cambio di questa “attenzione”, e con lo stesso trattamento economico delle altre cooperative, i 14 soci accettano di lavorare in orari serali e notturni […]. I 14 sono tutti carichi di precedenti penali, essenzialmente per spaccio di sostanze stupefacenti e furto. Qualcuno per rapina, facendo parte di una di quelle “bande del taglierino” che hanno imperversato per alcuni anni a Cosenza […]. Per loro l’esperienza della cooperativa si presenta come un salvagente insperato, a cui non vogliono rinunciare […]”, F. DIONESALVI, Diritto alla cultura e politiche culturali, cit., 190.  

Dott. Bilotti Domenico

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