Rapporti tra reato continuato e principio di intangibilità del giudicato

Redazione 07/01/19
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L’istituto del reato continuato ricorre quando con più azioni o omissioni, poste in essere anche in tempi diversi, il soggetto commetta più reati in esecuzione di un medesimo disegno criminoso.

Gli elementi costitutivi del reato continuato sono quindi tre: 1) una pluralità di azioni od omissioni; 2) più violazioni di legge; 3) il medesimo disegno criminoso.

L’art. 81, comma 2, c.p. prevede che, in tal caso, sia applicabile il cumulo giuridico previsto dal legislatore per l’ipotesi del concorso formale di reati (anziché il cumulo materiale delle pene). Si applicherà, dunque, la pena prevista per la violazione più grave aumentata sino al triplo.

La ratio sottesa all’istituto della continuazione poggia sulla considerazione che, nonostante la fattispecie sia strutturalmente assimilabile al concorso materiale di reati, nel caso di reato continuato può sostenersi che il soggetto, in conseguenza della riconducibilità dei più episodi criminosi ad un medesimo disegno, abbia ceduto una sola volta ai motivi a delinquere. Per tale ragione il legislatore ha ritenuto che il cumulo giuridico costituisca una risposta sanzionatoria più adeguata rispetto al più sfavorevole cumulo materiale delle pene.

Breve storia dell’istituto del reato continuato

Prima del 1974, il Codice Rocco limitava l’operatività dell’istituto al solo caso della plurima violazione della stessa norma incriminatrice, con più azioni o omissioni esecutive del medesimo disegno criminoso. Il reato continuato, inoltre, veniva espressamente considerato come una fattispecie unitaria (“in tal caso le diverse violazioni si considerano come un solo reato”).

Nel 1974 (con l’art. 8 del decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99 conv. con legge 7 giugno 1974, n. 220) il legislatore ha esteso l’ambito di operatività della continuazione anche ai casi di violazione di diverse norme incriminatrici e, al contempo, ha eliminato ogni riferimento all’unitarietà della fattispecie.

In linea di continuità si è poi posto l’intervento della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (conosciuta come legge ex Cirielli) che ha modificato l’art. 158 c.p.  e previsto la decorrenza del termine di prescrizione per i reati continuati dal giorno in cui si è esaurita la singola condotta illecita, anziché dal giorno in cui è cessata la continuazione.

Come si vede, l’evoluzione normativa dell’istituto è sintomatica della volontà del legislatore di riconoscere autonomia ai singoli episodi criminosi, salvo che sotto il profilo sanzionatorio (disciplinato espressamente in modo unitario dall’art. 81, comma 2, c.p.).

Tuttavia, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (con sentenza n. 3286/2009), pur confermando che “il reato continuato si configura quale particolare ipotesi di concorso di reati che va considerato unitariamente solo per gli effetti espressamente previsti dalla legge, come quelli relativi alla determinazione della pena” ha al contempo rilevato che “per tutti gli altri effetti non espressamente previsti, la considerazione unitaria può essere ammessa esclusivamente a condizione che garantisca un risultato favorevole al reo”.

Sulla scorta di questa impostazione, il reato continuato va comunque considerato come reato unitario ai fini (oltre che dell’applicazione della pena) della dichiarazione di abitualità e professionalità, nonché dell’applicazione dell’istituto della speciale tenuità del fatto ex art. 131-bis, comma 3, c.p.. Il reato continuato va invece considerato come fattispecie plurima, ad esempio, ai fini dell’applicazione dell’amnistia propria e dell’applicazione dell’aggravante della rilevanza economica del pregiudizio patrimoniale (art. 61 c.p., n. 7) e delle attenuanti della speciale tenuità (art. 62 c.p., n. 4) e dell’intervenuto risarcimento (art. 62 c.p., n. 6; in questi casi, infatti, l’entità del danno e l’efficacia della condotta riparatoria devono essere valutate in relazione a ogni singolo reato e non al complesso di tutti i fatti illeciti avvinti dal vincolo della continuazione.

Reato continuato e giudice dell’esecuzione

Non è scontato che sia lo stesso giudice a pronunciarsi su tutti i reati avvinti dal medesimo disegno criminoso.

Anzi, ben può accadere che sia il giudice dell’esecuzione a dover riconoscere che due o più reati, oggetto di due o più sentenze passate in giudicate, erano tra loro legati dal vincolo della continuazione, con conseguente necessità che il giudice dell’esecuzione ricalcoli la pena e applichi “ex post” il cumulo giuridico a beneficio del reo. È quanto previsto espressamente dall’art. 671 c.p.p., in base al quale “nel caso di più sentenze o decreti penali irrevocabili pronunciati in procedimenti distinti contro la stessa persona, il condannato o il pubblico ministero possono chiedere al giudice dell’esecuzione l’applicazione della disciplina del concorso formale o del reato continuato, sempre che la stessa non sia stata esclusa dal giudice della cognizione. Fra gli elementi che incidono sull’applicazione della disciplina del reato continuato vi è a consumazione di più reati in relazione allo stato di tossicodipendenza. Il giudice dell’esecuzione provvede determinando la pena in misura non superiore alla somma di quelle inflitte con ciascuna sentenza o ciascun decreto”.

La norma in discorso risulta senz’altro espressiva un progressivo processo di erosione del principio di intangibilità del giudicato (di cui sono espressione altresì gli artt. 2, commi 2 e 3, c.p. e 673 c.p.p.), giacché quest’ultimo “cede” per consentire l’applicazione di un trattamento sanzionatorio più favorevole al reo.

Si deve tenere conto anche del limite previsto dall’art. 81, comma 2, c.p.?

Come si vede, da un lato l’art.  81, comma, 2 c.p. prevede che il giudice debba applicare al soggetto autore di una fattispecie continuata la pena prevista per la violazione più grave, aumentata al massimo sino al triplo. Dall’altro, l’art 671 c.p.p. prevede invece che giudice dell’esecuzione debba determinare la pena in misura non superiore alla somma di quelle inflitte con ciascuna sentenza o ciascun decreto.

Ci si è dunque chiesti se il giudice dell’esecuzione che rilevi il vincolo della continuazione sia sottoposto a entrambi i limiti previsti dall’art. 81, comma 2, c.p. o soltanto allo specifico limite previsto dall’art. 671, comma 2, c.p.p..

In passato, parte della giurisprudenza riteneva applicabile il solo limite posto dall’art. 671 comma 2, valorizzando la natura speciale di quest’ultima norma rispetto all’art. 81, comma 2, c.p. e l’esigenza di evitare sacche di sostanziale impunità.

Diversamente concludendo, recentemente le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (con sentenza n. 28659/2017) hanno affermato il seguente principio di diritto: “il giudice dell’esecuzione, in caso di riconoscimento della continuazione tra più reati oggetto di distinte sentenze irrevocabili, nel determinare la pena è tenuto anche al rispetto del limite del triplo della pena inflitta per la violazione più grave, oltre che del criterio indicato all’art. 671, comma 2, cod. proc. pen., rappresentato dalla somma delle pene inflitte con ciascuna decisione irrevocabile”.

Tra i vari argomenti cui hanno fatto ricorso le Sezioni Unite, particolare importanza rivestono il principio del favor rei e l’esigenza di pervenire a una interpretazione costituzionalmente orientata rispettosa del principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost., essendo “innegabile che la ratio dell’introduzione dell’art. 671 cod. proc. pen. nel codice di procedura penale oggi vigente sia da rintracciare nell’esigenza di consentire l’applicazione dell’istituto a prescindere dalla sua ‘localizzazione processuale’ (così l’ordinanza di rimessione della Prima Sezione), con l’ovvia conseguenza, anche solo per questo, dell’irragionevolezza – e quindi dell’incostituzionalità – dell’ipotesi della sottoposizione della disciplina del reato continuato in executivis a criteri di determinazione della pena diversi, e, in ipotesi, più sfavorevoli di quelli previsti in sede di cognizione”.

 

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