Rapporti tra contratto preliminare di vendita e curatela fallimentare

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In tema di preliminare di compravendita, comunicata dal promittente venditore la volontà di recedere dal contratto e di incamerare la ricevuta caparra confirmatoria, ai sensi dell’art. 1385, secondo comma, cod. civ., e promossa, prima del fallimento del promissario tradens, domanda giudiziale diretta alla declaratoria della legittimità dell’avvenuto esercizio del mezzo di autotutela per reagire all’altrui inadempimento, imputabile e di non scarsa importanza, il sopravvenuto fallimento di quest’ultimo preclude al curatore di paralizzare, attraverso l’esercizio della facoltà di sciogliersi dal contratto ex art. 72, secondo comma, legge fall., l’emissione di una sentenza, opponibile alla massa dei creditori, che, accogliendo la domanda del promittente, accerti, con effetto ex tunc, l’intervenuta caducazione, già in via stragiudiziale, degli effetti negoziali.

In una pronuncia recente[1] la Corte di Cassazione si è occupata di un caso che bilancia il recesso dal preliminare d’acquisto ex art. 1385 cc e la facoltà del curatore fallimentare di sciogliere il contratto concluso dal fallito ex art.72 Legge Fallimentare.

Il caso da cui trae origine la sentenza è semplice, ma è importante sottolineare la sequenza temporale e logica degli eventi per comprendere meglio il principio di diritto espresso dalla corte.

Nel 1994 (quindi prima dell’introduzione della norma che consente la trascrivibilità del preliminare[2]) viene firmato un contratto preliminare d’acquisto di ingente valore e versata la relativa caparra; successivamente, alla data stabilita per la stipula del definitivo, il promissario acquirente non è finanziariamente in grado di perfezionare il contratto versando il saldo, e il promittente venditore, avvalendosi dell’art. 1385 cc, dichiara di voler recedere dal contratto trattenendo la caparra. Non contentandosi della dichiarazione “stragiudiziale”, parte venditrice inizia azione legale di accertamento tendente a stabilire la legittimità del proprio recesso.

Successivamente alla proposizione della domanda giudiziale il promissario acquirente fallisce, e il curatore, subentrato nella posizione del promissario acquirente, chiede a sua volta lo scioglimento del contratto e la restituzione della caparra.

Quid iuris del contratto preliminare e dell’azione di accertamento in corso?

Per risolvere a questo quesito bisogna specificarlo meglio, e chiedersi: in che momento si è sciolto il contratto?

Nessun dubbio sul fatto che il fallimento, di per sé, non comporta automaticamente lo scioglimento del contratto, e infatti, intervenuto il fallimento, l’altra parte non può successivamente proporre azione di risoluzione, neppure facendo valere un inadempimento pregresso[3]

La suprema corte ha dato una propria e argomentata risposta, che personalmente non mi soddisfa in pieno ma che nel caso concreto ha portata ad una soluzione comunque equa.

Secondo la suprema corte, infatti, la domanda di accertamento giudiziale proposta dal promittente venditore contro il promissario acquirente impedisce al curatore di esercitare, successivamente alla proposizione di tale domanda, domanda di risoluzione del contratto ex. art. 72 della Legge Fallimentare[4].

In tal caso, infatti, interverrebbe in una situazione giuridica già consolidata, esempio perfetto di “diritto quesito[5]. La soluzione si inserisce in un orientamento ormai consolidato[6] e appare senz’altro opportuna, tuttavia in tal caso il fatto che la situazione giuridica si sia già consolidata non discende dalla dichiarazione di voler recedere dal contratto, bensì dalla domanda di accertamento giudiziale proposta successivamente al recesso.

In tal modo si snatura la funzione dell’accertamento. L’azione di accertamento, come dice lo stesso termine, non ha una funzione costitutiva, ma solo una funzione accertativa e, per così dire, “certificatrice” di una situazione giuridica preesistente al giudizio stesso e soprattutto precedente la domanda giudiziale[7].

Se trasponiamo questo concetto al caso concreto, non si può non concludere che il contratto di preliminare era risolto già al momento del recesso della parte non inadempiente, quindi prima della proposizione della domanda giudiziale di accertamento della legittimità del recesso.

Pensare diversamente potrebbe voler dire vincolare le parti a doversi rivolgere sempre e necessariamente al giudice per tutelare la propria posizione, aggravando il carico dei nostri tribunali, ossia proprio il contrario di quanto si sta tentando di fare in questo periodo.

E questo non sarebbe giusto né nei confronti dei giudici, già onerati di lavoro, né nei confronti dei singoli, che si vedrebbero legittimati di una loro legittima pootestà di modificare la loro sfera giuridica economica anche senza l’intervento di un giudice terzo.

Tutto ciò, naturalmente, ammesso e non concesso che il recesso sia, come nel caso di specie, legittimo; se invece il recesso, per qualunque motivo, non fosse stato legittimo, allora il curatore fallimentare ben potrebbe sciogliersi dal contratto e chiedere la restituzione del doppio della caparra. Si tratterebbe, però di due azioni diverse: prima il curatore dovrebbe chiedere (anche qui, con un’azione di accertamento) la nullità del recesso dichiarato da parte venditrice, quindi ottenuta una sentenza favorevole, potrebbe chiedere la risoluzione del contratto.

A maggior ragione il curatore potrebbe chiedere ed ottenere la risoluzione del contratto in assenza di dichiarazione di recesso dell’atra parte contrattuale[8].

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

AAVV, Commentario Scialoja-Branca alla legge fallimentare; Tedeschi, Manuale di diritto fallimentare, 2001; Vassalli, Diritto Fallimentare, I, II, 1997; Inzitari, Sospensione del contratto per sopravvenuto fallimento ed incerti poteri autorizzativi del comitato dei creditori, in Contratto e impresa2007, 1; Guglielmucci, I contratti in corso di esecuzione nelle procedure concorsuali, Padova, 2006; Macario, I rapporti pendenti, in Foro it. 2006, V, 283.

 


[1] Cass. Civ. n. 3728 del 15/02/2011

[2] V. Cass. Civ. Sez. I, 13 maggio 1982, n. 3001

[3] Cass., Civ. Sez. I, 9 dicembre 1982, n. 6713

[4] In caso di fallimento del promittente venditore v. Cass. Civ.  n. 239/1999, in Giust. Civ. 1999, I, 1572; Cass. Civ. n.1376/2000, in Giust. Civ. 2000, I, 1243; Formiggini, Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ. 1997, 358; Salamone, Riv. Dir. Proc. 2004, 377.

[5] Cass. Civ.  Sez. I, 9 dicembre 1998, n. 12396

[6] Cass. Civ. Sez. I, 28 aprile 1961, n. 967; Cass. Civ. Sez. I, 20 marzo 1962, n. 558; Cass. Civ. Sez. I, 13 luglio 1971, n. 2252; Cass. Civ. Sez. I, 13 giugno 1983, n. 4045; Cass. Civ. Sez. II, 21 febbraio 1994, n. 1648; Cass. Civ. Sez. I, 9 dicembre 1998, n. 12396; Cass. Civ. Sez. I, 3 febbraio 2006, n. 2439

[7] Cass. Civ. Sez. Un., 14 gennaio 2009, n. 553

[8] V. Cass. Civ. 5/1/1995 n. 185; Cass. Civ. 23/9/1995 n.10101

Avv. Chiricosta Giovanni

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