Quando il giudizio sull’attualità della pericolosità sociale dell’indiziato di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso può essere fondato su elementi di fatto valorizzati in altri provvedimenti giudiziari

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(Ricorso dichiarato inammissibile)

[Riferimento normativo: D.lgs., 6/09/2011, n. 159, art. 4, c. 1, lett. a)]

Il fatto

La Corte di appello di Palermo parzialmente riformava il decreto emesso dal Tribunale di Agrigento che aveva applicato al proposto la misura di prevenzione della sorveglianza speciale della pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno nel Comune di residenza per anni cinque imponendogli il versamento di una cauzione di euro 2.000,00 in quanto persona socialmente pericolosa perché appartenente ad una famiglia intranea all’associazione Cosa Nostra.

In particolare, la Corte di appello aveva ridotto ad anni tre e mesi sei la durata della misura di prevenzione.

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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso questo provvedimento proponeva ricorso per Cassazione il destinatario di questa misura di prevenzione, per il tramite del suo difensore, chiedendosi l’annullamento sulla base di un unico motivo con il quale deduceva violazione di legge ed in particolare dell’art. 1 legge n. 575 del 1965 e dell’art. 416-bis cod. pen..

Il difesa osservava a tal proposito come la motivazione del provvedimento fosse apodittica poiché non sussistevano elementi dai quali desumere la effettiva ed attuale vicinanza del proposto all’associazione mafiosa.

La Corte territoriale, difatti, ad avviso dell’impugnante, aveva valorizzato l’emissione nei suoi confronti di un’ordinanza di custodia cautelare datata 16 luglio 2012 per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. alla quale era seguita condanna alla pena di anni sette di reclusione divenuta irrevocabile il 18 aprile 2015 fermo restando che mancava anche la prova del suo recesso dall’associazione criminale mentre, in realtà, se le indagini, che avevano condotto alla sua condanna, avevano preso le mosse dall’omicidio di P. C., la sua condanna si basava sulle dichiarazioni dei parenti del C. e di collaboratori di giustizia che erano inattendibili e comunque non riscontrate.

Tal che se ne faceva conseguire come la pericolosità attuale del S. non potesse ricavarsi da una mera sentenza di condanna essendo necessario accertare ulteriori comportamenti a tal fine rilevanti.

Il difensore osservava a tal proposito che l’autonomia del procedimento di prevenzione rispetto a quello di merito consentiva una rivalutazione delle prove sulla base delle quali era stata pronunciata condanna e la negazione della sua appartenenza all’associazione di tipo mafioso ma, in ogni caso, la pericolosità si attenuava quanto più gli indici rivelatori di essa si collocavano lontani nel tempo e ad essi si accompagnavano ulteriori elementi che deponevano per la non vicinanza del proposto all’associazione criminale quale era il periodo di detenzione sofferto dal S..

Da ciò il ricorrente giungeva alla conclusione secondo la quale il decreto impugnato era illogico poiché in esso si dava atto che dal giudizio penale era emerso come egli non occupasse una posizione apicale in seno all’associazione mafiosa ma tale elemento era stato valorizzato al limitato fine della riduzione della durata della misura di prevenzione mentre esso avrebbe dovuto indurre la Corte di appello ad escludere le attuale pericolosità sociale del proposto considerato che la condanna si fondava su fatti risalenti ai primi anni dello scorso decennio e tenuto conto anche della età molto avanzata del S..

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso veniva ritenuto inammissibile in quanto manifestamente infondato.

Si osservava a tal proposito prima di tutto come fosse ben vero che il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione personali e quello penale sono in rapporto di reciproca autonomia cosicché tra i due procedimenti non vi è un rapporto di pregiudizialità e che il giudice della prevenzione può utilizzare elementi desumibili dal procedimento penale ancora pendente ma ha il dovere di procedere ad un’autonoma ed obiettiva valutazione del materiale probatorio acquisito nel processo penale non essendo sufficiente il mero rinvio ricettizio al contenuto della sentenza di condanna o di assoluzione.

Da ciò se ne faceva conseguire che, in tema di misure di prevenzione, il giudizio sull’attualità della pericolosità sociale dell’indiziato di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso può essere fondato su elementi di fatto valorizzati in altri provvedimenti giudiziari a condizione che ne sia effettuata un’autonoma valutazione senza possibilità di recepire acriticamente il giudizio prognostico sulla pericolosità sociale contenuto in detti provvedimenti, anche se relativi a misure di sicurezza o a misure cautelari (Sez. 1, n. 10034 del 05/02/2019) dato che tale autonoma valutazione è imposta dal diverso oggetto dell’accertamento nei due giudizi in quanto il giudizio penale accerta la responsabilità penale dell’imputato per un determinato fatto di reato mentre, nel procedimento di prevenzione, si deve accertare la attuale pericolosità sociale del proposto fermo restando però che siffatta autonomia non significa che, come invece sostiene il ricorrente, il giudice della prevenzione debba nuovamente valutare la correttezza dell’accertamento operato dal giudice penale posto che, per dichiarare la pericolosità sociale di un soggetto, non serve dimostrare la colpevolezza dello stesso oltre ogni ragionevole dubbio e l’esistenza di un fatto rilevante ai fini della pericolosità sociale può essere desunta da indizi non caratterizzati da gravità precisione e concordanza.

Difatti, sempre secondo quanto rilevato dal Supremo Consesso, posto che, nel giudizio di prevenzione, considerata l’autonomia del procedimento rispetto al giudizio di merito, la prova indiretta o indiziaria non deve essere dotata dei caratteri prescritti dall’art. 192, cod. proc. pen., né le chiamate in correità o in reità devono essere necessariamente sorrette da riscontri individualizzanti (Sez. 5, n. 17946 del 15/03/2018), il ricorso era manifestamente infondato laddove veniva sostenuto che la Corte di appello avrebbe dovuto rivalutare le prove assunte nel giudizio penale conclusosi con la condanna del S. per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. ed, in particolare, rivalutare la attendibilità dei dichiaranti e la sussistenza di riscontri esterni.

Ciò posto, si faceva altresì presente come, dalla lettura della motivazione del provvedimento impugnato, emergesse che la Corte di appello aveva proceduto ad un’autonoma valutazione del materiale acquisito nel procedimento penale al fine di accertare la attuale pericolosità del proposto facendo corretta applicazione dei principi affermati dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 111 del 30/11/2017 – dep. 04/01/2018) visto che siffatte Sezioni hanno affermato che la nozione di «appartenente» alle associazioni di cui all’art. 416-bis cod. pen., rilevante ai fini di cui all’art. 4, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 159 del 2011, comprende anche i casi di «condotte non connotate dal vincolo stabile, ma astrattamente inquadrabili nella figura del concorso esterno di cui agli artt. 110, 416-bis cod. pen., per definizione caratterizzata da una collaborazione occasionale, espressa in unico o diluito contesto temporale, che si realizza con riferimento a circoscritte esigenze del gruppo, in correlazione con la loro insorgenza, ed è quindi ontologicamente priva della connotazione tipica della condotta partecipativa, costituita dallo stabile inserimento nell’organizzazione criminale con caratteristica di spiccata e persistente pericolosità, derivante dalla connotazione strutturale, mentre risulta estranea a tale concetto la mera collateralità che non si sostanzi in sintomi di un apporto individuabile alla vita della compagine».

Di conseguenza, alla luce di questo passaggio argomentativo ricavabile da tale arresto giurisprudenziale, gli ermellini, nella decisione qui in commento, rilevavano come occorresse distinguere tra «partecipe», «appartenente» e «contiguo» visto che, mentre nell’ipotesi in cui l’appartenenza non diventa finanche partecipazione all’associazione di tipo mafioso per la mancanza di stabilità connessa alla natura di tale cooperazione, non può legittimarsi l’applicazione di presunzioni semplici la cui valenza si fonda sulle caratteristiche del patto sociale tendenzialmente indissolubile e, quindi, occorre che l’accertamento di attualità sia logicamente ancorato a valutazioni specifiche sulla ripetitività dell’apporto, sulla permanenza di determinate condizioni di vita ed interessi in comune, nel caso in cui invece sussistano elementi sintomatici di una «partecipazione» del proposto al sodalizio mafioso, è invece possibile applicare la presunzione semplice relativa alla stabilità del vincolo associativo purché la sua validità sia verificata alla luce degli specifici elementi di fatto desumibili dal caso concreto e la stessa non sia posta quale unico fondamento dell’accertamento di attualità della pericolosità.

Preso atto di tale distinzione, i giudici di piazza Cavour osservavano come nel provvedimento impugnato fosse stato evidenziato che, dagli elementi di prova acquisiti nel processo penale, emergevano la notevole durata della partecipazione del S. all’associazione Cosa Nostra protrattasi sino al 2012, il ruolo apicale da lui ricoperto in seno alla famiglia intranea a questa associazione, la sua partecipazione ai proventi dell’attività di estorsione ai danni di imprenditori ed alle riunioni volte a stabilire strategie e decidere azioni criminali, impartendo ordini agli altri associati.

Pertanto, sulla base di tali elementi, secondo quanto rilevato dalla Suprema Corte, i giudici di appello avevano evidenziato come il S. non fosse un semplice appartenente all’associazione di tipo mafioso ma un partecipe a Cosa Nostra con la conseguenza che, non essendo ravvisabili segni di un suo allontanamento da detta associazione criminale, neppure dedotti dal S., la sua pericolosità sociale doveva ritenersi ancora attuale pur a fronte del periodo di detenzione subito, inidoneo a recidere il legame tra Cosa Nostra ed i suoi associati.

Si evidenziava infine come la motivazione del provvedimento impugnato non fosse nemmeno illogica atteso che i giudici della Corte di appello avevano tenuto conto della circostanza che il S. attualmente non ricopriva più un ruolo apicale in Cosa Nostra per ridurre la durata della misura di prevenzione ma avevano pure considerato che egli era ancora legato all’associazione criminale, da lui mai rinnegata, per confermare la attualità della sua pericolosità sociale.

Conclusioni

La sentenza in oggetto è assai interessante nella parte in cui viene affermato, avvalendosi di un precedente conforme, che il giudizio sull’attualità della pericolosità sociale dell’indiziato di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso può essere fondato su elementi di fatto valorizzati in altri provvedimenti giudiziari a condizione che ne sia effettuata un’autonoma valutazione senza possibilità di recepire acriticamente il giudizio prognostico sulla pericolosità sociale contenuto in detti provvedimenti anche se relativi a misure di sicurezza o a misure cautelari posto che tale autonoma valutazione è imposta dal diverso oggetto dell’accertamento nei due giudizi in quanto il giudizio penale accerta la responsabilità penale dell’imputato per un determinato fatto di reato mentre, nel procedimento di prevenzione, si deve accertare la attuale pericolosità sociale del proposto

Tale principio di diritto, a sua volta, si basa sulla premessa secondo la quale, in tema di misure di prevenzione, è ben vero che il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione personali e quello penale sono in rapporto di reciproca autonomia cosicché tra i due procedimenti non vi è un rapporto di pregiudizialità e che il giudice della prevenzione può utilizzare elementi desumibili dal procedimento penale ancora pendente ma ha il dovere di procedere ad un’autonoma ed obiettiva valutazione del materiale probatorio acquisito nel processo penale non essendo sufficiente il mero rinvio ricettizio al contenuto della sentenza di condanna o di assoluzione.

Di conseguenza, alla stregua di quanto enunciato in tale pronuncia, il giudizio sull’attualità della pericolosità sociale dell’indiziato di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso possa essere fondata su elementi di fatto valorizzati in altri provvedimenti giudiziari purché però si proceda ad una autonoma valutazione del materiale probatorio valorizzato in siffatti provvedimenti senza invece limitarsi ad accettare supinamente il contenuto di queste decisioni.

Tale decisione, quindi, deve essere presa nella dovuta considerazione ogniqualvolta, quando venga chiesta l’applicazione di una misura di prevenzione personale, si faccia riferimento a elementi di fatto valorizzati in altri provvedimenti giudiziari.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in cotale decisione, dunque, proprio perché fa chiarezza su tale tematica giuridica, non può che essere positivo.

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Autori e vittime di reato

Il presente volume, pubblicato grazie al sostegno economico dell’Università degli Studi di Milano (Piano di sostegno alla ricerca 2016/2017, azione D), raccoglie i contributi, rivisti ed aggiornati, presentati al convegno internazionale del 7 giugno 2016, al fine di consentire, anche a coloro che non hanno potuto presenziare all’evento, di vedere raccolte alcune delle relazioni, che sono confluite in un testo scritto, e i posters scientifici che sono stati esposti, in quella giornata, a Palazzo Greppi (Milano) e successivamente pubblicati sulla Rivista giuridica Diritto Penale Contemporaneo (www.penalecontemporaneo.it). Raffaele Bianchetti è un giurista, specialista in criminologia clinica; lavora come ricercatore presso il Dipartimento di Scienze giuridiche “Cesare Beccaria” dell’Università degli Studi di Milano e come magistrato onorario presso il Tribunale di Milano. Da anni insegna Criminologia e Criminalistica e svolge attività didattica all’interno di corsi di formazione post-lauream e di alta formazione in Italia e all’estero; partecipa come relatore a convegni, congressi e incontri di studio nazionali ed internazionali; fa parte di gruppi di ricerca, anche di natura transnazionale, coordinandone alcuni come responsabile dei progetti. È autore di scritti monografici e di pubblicazioni giuridiche di stampo criminologico, alcune delle quali sono edite all’interno di opere collettanee e di riviste scientifiche specializzate. Membro componente di comitati scientifici e di comitati redazionali, è condirettore  di due collane editoriali.Luca Lupária Professore Ordinario di Diritto processuale penale nell’Università degli Studi di Roma Tre e visiting professor  in Atenei europei e americani, è autore di scritti monografici su temi centrali della giustizia penale e di oltre cento pubblicazioni scientifiche, apparse anche su riviste straniere e volumi internazionali. È responsabile di programmi e gruppi di ricerca transnazionali sui diritti delle vittime, sulle garanzie europee dell’imputato e   sui rimedi all’errore giudiziario. Condirettore di collane editoriali, è vice-direttore della rivista “Diritto penale contemporaneo” .Elena Mariani è laureata in giurisprudenza e specialista in criminologia clinica. Da oltre dieci anni collabora con la Catte- dra di Criminologia e Criminalistica del Dipartimento di Scienze giuridiche “Cesare Beccaria” dell’Università degli Studi di Milano, effettuando seminari e attività di ricerca sui temi della giustizia penale minorile, della vittimologia, dell’esecuzione penale e delle misure di prevenzione. Svolge da anni attività didattica in corsi di formazione post-lauream e di alta formazione presso diversi atenei italiani. È autrice di una monografia in tema di sistema sanzionatorio minorile e per gli adulti edita in questa Collana e di varie pubblicazioni in materia criminologica, edite all’interno di opere collettanee e di riviste scientifiche specializzate. Attualmente   è componente esperto del Tribunale di Sorveglianza di Milano e dottoranda di ricerca in diritto penale presso l’Università degli Studi di Milano. 

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